6.2.13

Il mistero dell’India nella letteratura europea (di Antonio Tabucchi)

Tempio di Elephanta. Sculture rupestri
Una storia esemplare: quando i portoghesi di Vasco de Gama sbarcarono in un'isoletta davanti a Bombay e penetrarono nelle grotte del tempio rupestre di Elephanta, misero mano ai picconi e assalirono furiosamente le ciclopiche statue del Pantheon induista intagliate nella roccia. Irrimediabilmente sfigurate esse sono mostrate oggi, con il sommesso rammarico della guida locale, al visitatore europeo.
Mi sono chiesto spesso che cosa guidò quell'atto vandalico. Le cronache portoghesi dell'epoca sono prodighe di ragguagli sulla fervente fede cristiana che animava i navigatori. Ma non si trattò solo di una crociata contro gli "idoli". Quegli esausti navigatori venivano da un paese dell'Occidente controriformista, erano abituati a una religione tranquillizzante fatta di un inferno punitivo e di un paradiso ricompensatore, popolata di santi dal volto buono, di un demonio chiaramente malvagio e di madonne materne e azzurre. Conobbero improvvisamente un universo senza centro, il concetto dell'ibrido; sospettarono un cosmico riciclaggio, una visione terrifica e non antropomorfa del mondo. Ebbero paura. I loro picconi furono mossi dalla Paura.
Oggi, di fronte al brivido di follia che percorre l'India, di fronte alla paura che questo grande ventre ci incute e si incute, viene il desiderio di rileggere l'antica Madre della cultura attraverso gli occhi della letteratura dell' Occidente. Ma prima della Paura, naturalmente, c'era stata la Meraviglia: Marco Polo, Mandeville (si veda la recente edizione dei Viaggi, il Saggiatore, 1982), e le montagne d'oro custodite dalle formiche, e i fiumi che provengono dal paradiso terrestre, e perché l'imperatore dell'India sia chiamato Prete Gianni: e tutta la mitologia che fiorì in Europa sul favoloso personaggio, e le spedizioni dei portoghesi alla ricerca del reame della felicità, in quella Taprobane (Ceylon) che fu poi dei Lusiadi di Camoes e dove Campanella collocò la sua Città del Sole. E Filippo Sassetti fiorentino; e Francesco Carletti, avventuriero e cinico esteta; e "l' apostolo delle Indie" Francesco Saverio, sepolto nella Dorata Goa.
E poi venne l'Esotismo, ma abbiamo già saltato due o tre secoli. L'esotismo fine Ottocento di una letteratura stanca dei salotti borghesi, dei tradimenti coniugali in provincia e dei suburbi di Zola. L'India era l'Altrove per eccellenza: perché era misteriosa, certo, i cadaveri dei Parsi imputridivano sulle Torri del Silenzio, i diamanti del regno di Golconda erano grossi come uova, le giungle inestricabili nascondevano sette sanguinarie, nei palazzi favolosi danzavano le bajadere per il divertimento del Mogol e del Marahajah. Signore con busto di balena e signori con l'arricciabaffi ingannavano il tedio serale leggendo le avventure dell' ufficiale di marina Pierre Loti (L'Inde, 1898), verosimili come oleografie. Era il cinema che non c'era ancora. Il Novecento letterario europeo si affaccia così sull'India: sulla scia di un esotismo che significa evasione, voglia di estasi e di viaggi onirici. E che significa sostanzialmente un Oriente in opposizione a un Occidente colonialista e bellicoso ma intimamente stanco. Un Oriente, come scriverà nel 1914 Fernando Pessoa, "Da cui viene tutto, il giorno e la fede / l' Oriente pomposo e fanatico e caldo / l' Oriente buddista, bramanico, scintoista / l' Oriente che è tutto quanto noi non abbiamo / tutto quanto noi non siamo". Quest'Occidente spossato, con lo sguardo velato dalla malinconia e dalla febbre, ha per l'Italia gli occhi di un giovane dandy torinese, Guido Gozzano, anche lui alla ricerca della Cuna del mondo, viaggiatore menzognero e geniale che si inventa dell'India tutto ciò che non può vedere e che coglie invece ciò che porta imprescindibilmente nell'animo: il senso della morte e la struggente consapevolezza di una insormontabile indecifrabilità. Tralasciando un po' indebitamente il grande Kipling, che riuscì a vedere e a "capire" l'India con gli occhi della sua sovrana, la letteratura novecentesca europea ammette nei confronti dell'India la sua sostanziale incapacità di capire. E' la glaciale conclusione di Passaggio in India (1924) di Forster, il più mirabile romanzo sull'India, assunta qui a metafora dell'universale incomprensione: l'incomprensione dei colonizzatori verso i colonizzati, dei colonizzati verso i colonizzatori di entrambi verso se stessi. E poi c'è Un barbaro in Asia (1931) di Henri Michaux, viaggiatore interiore per eccellenza, che si è volutamente rifiutato di capire l'India, limitandosi ad osservarla con l'ironia e la leggerezza di chi non si sente più europeo perché ha già trovato il suo privato Altrove. Ma prima di lui c'è il vagabondo Hermann Hesse, e naturalmente il suo Vagabondaggio intersecato da viandanti e pellegrini; e principalmente il Viaggio in India, giornale del viaggio intrapreso nel 1911. Ma Hesse non cercava l'India, cercava la negazione delle antinomie kantiane, un Assoluto Impersonale che altri scrittori meno mistici e più sensuali hanno forse saputo trovare nell'estetismo ellenizzante (penso a Kavafis, a Durrell, e forse dico un'eresia). Romain Rolland (L'Inde, Journal, 1915-1943) cercava invece la tolleranza, la grande intesa universale, quello che oggi si chiama il dialogo: e lo intessè principalmente con la tolleranza fatta persona, Gandhi (Gandhi et Rolland: correspondance, Albin Michel, 1960). E poi venne Malraux, che cercava l'Uomo e il senso dell'esistenza e oltre che all'inferocita Indocina coloniale si rivolse all'India (Antimèmoires, Gallimard 1967). Siamo al nostro oggi, al passato recentissimo. E alle cronache di viaggio degli scrittori italiani più rappresentativi. C' è il Flajano di Un giorno a Bombay (Rizzoli 1971), e Un'idea dell'India di Moravia (Bompiani 1962). Un'India, quest'ultima, guardata soprattutto nei suoi problemi umani e sociali, ma anche un'India sfuggente ed enigmatica, perché la si può solo "sentire", così come "si sente, al buio, la presenza di qualcuno che non si vede, che tace eppure c'è". Ma chi più ha sentito l'India, in un libro ammirevole, è stato Pasolini. Rinunciando a capire l'India con gli occhi dell' Occidente, Pasolini l'ha capita in modo diretto e profondo: con i sensi. L'odore dell' India (Longanesi 1962) è il libro di un uomo che ha ritrovato il suo male di vivere in un'umanità sciagurata e dolente e che ha capito che l'India possiede questo strano sortilegio: di farci compiere un viaggio circolare alla fine del quale forse ci troviamo davvero di fronte a noi stessi. Senza sapere chi siamo.

“la Repubblica”, 11 novembre 1984

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