19.1.13

Il mestiere di Pietro Germi, l'Antifellini (di Tullio Kezich)

Chi l'ha intervistato ai suoi bei dì lo ricorda come un personaggio difficile, strappare qualche dichiarazione a Pietro Germi sul film che stava girando era un'impresa improba. Si sedeva davanti come se la sedia gli scottasse e urgenze ineluttabili lo stessero chiamando altrove; e ti rispondeva a monosillabi ("Sì, no, mah"), ansioso di arrivare al liberatorio "Arrivederci". Era, insomma, l'anti Fellini: quanto il riminese, da bravo ex collega, veniva incontro alle richieste del più modesto giornalista per fargli fare bella figura in redazione, tanto il genovese era incomprensivo e chiuso a riccio. Anche per questo, forse, i libri su Fellini, Rossellini, Visconti, Lattuada e altri protagonisti del nostro grande cinema riempiono gli scaffali, mentre su Germi non c' è quasi niente.
Pietro e Federico erano l'antitesi perfetta, ma si stimavano. Già regista affermato, il primo finché l'altro fu su piazza come sceneggiatore lo volle sempre accanto a sé; e l' autore dei Vitelloni, di sei anni più giovane, imparò qualcosa lavorando nella bottega del maestro. Al di là dell' ammirazione, Fellini era imbarazzato dal rapporto con un tipo simile e lo paventava un po'. Tanto da ricavarne una formula discorsiva, che gli sentii usare spesso per sintetizzare certe situazioni di ristagno nella conversazione: "Uno di quei silenzi alla Germi". Il fatto curioso è che il facondo e disponibile Fellini era il portatore di un'idea assolutamente personalizzata del cinema, di una poetica irriducibile e sorda a ogni esigenza esterna; mentre Germi, rigoroso fino all'austerità, fu la più attendibile versione italiana del cineasta all'antica hollywoodiana: in grado di alternare drammi e commedie, tragedie e farse, film socialmente impegnati e film d'evasione; e sempre con un occhio rivolto alle logiche della produzione e perfino del produttore, con un istintivo e rassicurante senso del mercato. Forse per questo un gigante come Billy Wilder continuò a prediligerlo.
Se Pietro Germi non fosse morto di cirrosi epatica il 5 dicembre 1974, oggi compirebbe 80 anni: l'eta' di Alberto Lattuada, sei mesi più di Mario Monicelli, due anni più di Dino Risi e Luigi Comencini. Rispetto a questi coetanei o quasi, il nostro fece meno film (19 titoli articolati su tre decenni scarsi di operosità) in una carriera contrassegnata da tribolazioni e molteplici cambiamenti di rotta.
Cominciò con drammi di cronaca nera alla francese (Il testimone, Gioventù perduta) e proseguì con un dittico western alla siciliana (In nome della legge e Il cammino della speranza, omaggio a Furore di John Ford) dove l'assunto sociopolitico era contraddetto da un'irresistibile tendenza alla spettacolarità. Dopo il fiasco di La città si difende, "city gangster film" all'amatriciana che rivisto oggi sembra il "prossimamente" del Bidone felliniano, Germi sbalordì tutti accettando di dirigere La presidentessa, la più classica delle pochades. Ma lo sbalordimento aumentò quando si scoprì che il film era fatto bene, Silvana Pampanini insolitamente accettabile e il divertimento garantito. Un film di Germi che faceva ridere? Se fu una scoperta pure per l'autore, lui la tenne per sè e tornò al western meridionalizzato con Il brigante di Tacca del lupo e all'odiosamata Sicilia con Gelosia.
Poi si verificò la svolta intimistico populista, che la presenza dell'autore come protagonista farebbe quasi ritenere autobiografica, con l'appassionata trilogia romana composta da Il ferroviere, L' uomo di paglia e Un maledetto imbroglio (quest' ultimo atteggiato a "giallo" e tratto da Carlo Emilio Gadda). E sull'inizio degli anni 60, via libera alla risata a lungo repressa in un'altra trilogia di costume, stavolta aggressiva e beffarda: due capitoli ancora in Sicilia, Divorzio all' italiana e Sedotta e abbandonata, e una puntata a Treviso, Signori e Signore, frutto della collaborazione con lo sceneggiatore veneto Luciano Vincenzoni.
Hollywoodiano anche in questo, Germi annetteva una particolare importanza agli scrittori che via via associava al suo lavoro: dalla coppia Fellini Pinelli ad Alfredo Giannetti, da Ennio De Concini a Benvenuti e De Bernardi. Tormentato da un tic facciale che si bloccava solo al momento in cui doveva recitare, temperamentale fino a diventare iracondo, pronto all' amore come all' antipatia, sempre con il toscano fra le dita e fedele al bicchiere di vino bevuto nelle osterie di quartiere, man mano che il tempo passava Germi si sentiva sempre più un personaggio d'altri tempi.
Nell'ultima parte della sua carriera questa nostalgia dei valori in via di sparizione gli prese la mano e forse offuscò a tratti la sua lucidità. Non tutti parvero disposti a perdonargli l'apologia del semplicione di Serafino (un Forrest Gump avantilettera?) o un titolo reazionario come Le castagne sono buone. Ma Dustin Hoffman, che militò ai suoi ordini nello sfortunato e finale Alfredo Alfredo, continua a parlarne con infinito rispetto come di un uomo tutto di un pezzo, fiero del proprio mestiere e insofferente d' ogni cialtroneria.
In un'assemblea dei primi anni 50 sentii Germi fare una sparata contro certi settori del cinema ancora legati al passato regime. Quand'era il momento di mobilitarsi a difesa delle cose in cui credeva, questo conservatore ribelle ritrovava la parola e tirava fuori perfino l'urlo. Fin troppo facile immaginare come tuonerebbe oggi per fronteggiare i postfascisti all'arrembaggio di Cinecittà .

“Corriere della Sera”, 5 dicembre 1994

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