26.1.13

Antichi romanzi. Belle e vergini (di Lidia Storoni)


Jean-Pierre Cortot, Dafni e Cloe, 1827, Museo del Louvre
Oggetto del consumismo non sono solo i vestiti, i motori, i lampadari. Appagati i desideri primari, si affacciano altre esigenze: ultima, la curiosità di sapere e la cultura. Anche quello delle emozioni è consumo. Si appaga con gli sceneggiati, le telenovelas, i film, spettacoli di livello spesso più basso del teatro e di consumo infinitamente più vasto. Libanio, un retore d'Antiochia, deplorava nel IV secolo che le arene troppo ampie e il pubblico troppo numeroso non consentissero più la rappresentazione delle tragedie classiche: prevalevano, allora come oggi, gli spettacoli osceni e crudeli, contro i quali scrissero parole di fuoco i Padri della Chiesa, da Tertulliano ad Agostino.
Segue, con passo incerto, la lettura. Dipende dall'aumento dell'alfabetizzazione, dal lancio pubblicitario di opere divulgative, dalle copertine erotiche. Alle tragedie di Shakespeare, di Corneille, di Racine, fecero seguito i romanzi borghesi: vicende drammatiche non più vissute da sovrani e condottieri, ma da gente comune, in ambienti modesti.
Lo stesso fenomeno, e cioè una più estesa acculturazione, stimolò anche nel mondo antico la produzione di romanzi; naturalmente, alla relativa analogia nelle premesse non corrisponde la somiglianza dei prodotti. I fruitori del romanzo settecentesco volevano vedere personaggi della loro stessa condizione sociale in situazioni lacrimevoli simili alle loro, mentre il romanzo antico servì a intrattenere un pubblico semicolto; in quelle trame intricate e drammatiche il lettore proiettava fattori psichici elementari, la sua insicurezza, le sue paure, la sua aspirazione ad amori incrollabilmente fedeli e, a conclusione delle traversie della vita, l'immancabile lieto fine.
Ne restano rarissimi esemplari, forse riassunti da opere anteriori più vaste: moduli narrativi stereotipi; un materiale usato senza preoccupazioni di coerenza o di psicologia. Ma, come osserva Luciano Canfora nell' introduzione del volume edito da Dedalo (Storie d' amore antiche, pagg. 408, lire 35.000), nell'elemento base avventuroso assassini, rapimenti, naufragi si insinua il quotidiano, schiudendo spiragli rivelatori. Lo stesso accade nel Libro dei sogni di Artemidoro. Se il sogno dell'uomo moderno, a prescindere da Freud, lo fa trovare in un incidente d'auto, in balia d'un pirata dell'aria o in attesa dell’atomica, a quei tempi le situazioni da incubo erano diverse. Il sequestro di persona comportava bensì il pagamento d'un riscatto, ma anche la vendita sul mercato degli schiavi; tra gli incontri pericolosi c'era, come oggi, il bandito, ma anche il leone; il viaggio era un'avventura che non sempre si concludeva con il ritorno: partendo da Roma, si usava tare un voto al dio Redicolo (che non fa ridere, ma redire, tornare), il cui tempio bellissimo esiste ancora oggi, tra mucchi di spazzature, a fianco dell'Appia Pignatelli.
Il primo romanzo, Leucippe e Clitofonte, a cura di Onofrio Vox, è di Achille Tazio. L'opera è di un autore forse alessandrino, databile forse al II secolo dopo Cristo, rielaborato forse in epoche successive. Il protagonista, in procinto di sposare la sorellastra — cosa, evidentemente, lecita — perde la testa per una cugina; fugge con lei, ma la nave su cui i due sono imbarcati affonda in una tempesta; si salvano e approdano in Egitto. Qui la fanciulla viene rapita da orrendi masnadieri e di là dal fiume il giovane la vede squartata come sacrificio umano; ma non era vero e dopo poche pagine rieccola più bella che mai.

Crudeli sevizie
Catturata dai pirati, insidiata dal loro capo, drogata da un secondo, all'innamorato che si era dato all'inseguimento su un'altra nave sembra di vederla decapitare e gettare a mare; il giovane sta per suicidarsi per la disperazione, ma poi s'accorge che la vittima era un'altra.
Venduta schiava, la sua Leucippe è sottoposta a crudeli sevizie da parte d'un compagno di schiavitù e dal padrone, decisi a violentarla. Clitofonte però la ritrova, pesta e lacera ma, contro ogni verosimiglianza, ancora vergine. Il malvagio padrone denuncia la giovane coppia: lei per condotta scandalosa, lui per aver commesso adulterio in sua assenza con la sua focosa sposa (il giovane per la verità le aveva sempre opposto una virtuosa quanto improbabile resistenza, tranne una volta, tanto per farla contenta: quel "coup du canapé " che per il codice odierno non costituisce reato).
Il tribunale sottopone le due donne alla prova. La verginità di Leucippe risulta provata dalla musica celeste che esce dalla grotta del dio Pan dove la ragazza è stata rinchiusa, la castità della padrona dalle indulgenti acque dello Stige: evidentemente, la polizia scientifica era in ferie. Riconciliazione tra i padroni e felici nozze dei giovani.
Il secondo romanzo è Dafni e Cloe di Longo Sofista a cura di Ciro Monteleone, autore d'una documentata introduzione e della traduzione (vorrei però chiedergli se il termine "incazzato", incongruo in un testo letterario antico, è stato promosso, come scrisse Enzo Biagi, da parolaccia a parola). Anche di questo romanzo, l'autore è un mistero: non si sa se sia di Lesbo, l'isola dove è ambientata la vicenda, o romano; se visse tra il II e il III secolo. Certo è che si tratta d'una delle opere più famose e sdolcinate che siano mai state scritte, valida per lettori frastornati dalla città rumorosa, fetida e promiscua e anelanti a luoghi incontaminati.
I due protagonisti, abbandonati in fasce e allattati lui da una capra lei da una pecora, poi adottati rispettivamente da pastori, crescono insieme. Portano le pecorelle al pascolo, appendono ghirlande nelle grotte alle ninfe, confezionano caciottine; tranne un conflitto con alcuni play-boys di città, presto sgominati, non hanno altro da fare che amarsi. Ma piano con le parole. Sono sempre a un passo dal consumare 1'atto sessuale, ma non lo fanno perché non sanno come si fa. Ad onta della solitudine e della nudità, si limitano a baci e carezze. Il pastorello, per la verità, riceve una rapida lezione privata da una volenterosa vicina, ma non mette in pratica con Cloe ciò che ha appreso. Avviene finalmente l'immancabile agnizione, ricompaiono i rispettivi genitori, ovviamente ricchissimi, e si celebrano le nozze.
Che questo racconto abbia ispirato opere, madrigali, balletti, statuine; che imperversi tuttora su arazzi e cuscini a petit point è noto. Il curatore enumera gli autori che hanno rielaborato la soave scempiaggine e ne hanno tratto ispirazione, ciascuno con una visione della natura adeguata al secolo in cui visse e ali area culturale alla quale apparteneva. Dall'età bizantina al Rinascimento, da Annibal Caro al Tasso, dal Paolo e Virginia di Bernardin de Saint-Pierre all'operetta di Offenbach, al balletto di Ravel, alla recentissima edizione tedesca illustrata da Cha-gall, i pastorelli innocenti sono assurti ad archetipi.

Il solito lieto fine
Il terzo romanzetto è il più incoerente. Attribuito a un non identificato Senofonte di Efeso e datato al II secolo, si intitola, dal nome dei protagonisti, Anzia e Abrocome. A Giacomo Annibaldi, autore della nota introduttiva e della traduzione, vorrei chiedere perché scrive «incoccia» anziché «si imbatte». Il testo greco è altrettanto triviale?
I protagonisti sono d'una bellezza che rasenta il soprannaturale. Si sposano e sarebbero felici se, pur essendone sconsigliati da un vaticinio, non partissero per l'Egitto. Riferire i guai che li aspettano sarebbe lungo: naufragi, malviventi di terra e di mare, le solite insidie a lui da parte di omosessuali e tardone ninfomani, a lei da tutti quelli che incontra. Altrettanto scontate le loro caste ripulse. Processi, condanne, lavori forzati, fughe, cani feroci, spostamenti frenetici e finalmente l'auspicato lieto fine.
Da questi intrecci ingenuamente macchinosi si rilevano i gusti del pubblico per vicende drammatiche e tremendi pericoli. E inoltre si coglie qualche brandello della mentalità e del costume dell'epoca: la frequenza del sequestro di persona, il banditismo e la pirateria come dati normali, l'omosessualità come un fatto di costume; la fede cieca nei sogni, nei presagi, la pratica corrente di esporre i neonati. Gli autori di queste storie non si proponevano certo di fornire una documentazione sulla realtà sociale dei loro tempi, ma soltanto di conferire una parvenza di veridicità a situazioni inverosimili. Chi ha scritto le chilometriche sceneggiature di Dallas o di Capitol non ambiva a fare di più.

 “la Repubblica”, 08 settembre 1987

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