17.1.13

Sciascia e i governanti ingovernabili (Marco Belpoliti)

Recensione di una raccolta dei “discorsi parlamentari” di Leonardo Sciascia, l’articolo individua alcuni nodi tuttora irrisolti nella ricezione dell’opera dello scrittore siciliano e del messaggio che essa contiene. (S.L.L.)
Nella primavera del 1979 Marco Pannella vola in Sicilia per incontrare Leonardo Sciascia. Ha intenzione di offrirgli una doppia candidatura alle prossime elezioni politiche nelle liste radicali: deputato al Parlamento italiano e deputato europeo. Dopo la morte di Pasolini, Sciascia è rimasto uno dei pochi scrittori che continuano a occuparsi in modo diretto di politica. Meno di un anno prima ha pubblicato presso Sellerio un libro che ha fatto rumore: L'affaire Moro. La discussione è al calor bianco, con interviste, articoli, repliche e persino duri silenzi.
Da almeno un paio di anni Sciascia è al centro dell'attenzione, da quando si è dimesso in modo polemico, nel gennaio del 1976, dal consiglio comunale di Palermo, dove era stato eletto come indipendente nelle liste del Partito comunista. In quella occasione ha scritto sul “Corriere della Sera” un intervento pessimista e malinconico: «chi scrive libri è meglio che continui a farlo lontano, fisicamente lontano dai luoghi in cui si celebra la democrazia come forma. Il cosiddetto "intellettuale", strano animale di incerta utilizzazione, una volta sottratto alla carta stampata, è meglio che i partiti lo prendano quando davvero sapranno come utilizzarlo».
Ma si tratta di un congedo provvisorio, come la visita siciliana di Pannella dimostra subito dopo. Il distacco, quello vero, è invece già avvenuto: nel 1971, con la pubblicazione del Contesto, uno strano romanzo giallo in cui lo scrittore ipotizzava in forma narrativa ed enigmatica, tra ammazzamenti di giudici e storie di corna, il coinvolgimento del Partito comunista nella gestione del potere accanto ai democristiani. Le recensioni negative fioccano sui giornali dell'area comunista e Sciascia, lo scrittore del Giorno della civetta, accusato dalla destra di comunismo, diventa per la sinistra un eretico.
Pannella non faticherà molto a convincerlo. Probabilmente lo lusinga, lo richiama al suo ruolo di uomo pubblico, e soprattutto fa leva sul suo tratto anticonformistico. Nella prima intervista a "Radio radicale" che gli chiede i motivi della sua candidatura, Sciascia dichiara: «E' stata una decisione improvvisa e sorprendente anche per me perché ero fermamente deciso a non entrare in nessuna competizione elettorale con nessun partito»; e subito aggiunge che proprio perché i motivi per dire di no erano tanti, ragionevoli e sicuri, lui ha deciso il contrario. Sciascia ama contraddirsi, anche se, a ben vedere, è molto coerente con se stesso, con quella volontà di trovare l'assoluto che persino un suo avversario politico, il democristiano Gerardo Bianco, saprà intuire nel discorso di commemorazione a Montecitorio il giorno della sua morte, nel 1989.
Sciascia è eletto in entrambe le competizioni elettorali e opta per il Parlamento italiano. I radicali segnano una significativa affermazione, sopra il 3% dei voti complessivi, mentre il Partito comunista perde il 4%. La presenza di Sciascia nell'aula di Montecitorio non sarà assidua, i suoi interventi non frequenti; scarse anche le proposte di legge che recano la sua firma. La sua attività di parlamentare ha invece un baricentro: la commissione d'inchiesta sul sequestro e l'uccisione di Aldo Moro.
Nel volume appena pubblicato a cura di Lanfranco Palazzolo, Leonardo Sciascia deputato radicale, 1979-1983 (Kaos Edizioni), sono raccolti i discorsi dello scrittore. Il primo è un breve intervento di quattro pagine, nell'agosto del 1979, in occasione del voto di fiducia al nuovo governo guidato da Francesco Cossiga, già ministro dell'Interno durante il sequestro Moro. La prosa di Sciascia è inconfondibile: esatta, cadenzata, come quella di un maestro elementare, ma anche involuta e barocca come la sua mente. Esordisce con un paradosso: non è vero che l'Italia è ingovernabile; anzi, «è il paese più governabile che esita al mondo»; ingovernabili sono invece coloro che lo reggono: i governanti. La causa dei mali del paese - terrorismo, malaffare, corruzione - è responsabilità della classe politica al potere.
Sciascia attacca Cossiga e gli chiede ragione del suo operato durante i giorni del sequestro Moro. Ogni volta che ha occasione di intervenire in aula, legge da piccoli fogli scritti a mano, conia penna stilografica; pronuncia le parole lentamente, in modo cadenzato, con la sua inflessione siciliana da cui traspare qualcosa di pacato e insieme di angosciato. Non sono molti discorsi, poco più di una decina, alcuni legati a temi molto contingenti. E tuttavia la prosa retorica di Sciascia, pensata per quel luogo e per quella funzione, contiene riferimenti letterari, citazioni storiche, ricordi e rimandi alle vicende politiche presenti e passate. Sono citazioni che Sciascia, il quale ama la storia locale, i piccoli avvenimenti della cronaca, usa per spiegare il suo pensiero, ma anche per intromettere nel discorso altri punti focali che esorbitano da quel luogo e da quel momento: degli exempla.
Durante una seduta, al presidente che lo richiama per le sue affermazioni sul presidente del Senato, replica: «Ho detto quello che ho detto», frase in cui c'è tutto l'orgoglio e la caparbietà di un uomo abituato a sentirsi responsabile delle sue parole sulla pagina. Sciascia predilige il dettaglio, lo reputa significativo, come si vede nei dialoghi in commissione con il generale Dalla Chiesa, Eleonora Moro, Cossiga, Andreotti, Zaccagnini e Berlinguer. Cita fonti giornalistiche e conversazioni private; esibisce riferimenti ad articoli, dichiarazioni e interviste; ha il gusto della replica: secca, pungente.
Sciascia non ama il mestiere di parlamentare, anzi, lo trova spesso deprimente. In un articolo di giornale, poco dopo l'elezione, parla dei suoi colleghi e di se stesso come di «una sorda e grigia umanità»: «Al contrario che nel regno di Dio, in una Repubblica democratica molti sono gli eletti, pochi i chiamati».
Il volume è incentrato su tre nuclei tematici: i discorsi in aula; la commissione Moro; il sequestro del magistrato D'Ureo da parte delle Brigate rosse ; cui si aggiungono le interviste e alcune registrazioni a Radio radicale. Il suo punto alto è la relazione di minoranza alla commissione Moro, ora parte integrale dell'Affaire.
Il volume mette l'accento su un aspetto rimosso dello scrittore. C’è infatti un nodo irrisolto che riguarda la ricezione dell'opera di Sciascia: il suo rapporto con la politica. Nessuno dei libri dedicati allo scrittore siciliano, salvo qualche rara eccezione, affronta allo stesso tempo politica e letteratura. Anche le opere più acute e intelligenti tengono separati questi due aspetti; così che si scrive di lui o come scrittore o come politico. Chi si occupa dello scrittore non affronta le sue prese di posizione: la polemica con il Partito comunista, gli anni da deputato radicale e l'aspra disputa sui «professionisti dell'antimafia»; mentre i «politici» utilizzano la sua figura di scrittore per avvallare, a volte in modo polemico, le loro passate o presenti posizioni politiche: non cercano di capirlo nella sua interezza.
Un chiasmo sbagliato, oltre che ingiusto. Chi vuole capire il ruolo di intellettuale-scrittore di Leonardo Sciascia, le sue intime ragioni, deve sfinirsi a mani nude con nodi e viluppi, corde e intrichi, con pazienza e dedizione, senza poter recidere il tutto con un semplice colpo di spada. Nel 1977, l'anno della rivolta studentesca, del movimento degli indiani metropolitani e dell'Autonomia operaia, nel bel mezzo del terrorismo all'italiana, tra Brigate rosse e attentati neofascisti, Sciascia scrive che l'intellettuale è «un professionista dell’intelligenza», il quale «esercita nella società civile - almeno dall'affare Dreyfus in poi - la funzione di capire i fatti, di interpretarli, di coglierne le implicazioni anche remote, di scorgerne le conseguenze possibili». Oggi che il dibattito sulla presenza degli intellettuali nella politica si riaffaccia come un pallido fantasma sulle colonne dei giornali, le tre funzioni indicate dallo scrittore siciliano restano imprescindibili: capire, interpretare, cogliere le conseguenze. Davvero un bel programma ancora valido per tutti.

“La Stampa”, 26 febbraio 2004

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