31.12.12

La poesia del lunedì. Ch'u Yuan (Cina IV-III secolo a.C.)

Evocazione
Torna, freddo pulito
che fendi le cartilagini e giungi
fino alle ossa, e sembri
scarnire gli scheletri, ibernare
la vita, congelare
i vermi, i liquami, gli umori.
Del tuo gelo si può
anche morire ma mai - come in questa
coltura di batteri che è l'estate
trascorsa in una cesta
di frutta marcia — marcire.
Poi quando sarai
venuto con i tuoi guai,
ti potremo anche
maledire.

Da Incontro al dolore, Lubrina 1989

30.12.12

Guido da Spoleto. Il duca che mangiava poco (S.L.L.)

Denaro largo di Guido da Spoleto (da Wikipedia)
Guido da Spoleto (855 – 894) riuscì nell'891 a farsi incoronare dal papa Stefano V sacro romano imperatore e tale si proclamò fino alla morte, seppure fra molte guerresche controversie.
Qualche anno prima, nonostante i suoi sforzi e la sua origine franca e carolingia, non era riuscito a farsi eleggere re di Francia da un'assemblea di feudatari che scelse Oddone, conte di Parigi. Un cronista dell’epoca racconta che Guido fu rifiutato dagli elettori quando appresero che aveva gusti alimentari assai sobri e discreti. Se ne scandalizzarono molto e lo rimandarono in Italia sentenziando: “Chi mangia così poco non è degno di essere re”.

I tre tempi di Gadda (Piero Gelli)

Piero Gelli, in un articolo dello scorso anno su “alias” giudica come una sorta di  “classicizzazione … quale maître del Novecento prossimo passato” la pubblicazione dell’Opera omnia di Gadda da parte di Adelphi, il cui catalogo - configurandosi come una sorta di “canone” – tramanda alla lettura dei giovani i buoni autori italiani del “secolo breve”, che altrimenti risulterebbero sepolti dall’oblio. Ne fa i nomi: “Savinio, Sciascia, Ortese, Landolfi, Manganelli, Parise, Malaparte e pochi altri”. Tesi suggestiva e certo degna di approfondimenti. Io ho sempre pensato ad Adelphi come ad un editore “esclusivo” e mi sembrano in molti casi discutibili i criteri dell’esclusione (piuttosto che quelli dell’inclusione). Scaffai, in ogni caso, utilizza la circostanza per un tracciato della “fortuna editoriale e critica” di Carlo Emilio Gadda che mi pare di qualche utilità, anche perché corredato da spunti analitici e critici non banali. (S.L.L.)
Carlo Emilio Gadda
C’è un Gadda che viene da lontano, di un’epoca che affonda nei precordi dei pochi sopravvissuti: sorge nel 1931 e si chiude a metà degli anni cinquanta. È il tempo di «Solaria», delle sue edizioni, e degli altri editori fiorentini, i fratelli Parenti, Le Monnier, Vallecchi, Sansoni: un Gadda per gli happy few, sotto l’egida espressionista del grande Gianfranco Contini. All’ammirazione incondizionata del giovane filologo – Contini aveva poco più di vent’anni quando recensì il secondo libro Il castello di Udine – per tanti anni si contrappose un consenso più cauteloso da parte di critici più «ufficiali» che, insomma, apprezzavano sì, ma con con judicio, il manierismo frammentato del gran lombardo.
La copertina flamboyant, modernistica di Fulvio Bianconi per Quer pasticciaccio brutto de via Merulana edito da Garzanti apre l’atto mediano: il giallo romanesco ha un successo di lettori inaspettato; confermato e accresciuto, sei anni dopo, dalla pubblicazione einaudiana de La cognizione del dolore, che vince anche un premio internazionale (il premio Formentor): è questa anche la lunga complessa fase della rivalità anche personale tra i due editori: il temibile Livio e il più compito e ipocrita Giulio fanno a gara a strapparsi i titoli, a recuperare l’inedito, o meglio l’edito sparso in riviste o apparso in tirature limitatissime in case editrici morte o moriture, come ben documentano, del resto, nell’ampia nota, i due curatori di questa edizione, su cui tornerò. I quali, giustamente, si fermano, nel racconto, al 1963, anno dell’armistizio: se Einaudi pubblica La cognizione, un mese prima Garzanti esce con questi Accoppiamenti giudiziosi, che altro non è, di base, che la raccolta nutrita di vari altri apporti della vallecchiana Notizie dal ducato in fiamme (Premio Viareggio 1953). Questo periodo di guerriglia editoriale si conclude alla fine degli anni ottanta con la vittoria definitiva di Garzanti, e avendovi partecipato in prima persona mi permetto un inserto autobiografico: fui io a «strappare» il contratto per tutta l’opera gaddiana e i singoli titoli in scadenza per la casa editrice di cui ero allora il direttore letterario, con i miei frequenti viaggi a Ferentino, da Giuseppina Liberati, dove l’amata governante cui lo scrittore aveva lasciato i diritti era tornata a vivere. Giuseppina mi aveva in gran simpatia («nessuno dell’Einaudi si è mai fatto vivo») e ricordava perfettamente quando a metà degli anni sessanta arrivai in via Blumenstil 19 per la tesi, e mi riferiva dei timori dell’ingegnere per quel giovane sconsiderato che per lettera aveva offeso la corte dei suoi cosiddetti nipotini.
Certo la simpatia per me non sarebbe bastata, senza il cospicuo anticipo garzantiano, che forse il divo Giulio non avrebbe potuto permettersi, in crisi perenne com’era, e allora addirittura in amministrazione controllata. Comunque, in questi anni di interesse crescente per l’uomo e lo scrittore, si amplia la prospettiva critica, anche se Contini ne mantiene il predominio, soprattutto dopo la celebre introduzione a La cognizione, che, inoltre, tanto inquietò l’ingegnere per un incauto paragone di tinta omosessuale tra un personaggio della Recherche proustiana, Mademoiselle Vinteuil, e il protagonista Pirobutirro.
In questo mirabolante saggio il filologo confermava la sostanza espressionista dello scrittore e lo inseriva in una catena diacronica che, all’ombra di Dante, s’intrecciava a tutta la nostra storia letteraria, via-Folengo fino agli scapigliati noti, Dossi, Faldella (ma anche un Alpinisti ciabattoni di Cagna, che Gadda bofonchiava di non aver mai letto).
Ma all’impostazione continiana, un’altra si fa avanti più intrigante, autorizzata da una più approfondita conoscenza dell’opera, dalle referenze autobiografiche dei testi, dalla frequentazione con l’autore, una critica psicanalizzante che scava nel male oscuro del grande nevrotico: sono i saggi importanti di Citati e di Roscioni (La disarmonia prestabilita), della splendida controversa indagine di Baldacci, fino al massimalismo di Gioanola (L’uomo dei topazi). Per inciso, ricordo che anche Contini parla dei due grandi scrittori milanesi, Manzoni e Gadda, come «congiunti dall’essere i più nevrotici scrittori d’italia». Contemporaneamente nasce anche una ricca aneddottica sullo scrittore: l’ingegnere diventa personaggio, bizzarro, buffo, a tratti caricaturale. Vi contribuiscono tanti giovani amici, con diverso affetto: dal maligno Piero Santi agli affettuosi Arbasino, Parise, Cattaneo e altri.
Ma con l’edizione garzantiana dell’opera omnia, Dante Isella apre il terzo atto dell’affaire Gadda: ed è il Gadda dei filologi questo, postumo, che nasce dallo studio dei tanti fogli rimasti, i famosi quaderni di calligrafica precisione, con i tanti spunti inconclusi, frammenti di romanzi, racconti appena abbozzati, progetti accantonati. Sono i torsi, i cartoni continiani. Ma l’infinitezza novecentesca, il work in progress come sistema, da queste abbandonate carte, appare davvero poco teorico e dettato più da carenza di fiducia nelle proprie forze, da timori e tremori; mentre dietro l’immagine dello scrittore espressionista, dietro quella dello scrittore-perno dell’avanguardia ’63, grande manipolatore di materiali linguistici (Guglielmi), se ne configura un’altra, che disvela un desiderio di narrazione anche popolare: Manzoni sempre come mito, ma pure Conan Doyle, Balzac, magari Zola e efferati delitti e ingarbugliate vicende familiari…

"alias", 22 ottobre 2011

Lasciarsi sorprendere. Occasioni e irriverenze di Umberto Eco (Roberto Gilodi)

Su un “alias” dell’anno scorso nella recensione di un volume di scritti occasionali di Umberto Eco (Costruire il nemico, Bompiani, 2011) trovo una convincente esposizione di alcuni tratti della fisionomia intellettuale del più grande “tuttologo” italiano vivente. La “posto”. (S.L.L.)
Umberto Eco da giovane
Eco ha, fra i suoi numerosi meriti, quello di avere dimostrato i limiti delle assiologie tradizionali, soprattutto quelle critico-letterarie. Ci ha dimostrato che il «minore» può essere, da certi punti di vista «il maggiore», e viceversa. I testi qui raccolti, a prescindere dal tema, rivelano una qualità specifica, per altro ben nota, del loro autore: la curiositas teorica, che Hans Blumenberg ascrive alla “Modernità delle origini” e che in Eco si manifesta come esercizio di irriverenza intellettuale. Da questa prospettiva l’occasione è un fattore costitutivo della sua ricerca, strettamente legato alla disponibilità a lasciarsi sorprendere, a provare il sentimento della meraviglia, lo stupore della scoperta – sia essa intellettuale, archivistica o storica.

“alias”, 22 ottobre 2011

29.12.12

All’amico che aveva il padre tubista. Una poesia di Emilio Piccolo

L’amico aveva il padre che faceva il tubista,
e la vita se l’è sudata
per consentire al figlio di essere quello che ora è.
Uno che ha avuto l’intelligenza
di mandare a quel paese i sogni
con cui chi è giovane
crede di essere indispensabile alla felicità della specie
e ora, più concretamente, si dà da fare
per convincere chi gli è vicino e chi gli è lontano
che vivere ha senso solo se ce l’hai fissa nella testa
l’idea che la libertà è la merce più preziosa
che possa essere venduta nel gran bazar del mondo.
Parla bene l’amico, l’erre un po’ moscia
che hanno tutti quelli che indugiano sulla pronunzia
per persuardere chi ascolta che lo stile è una cosa seria,
il capo pelato che nella storia ha sempre distinto
gli eletti dello spirito, e della materia.

Nulla ricorda in lui il padre che faceva il tubista,
e la vita se l’è sudata
per consentirgli di essere quello che è.
Uno che è felice di avere fatto meno
dei sogni di quando aveva vent’anni
ed era sicuro che il mondo potesse essere cambiato.
Ora, quando si alza la mattina,
legge tutti i giornali, fa colazione, si veste a puntino
ed è subito pronto
per recitare nel gran bazar del mondo
la parte di chi è così felice
di essere il servo di scena che non si chiede chi è mai
il padrone che gli comanda di essere servo, e felice.

È felice, e basta.
Va in televisione, fa l’addetto stampa,
e parla sempre con la stessa voce, dice sempre le stesse cose.
Che i comunisti sono cattivi, e hanno rubato la gioventù
a chi solo perché aveva vent’anni credeva di essere eterno
e di poter cambiare il mondo. Che il mercato rende liberi,
e che un servo di scena può essere felice come il padrone,
e che sa bene come i servi sono simili a quei cagnolini,
e che scodinzolano non appena annusano l’odore del biscotto.

L’amico è una persona perbene.
Una che ha idee precise sulle questioni morali,
e su quelle biologiche.
Può dire la sua sulle staminali, sugli omosessuali,
sulla sicurezza negli stadi e su quella dei profilattici,
sicuro di trovare il consenso di chi è convinto
che dio qualche motivo doveva pure averlo
quando ha affidato la sorte della specie
a quelli che in suo nome si danno da fare
per persuaderci che dio c’è.
E non ha vergogna
di essere solo un servo che se il vento cambia
cambierà padrone come si cambiano calzini e mutande,
e andrà a raccontare al mondo che lui aveva un padre
e che faceva il tubista, e mentre lo faceva
forse sognava che prima o poi con ci sarebbero stati
più né servi né padroni, né chi scodinzola come un cane
non appena annusa l’odore di un biscotto.

Postilla
Ho ripreso la poesia dal sito del Sindacato Scrittori "Le reti di Dedalus", ove fungeva da esergo a un saggio di Antonio Contiliano sul comunismo come utopia efficace. L'autore, poeta collettivista, è morto ad Acerra qualche mese fa.

Capitalismo regressivo (da un'intervista di Paolo Valentini a Piero Bevilacqua)

Piero Bevilacqua insegna storia contemporanea all'Università di Roma e collabora da molto tempo al “manifesto” . Tra i suoi libri più recenti Elogio della radicalità (Laterza, 2012) e Il grande saccheggio. L'età del capitalismo distruttivo ( Laterza, 2011. Per l’autore la parola “radicale ”, usata nell’accezione di Marx e attualizzata ai tempi che corrono, significa affondare lo sguardo in profondità, nei meccanismi costitutivi dei processi materiali. Paolo Valentini lo ha intervistato nei giorni scorsi per “Pubblico”. Riprendo una parte dell’intervista. (S.L.L.)
Piero Bevilacqua
Il binomio crescita e diminuzione dell’orario di lavoro è venuto meno. Prima, a inizio Ottocento, la vita del lavoratore veniva interamente sequestrata. Poi cominciano le regolamentazioni nelle fabbriche inglesi. Da allora è stato un susseguirsi di lotte per la riduzione dell’orario. Il conflitto operaio per la riduzione ha costretto il capitale all’innovazione tecnologica. Questo è stato il meccanismo conflittuale virtuoso che ha fatto del capitalismo una macchina progressista. Il capitalismo si è migliorato e ha dato vita a una società che trasformava la ricchezza prodotta in fabbrica, in servizi e incremento degli spazi democratici. Nel paese che è stato avanguardia di questo capitalismo si è tornati indietro. Qualcosa di grave è accaduto.

Vuol dire che il capitalismo non crea più migliori condizioni di vita ed è in una fase di regressione storica. Questo meccanismo si è esteso a tutta l’Europa. Cosa chiede il capitalismo in Europa?
Proprio l'allungamento dell'orario di lavoro e maggiore flessibilità. L’articolo 8 della riforma lasciata in eredità da Tremonti e Sacconi prevede dei contratti che derogano ai contratti nazionali; l’operaio potrebbe essere costretto ad accettare l'allungamento del proprio orario lavoro fino a 60-65 ore. È palese come la crisi costituisca un’occasione per far indietreggiare le condizioni del lavoratore… Oggi viviamo una situazione paradossale: abbiamo una potenza produttiva incredibile a cui corrisponde una stagnazione dei salari, un allungamento dell'orario di lavoro, la riduzione del welfare, del salario differito (come si chiamava una volta) fornito dai servizi. In questi anni i ceti operai e la classe media hanno visto sia la stagnazione sia l’aumento dei costi…

I nostri occhi vedono un cambiamento radicale nei rapporti di forza, come si diceva una volta?
L’articolo 8 vuole derogare dai contratti nazionali di lavoro e prevede un controllo sempre più serrato. Permetterebbe all'imprenditore, all’interno della fabbrica, di controllare tutte le attività e lo spostamento dei lavoratori. Un grande fratello che ti guarda. Il lavoratore si deve sentire osservato tutto il giorno. Può accadere che per ragioni di ristrutturazione interna diventi un lavoratore generico, può diventare un contratto a progetto… L’orario può arrivare a 65 ore ma può anche scendere a venti se l’organizzazione dell’azienda lo prevede. Si può vedere da queste norme che i lavoratori diventano delle cose. Questa è l’estrema barbarie e favorisce la decomposizione societaria. Gli uomini non contano nulla, sono spostabili, licenziabili… È una metastasi distruttiva in cui la dignità umana non conta più nulla…

Avremmo dovuto ribellarci! E invece siamo stati ricattati
Il ragionamento ricattatorio più in voga è questo: c'è la competizione mondiale e noi non possiamo perdere il treno della competizione. Queste sono le mie risposte a tale provocazione: competere moltiplicando il lavoro è perdente. Lo sviluppo è stato accompagnato dal welfare, ad un'economia sociale di mercato. La competizione è avvenuta conservando i diritti e migliorando la vita e l’intelligenza collettiva…Inoltre, la globalizzazione è cresciuta sotto il segno dell’ideologia neoliberista. Il capitalismo ha realizzato un grandioso disegno. Ha trasferito le imprese dove la manodopera era indifesa e senza tutele. In questo modo i capitalisti hanno incrementato i loro profitti e hanno avuto un enorme vantaggio. La delocalizzazione ha permesso di tiranneggiare la classe operaia dei paesi d’origine. «Se non vi sta bene questo contratto io sposto l’impresa altrove». Questo ha dato all’imprenditoria una capacità contrattuale forte e schiacciante…

La globalizzazione però è un dato di fatto ormai?
Io da marxiano so benissimo che lo scenario è mondiale. Ho sempre creduto che l’aspirazione dell’umanità è il cosmopolitismo. Sono contrario alle chiusure nazionali e nazionalistiche e favorevole all’Europa sognata dai padri fondatori e accresciuta da contenuti sociali (non questa Europa, certo). Nell’attuale fase storica si può fare molto. Perché non si punta a creare degli standard minimi di regolamentazione dell’orario massimo, di salario minimo uguale per tutti? Mi rendo conto delle difficoltà tecniche, ma costituirebbe una forma diversa di globalizzazione. Il lavoro rimane inchiodato a forme di sfruttamento becere mentre alle merci è consentita qualsiasi cosa. Non è accettabile. Questi nostri governanti si riempiono la bocca di globalizzazione ma non fanno nessun minimo sforzo per proteggere il lavoro. Può sembrare paradossale ma nonostante il lavoro di fabbrica sia diminuito (almeno in Europa), il lavoro d’ufficio somiglia sempre di più al lavoro di fabbrica. Non mettere al primo posto il lavoro significa per una società perdere la modernità.

Eppure ci sarebbero le condizioni per vivere bene?
Viviamo in un’epoca paradossale. Si produce così tanta ricchezza che si potrebbe vivere tutti meglio. Un’organizzazione diversa del lavoro consentirebbe di danneggiare meno l’ambiente, invece si continua a correre. Queste politiche di austerità porteranno al disastro e la crisi è destinata a diventare un fatto endemico. Noi, oggi, avremmo bisogno di lavorare quattro ore al giorno e lavorare tutti. Una società ricca e opulenta come la nostra potrebbe farlo benissimo. Mentre ci fanno sentire drammaticamente poveri…

“Pubblico”, 28 dicembre 2012

Mussolini: “Via i tram dalla Città Eterna!”. Puzze, scuotimenti, operai arrapati.

Dalla recensione di Luca Sappino (su “Pubblico” del 27 dicembre 2012) al libro di Grazia Pagnotta Dentro Roma, edito nei mesi scorsi da Donzelli e dedicato alla storia tranviaria nella Città Eterna recupero qualche curiosità. Ad esempio che il più grande sciopero, nel 1917, nel pieno del conflitto mondiale, lo fecero i tranvieri: ma non contro la guerra, contro le tranviere conducenti, che dovevano esser assunte in sostituzione egli uomini al fronte. Oppure che fu proprio Benito Mussolini a proclamare in un discorso del 1925 che venisse eliminata «dalle monumentali strade di Roma la stolta contaminazione tranviaria».
In effetti c’era un intreccio complicato di fili elettrici, pali e rotaie, frutto di una tardiva municipalizzazione del servizio e del sovrapporsi di private iniziative. La riforma fascista del trasporto pubblico eliminò le vetture su rotaia dal centro della città, dai Fori, piazza di Spagna, eccetera. Non mancarono lamentele: i bus a quel tempo (e forse non solo) erano assai più inquinanti dei tram, più traballanti, più sensibili alle curve, alle buche, agli imprevisti della circolazione.
Una cittadina, Maria Tosini, se ne lamentò scrivendo proprio a Mussolini, subito dopo, quando non era ancora d’obbligo il “Voi” come pronome di rispetto:«Duce amatissimo, il popolo di Roma implora da Lei una grazia, quella di far rimettere il tram come stava prima, per molte ragioni, per la salute che con quello scotimento, con quella puzza siamo tutti già mezzi morti; per l’igiene (...) e per la moralità».
Sulla moralità dei bus un padre di famiglia scrive al direttore del “Messaggero”: «Se avete una moglie abbastanza giovane, se avete una figlia signorina o una sorella, fatele fare quattro percorsi in autobus e poi fatevi raccontare le loro impressioni sulle strette e sui contatti forzatamente impudichi. Fatevi raccontare quali impressioni riportano dal sentirsi schiacciare i seni oppure sentirsi nel sedere o sul ventre l’asta virile inturgidita di qualche operaio il quale, contro la sua volontà, per l’istinto bestiale dell’uomo, entra in eccitazione per lo stretto contatto, favorito dal movimento del veicolo». Un anonimo se la prendeva con chi produceva quelle «mostruosità di autobus» e insinuava: «C’è di mezzo la Fiat».

Storia di un'anca (di Roberta Carlini)

Dal sito di Roberta Carlini riprendo un articolo di cui non mi risulta la pubblicazione a stampa e che trovo assai interessante. (S.L.L.)
Roberta Carlini
Mercoledì, 28 Novembre 2012
Il sistema sanitario nazionale “potrebbe non essere garantito se non si trovano nuove modalità di finanziamento”, dice Monti. Notizia per Monti e altri al governo: il sistema sanitario nazionale già è “non garantito”, in molti casi. Per esempio per un pensionato che, improvvisamente, si trova a non poter più camminare e ha bisogno di una protesi dell'anca. O meglio, rettifico: scopre di aver bisogno di una protesi dell'anca dopo aver fatto una radiografia a pagamento perché nella sua regione, il Molise, per le lastre Asl c'è da aspettare mesi. Sempre nella sua regione (una di quelle con sanità disastrata e commissariata dall'autore del disastro), scopre di dover aspettare sei mesi anche per l'operazione, nella sanità pubblica.
Corre allora (si fa per dire) nel Lazio, che pur essendo un'altra regione a sanità disastrata e commissariata ha una grande abbondanza di ospedali e soprattutto cliniche convenzionate, data la presenza in sede di una delle multinazionali del settore (Vaticano) e dei maggiori campioni nazionali (Angelucci, Ciarrapico etc). Trova un bravo chirurgo, pensionato dall'ospedale pubblico, che opera in una di queste cliniche, e si rimette a posto l'anca e gamba connessa. Ma dopo l'operazione c'è bisogno di una terapia di riabilitazione, per poter camminare. Viene spedito in un'altra clinica, con prescrizione di 30 giorni di ricovero per la riabilitazione. Arriva un po' acciaccato e quindi nei primi giorni non ci pensa, ma poi si rende conto che, delle 24 ore di ricovero pieno, solo 45 minuti li passa in fisioterapia. Tutto il resto è noia: chiacchiere con anziani, cibo precotto in piatti di plastica, messa e rosario dagli altoparlanti (la clinica è cattolica, e tutti i pazienti, anche di altre religioni o atei, si sorbiscono il Verbo a meno di non rifugiarsi nel cortile). Ma è tutto gratis, tranne l'acqua minerale che va comprata alle macchinette. Dopo una decina di giorni, prende cappello e se ne va, firmando per le dimissioni volontarie, mentre la sua famiglia cerca il modo di fargli fare la terapia di riabilitazione a casa. Ma si scopre che sia nel Lazio che nel Molise questa possibilità non è di fatto contemplata dalla sanità pubblica: si può chiedere, certo, ma il terapista arriverà (se arriverà) dopo mesi e mesi. Allora decide di pagarselo di tasca sua, facendo un po' di sedute in casa e un po' presso un centro specializzato. Si rimette in piedi, le gambe funzionano ma i conti non tornano. Perché lo stato, il Servizio Sanitario Nazionale (maiuscole d'obbligo, qui), può pagargli la pensione completa in clinica per un mese (6-700 euro al giorno) ma non finanzia l'alternativa più economica (35 euro a seduta per 20-30 sedute?).
Non è una storia immaginaria, o una metafora. Il paziente in questione è mio padre, e a partire dalla sua anca mi sono messa a fare qualche domanda. Ne ho parlato con il chirurgo che l'ha operato. Lui ha risposto che non è l'unica stranezza, nel nostro Ssn. Il protocollo della regione Lazio, come di tante altre regioni, prevede la riabilitazione in clinica per trenta giorni, per operazioni come la sua. Ne ho parlato con amici e colleghi, esperti di conti pubblici o di arti malandati. E tutti mi hanno confermato l'assurdo: costerebbe meno fare le riabilitazioni in day hospital, oppure a casa; costerebbe di meno persino andare a prendere i pazienti a casa, fare le sedute e poi riaccompagnarli; ma non si fa. Certo, in molti casi il ricovero serve: anziani che hanno altre malattie, oppure non sono autosufficienti, o non hanno nessuno che li aiuti a lavarsi o vestirsi, nei primi tempi dopo l'intervento può servire un sostegno (ma va detto che neanche in clinica venivano aiutati a lavarsi e vestirsi). Ma perché non lasciare libertà di scelta, al medico e ai malati? Perché imporre, di fatto, il costosissimo ricovero? Quando e con chi sono state scritte le direttive regionali sulle prestazioni in convenzione (andiamole a vedere, visto che si vota sia nel Lazio che nel Molise)? Attenzione, non si tratta di un dettaglio o di una spesuccia, ma di operazioni diffusissime tra gli anziani: articolazioni nuove, ne avremo sempre più bisogno in futuro. Si chiama invecchiamento demografico, tutti dicono che dobbiamo prepararci a questo. Adesso Monti dice che dobbiamo ripensare le modalità di finanziamento del sistema sanitario pubblico. Beh, se già smettessimo di finanziare il business sanitario privato, sarebbe un gran passo avanti. Dunque bravo Monti, se intendeva questo. Intendeva questo? Strano però, dell'argomento non c'è traccia nella spending review. Urge inchiesta.

28.12.12

Povertà in Francia. Tozzi di pane duro.

Per coloro che pensano che le disgrazie d'Italia siano uniche e che siano colpa del solo Berlusconi, mentre i grandi paesi europei, che ci richiamano all'ordine, sarebbero una sorta di paradiso in terra cui si dovrebbe aspirare, questa notiziola recuperata nel sito del "manifesto", nel blog FranciaEuropa curato da Anna Maria Merlo. 
L'intervento dello Stato tra i cugini d'oltralpe è certamente più ampio ed efficace che in Italia, anche per scelta del nuovo governo socialista, ma anche lì la povertà avanza e lo Stato sociale di tipo europeo è in via di deperimento, sostituito da aiuti pubblici che non sono un diritto delle persone, ma forme di elemosina, come negli Usa. (S.L.L.)

Povertà: apre una panetteria con il pane del giorno prima
A Nïmes ha aperto una panetteria che vende il pane vecchio a metà prezzo. Al pane del giorno prima raccoglie il pane invenduto di una catena di panetterie della città e propone una baguette a 40 centesimi (contro 90 centesimi - 1 euro quando è fresco). Il successo è assicurato: il proprietario parla di gesto di “solidarietà”, perché afferma di vendere il pane vecchio a prezzo di costo, e aggiunge che così non si spreca nulla.
La panetteria con il pane vecchio è un sintomo della povertà crescente. 8,6 milioni di persone in Francia (2,5 milioni di bambini) vivono in povertà. Per fronteggiare la situazione, il primo ministro, Jean-Marc Ayrault, ha proposto oggi una serie di misure. L’Rsa (Reddito di solidarietà attiva, versato sia a chi non ha nessuna entrata sia ai working poors - lavoratori poveri) aumenterà del 10% in 5 anni (oltre all’adeguamento automatico che segue l’inflazione), per raggiungere la metà dello Smic, il salario minimo. Oggi l’Rsa, per un celibe senza figli, è di 475 euro al mese. Lo ricevono 1,39 milioni di persone. Altre 800 mila, che hanno un lavoro, ricevono un complemento di reddito. L’obiettivo è anche allargare il numero dei beneficiari: molti lavoratori, che restano sotto la soglia della povertà, non lo richiedono per non passare per assistiti, che ai tempi di Sarkozy erano stigmatizzati. Il governo vuole cosi’ cambiare “lo sguardo” che i francesi hanno verso i poveri, sempre più numerosi. Ayraut introduce anche una “garanzia giovani”, cioè un Rsa per i giovani tra i 18 e i 25 anni, oggi fuori dal dispositivo. Dovrebbero accedervi almeno 100 mila giovani, ai quali verrà anche proposta una formazione o verranno accompagnati per ottenere un impiego sovvenzionato (150 mila posti quest’anno). La Cmu, la copertura sanitaria universale per i più poveri, sarà estesa a 500 mila persone in più dei 4,4 milioni dei beneficiari attuali (vi ha accesso chi ha un reddito inferiore a 7934 euro l’anno). Il governo si impegna anche a costruire 150 mila alloggi popolari l’anno, oltre a proporre altri 80 mila posti per gli alloggi di emergenza destinati ai senza tetto. Saranno anche aumentate le garanzie per l’affitto (alloggi affittati da un’associazione, che dà garanzia al proprietario, per poter accogliere famiglie che altrimenti non troverebbero casa). Sono previsti anche aiuti per chi è troppo indebitato.



di Anna Maria Merlo - pubblicato l'11 dicembre 2012

26.12.12

Epica e horror. Il virgilianissimo Silio (di Roberto Andreotti)

Forse un lettore «moderno» digiuno della fitta poesia di Silio Italico (26-101 d.C. circa) potrebbe farsi invogliare da quest'agnizione tedesca di Michael von Albrecht, che a metà degli anni sessanta dedicò al devoto virgilianista d'età flavia una monografia ancora abbastanza in voga: «L'espressione [di Silio], che a volte rasenta la tautologia, indica il rilassamento dell'età avanzata. Ciò non produce solo conseguenze negative - a volte viene in mente la misurata maniera di Adalbert Stifter». Come si intuisce anche solo dietro la sorprendente incisione critica (il narratore della selva boema spegne un po' la vulgata dell'epigono innamorato degli eccessi), Silio è condannato a portare come un fardello il suo progetto epico fuori tempo massimo: scrivere con i Punica il nuovo poema storico di Roma - Roma contemporanea, classicista e quasi neo-augustea - rilanciando con tuoni e fulmini uno dei miti fondatori, la guerra contro Cartagine. In termini più letterari ciò equivaleva a rifare Ennio in salsa virgiliana: ma dopo che Lucano aveva tirato l'elastico sino al punto di rottura.
I Punica appaiono così come un'Eneide continuata (attraverso cui rileggere Omero), dove a grandeggiare negativamente dall'inizio alla fine è soprattutto il nemico: Annibale, sùbito sotto l'egida di Giunone e sùbito vincolato da bambino al giuramento dei Barca, all'odio di vendetta che la Didone virgiliana scagliò su Enea e discendenti. Ora, nel trittico epico flavio il poema di Silio è sempre stato valutato non solo come quello più sanguinolento (e la Tebaide non è certo asciutta), ma anche come il più brutto: si salvano singoli quadri, pezzi di bravura versatile, ma è debole l'impianto strutturale. Più che altro, una studiatissima accademia antiquaria di cartoni epici a effetto: aristie, conciliaboli teologici, albe e tramonti, descrizioni di Italie bucoliche e di armi, sogni, profezie, presagi, discese agli Inferi, giochi funebri... Messi a fuoco dall'occhio un po' psicopatico di un ingranditore dal naturalismo esasperato.
Le fonti antiche - che, si sa, stringono opera e vita in una necessità quasi psicologica - testimoniano che Silio praticava una specie di culto privato virgiliano: oltre a collezionare cimeli da Camera verde, egli acquistò il terreno dov'era la tomba del poeta mantovano, a Napoli, e ogni anno ne celebrava l'anniversario della nascita. A sua volta, osservando un po' la storia degli studi, le sue Guerre puniche in diciassette libri (ma forse dovevavo essere diciotto come Ennio), dalla spedizione di Annibale al trionfo di Scipione dopo Zama (201 a.C), esigono vocazioni filologiche discretamente maniacali: come quella di una latinista della Statale di Milano, Maria Assunta Vinchesi, per la quale egli è approdato nella Bur, munito di brevi note e d'una informatissima introduzione, che a un certo punto - visto che il poema fa muovere e parlare personaggi liviani su un fondale epico - si pone il problema scolastico del profilo delle figure (come faceva Russo con Manzoni). Per apprezzare Silio, in fondo, bisogna mettere in crisi il senso delle proporzioni: anche perché, oggettivamente, tradurre dodicimila versi che ruotano intorno a Canne può occupare un'esistenza intera.

“alias”, 12 Gennaio 2002

Una storia afroamericana. L'orgoglio di Rubin Carter, Hurricane (Flaviano De Luca)

Nel ritaglio ritrovato un vecchio articolo su una vicenda dimenticata. Bellissima. (S.L.L.)
Rubin Carter detto "Hurricane"
Un giorno d'estate il mensile statunitense “Esquire” propose allo scrittore Nelson Algren di andare a seguire il processo contro Rubin Carter, un pugile classificato nel 1966 tra i dieci migliori pesi medi del mondo. Ascoltando giorno dopo giorno i testimoni, i poliziotti e gli avvocati, il profondo conoscitore di malviventi, puttane, sbandati d'ogni genere (che ha superbamente descritto nei racconti Le notti di Chicago) si rese conto che la sentenza era già stata costruita a tavolino. Quando Carter fu condannato, Algren decise di scrivere un romanzo sulla sua vicenda, su un uomo innocente mandato in prigione in fretta e senza prove, accusato da due pregiudicati per fini utilitaristici. Cambiò nomi e situazioni leggermente (il protagonista si chiama Ruben Calhoun, come il famoso attore del dopoguerra). Il libro uscirà postumo, nel 1981, col titolo The devil's stocking (Il calzino del diavolo) e non sarà molto apprezzato dall'America reaganiana di yuppies in carriera e scudi stellari.
A quel tempo il movimento d'opinione per salvare Hurricane, aveva già vissuto la sua serata magica, il 9 dicembre del 1975, spettacolo conclusivo della Rolling Thunder Revue al Madison Square Garden. Dopo aver attraversato gli States, il tour per pubblicizzare il nuovo disco di Dylan (Desire), finì con un concerto di beneficenza per la liberazione di Carter a New York (con dichiarazioni pubbliche, a suo favore, che andavano da Norman Mailer a Candice Bergen), davanti a cinquemila persone. Sul palco, dopo Joan Baez e Ioni Mitchell, salì Muhammad Alì con la trovata classica di quegli anni, la telefonata dalla prigione del New Jersey, un saluto del pugile. "Sono seduto qui in prigione, nelle viscere di un penitenziario e penso che questo sia un atto davvero rivoluzionario, che tanta gente del mondo là fuori possa riunirsi per un uomo in prigione".
In un'intervista di quegli anni a “Penthouse”, Carter ripercorse i due anni di minacce, intimidazioni, perquisizioni subite dall'Fbi, dal 1964 al 1966, da quando il suo impegno nelle battaglie degli afroamericani divenne più intenso, a cominciare dalle sue parole dopo la rivolta della frutta, ad Harlem, nell'aprile 1964, quando disse "i neri devono proteggersi dalle invasioni dei poliziotti bianchi nei quartieri neri e devono difendere i ragazzi nelle strade con tutti i mezzi". Venne intesa come una dichiarazione di guerra, i giornali lo bollarono come un "nazionalista nero contro tutti i diavoli con gli occhi azzurri". E scattò la trappola.
Una volta imprigionato, Carter non aveva accettato le regole dell'universo carcerario: rifiutò l'uniforme (portava tuniche africane) e il cibo, si fece crescere la barba, si tagliò i capelli a zero, studiò e scrisse un libro, la sua autobiografia The sixteenth round: from contender n.l to# 45.472. Il colpo di genio fu inviare una copia del libro a Bob Dylan, fidando nella sue battaglia per i diritti civili. L'autore di Blowin’ in the wind andò a far visita in carcere al pugile e fu molto colpito dal suo carattere e dalla sua fierezza. Nacquero così le strofe di Hurricane, la canzone scritta da Bob Dylan, che fece il giro del mondo "Questa è la storia di Hurricane/ l'uomo che le autorità hanno accusato/ di un delitto che non ha commesso. Messo in prigione ma un giorno/ poteva diventare campione del mondo". Ha passato un terzo della sua vita, tra le sbarre. Dopo i quattro anni di riformatorio a Trenton State, il pugilato era diventato la sua arma di riscatto. Non aveva certo la tecnica sopraffina del campione ma una boxe tutta dinamica e aggressiva, piena di passione e forza, che scatenava l'entusiasmo del pubblico (da qui il motivo del soprannome, Tornado, Uragano). Un uomo sincero e diretto, che viene liberato dopo 19 anni di carcere, con un occhio di meno (ha perso la vista per un'operazione alla retina mal riuscita)."Sono stato fortunato - dirà, una volta libero - ho un occhio per vedere l'esterno e uno per guardarmi di dentro, per andare avanti combattendo".
Carter contro Giardiello (1963)

Scheda
40 volte sul ring
Poteva diventare campione del mondo Rubin Carter? Probabilmente sì, guardando la sua carriera, un'esplosione devastante soprattutto negli anni 1961/62 quando vinse per ko (entro la terza ripresa) undici dei sedici incontri disputati. Il suo patentino da pugile dice che pesava 157 libbre (poco più di 70 chili) ed era alto 5 feet e 8 inches (circa 177 centimetri). Gli avevano insegnato i fondamentali nella prigione di Trenton e poi, nella stessa città, aveva trovato lavoro come sparring partner di Sonny Liston (il futuro campione del mondo dei massimi, dal 1962 al 1964) sebbene fosse 5 pollici più basso e 50 libbre più leggero. Una sera, Carter tornò a casa colpito tanto duramente da Liston che il sangue gli zampillava da entrambe le orecchie. Abbandonò quel lavoro e puntò decisamente alla carriera nei pesi medi. Anche Emile Griffith, il rivale di Benvenuti, non riesce a resistere alla sua furia, kappaò alla prima ripresa il 20 dicembre 1963. Il match della vita è quello contro l'italo-americano Joey Giardello, a Philadelphia, col titolo mondiale dei pesi medi in palio, ma Hurricane, in quell'occasione, non trova la combinazione vincente e viene battuto ai punti, dopo quindici riprese travolgenti, da un verdetto non troppo limpido.
Salirà ancora quindici volte sul ring, con verdetti alterni, sognando una nuova chance mondiale prima di ritrovarsi tra le sbarre. Il suo totale riporta 40 match disputati, dal 61 ai 66, con 19 vittorie per ko, 8 a i punti, 1 pari e 12 sconfitte (tutte ai punti, tranne una). I filmati dei suoi match sono introvabili in Italia e fanno parte del grande archivio della Big Fights Inc. (f.d.l.)


“alias”, 29 gennaio 2000

25.12.12

Goethe, Bettina Brentano e le ‘gemelline’. Una stroncatura (di Anacleto Verrecchia)

Una stroncatura vecchia maniera, come non se ne leggono più, venata di umori reazionari, antifemministi e persino misogini. Non so molto della vita e delle opere della Brentano (credo che sia scrittrice di qualche valore, come ammette a malincuore anche l’articolista), ma il pezzo rimane un bel documento di un certo modo di leggere e scrivere, irritante e divertente insieme; esempio della scrittura di Verrecchia, il filosofo e germanista da poco scomparso, discutibile ma non privo d’ingegno. (S.L.L.)
Bettina Brentano, ninfa egeria dei romantici tedeschi, pitonessa letteraria e per molti versi nonna o bisnonna delle femministe, continuò a bamboleggiare per tutta la vita, anche quando era molto avanti negli anni. Già vedova, e madre di sette figli, si presentava ancora nelle vesti di bambina amata da Goethe, non riuscendo a staccarsi dal ruolo che si era attribuita nel libro che l'aveva resa celebre: Carteggio di Goethe con una bambina. Naturalmente quella ‘bambina’ era lei, nonostante avesse ventidue anni quando incontrò per la prima volta il poeta e cinquanta quando pubblicò il libro, che ora possiamo leggere, insieme con altri suoi scritti, in una edizione di lusso: Bettina Brentano, Werke in drei Banden, Deutscher Klassiker Ver lag, Frankfurt 1995.
Nata a Francoforte il 4 aprile del 1785, Bettina era figlia del commerciante italiano Antonio Brentano, il quale si sposò tre volte e mise al mondo una ventina di figli, tutti intellettualmente dotati. I figli più intelligenti, circa una dozzina, li ebbe dalla seconda moglie, che aveva ventidue anni meno di lui. Era Maximiliane La Roche, figlia della scrittrice Sophie La Roche. Di quella seconda nidiata facevano parte Bettina e il fratello Clemens, creatore della celeberrima Loreley. Tutti e due si arrampicarono con successo sulle impervie pareti del Parnaso. Ma mentre Clemens ci salì da solo e con le proprie forze, Bettina ebbe sempre bisogno di qualcuno che la portasse sulle spalle. E dovevano essere spalle robuste, come quelle, per l'appunto, di Goethe. Il giovane poeta frequentava assiduamente la casa di Brentano a Francoforte, perché era incapricciato della bella Maximiliane o Max, i cui tratti ritroviamo nella Lotte del Werther, e che lui riteneva di dover consolare delle delusioni maritali. Lettera del febbraio 1774: “La Max è ancora quell'angelo che, con le doti più semplici e preziose, attira a sé tutti i cuori, e il sentimento che provo per lei, e in cui suo marito non troverà mai motivo di gelosia, costituisce ora la felicità della mia vita”. Ora, se Goethe fece la corte alla madre di Bettina, questa fece la corte a lui. Ma come corteggiarlo, se lui allora viveva a Weimar e lei a Francoforte? Così Bettina pensò di arrivare al figlio attraverso la madre di Goethe, che viveva invece a Francoforte. Frau Aja, come veniva chiamata familiarmente, la prese a benvolere e le raccontò tutto sull'infanzia e l'adolescenza di suo figlio. Poi Bettina si recò a Weimar e partì all'attacco diretto. Esaltata com'era, arrivò a dire: “Da lui voglio un figlio, e sarà un semidio!”. Ci scappò invece solo un libro epistolare, nel quale c'è più fantasia che realtà. Non per niente lo pubblicò tre anni dopo la morte del poeta, il quale non sarebbe stato certo lusingato nel sentirsi dire: “Abbracciami, bianco marmo di Carrara!”. Altro esempio: l'11 agosto del 1810, Goethe, che si trovava nei bagni termali di Tepliz, scrisse alla moglie di essersi visto piombare nella camera d'albergo quel folletto di Bettina, “davvero più bellina e amabile del solito”. Le diceva anche che la giovane si sarebbe presto sposata con il poeta Achim von Arnim. A sentire Bettina, invece, il poeta, che aveva trentasei anni più di lei, l'avrebbe subito pregata di scoprire ‘le gemellette’, ossia il seno: “Slacciati, goditi l'aria della sera. Non bisogna forse abbracciare il bello? Non e' la missione della mia vita?”.
Bettina, molto furbescamente, saltò sulle spalle di Goethe per innalzarsi e per spiccare il volo verso la gloria. Bettina amava allacciare rapporti e corrispondenze con personalità in vista, per poi rielaborare le lettere, intercalandole con dialoghi, ricordi e fantasie varie, e ricavarne un romanzo epistolare. Così fece anche con la poetessa Karoline von Gunderobe, che si uccise per un amore infelice, con il principe ereditario e poi re Federico Guglielmo IV, e perfino con il fratello Clemens, che a sua volta si era ispirato a lei per la Loreley.
Bettina, però, non visse solo di luce riflessa, nè si può dire che tutta la sua gloria l'avesse scroccata agli altri. Aveva anche talento proprio e in molte cose rivelò più perspicacia dello stesso Goethe. Seppe capire molto meglio di lui la grandezza di Holderlin e anche quella di Beethoven. Non e' poco. Le va inoltre riconosciuto il merito di aver difeso nobili cause, soprattutto a favore dei poveri, quando questo era tutt'altro che facile nella Germania della Restaurazione.
Ne fanno fede i suoi scritti di carattere politico, molti pubblicati per la prima volta in questa nuova edizione. Si calcola che in Prussia, nel 1846, oltre metà della popolazione era povera o poverissima. Di qui il sacro fuoco di Bettina contro l'ingordigia dei potenti o dei ‘filistei’, come li chiamava lei. Ma difese anche altre cause, prima fra tutte l'emancipazione della donna, poi la libertà dei polacchi, la parità di diritti degli ebrei, la liberalizzazione dello Stato poliziesco. Diceva di essere guidata dal ‘libero spirito vivente’, che non si sa bene che cosa sia. Sorprende, però, che una così coraggiosa combattente contro i privilegi ne chiedesse per conto proprio. Quando incomincio' il rapporto epistolare con il futuro Federico Guglielmo IV, disse che non si sarebbero mai dovuti incontrare, perchè un incontro reale avrebbe potuto distruggere quello spirituale. La stessa cosa, più tardi, farà la signora von Meck con Ciajkovskij. Il principe ereditario stette al gioco. Ma quando diventò re, fu Bettina a rompere il patto: andò a chiedergli il titolo di barone per il figlio Siegmund, un diplomatico. E questo potrebbe far credere che tutto il suo strepitare rivoluzionario e liberale fosse una posa, insomma che facesse come certi radical-chic di oggi. Lei comunque era ricca.

"La Stampa", 31 ottobre 1995

Kiki di Montparnasse (di Luca Scarlini)

Recensione di due libri di memorie della celebre "regina" della vita artistica e intellettuale parigina, l'articolo di Scarlini fa il punto sul mito di Kiki di Montparnasse. (S.L.L.)
Kiki de Montparnasse (al secolo Alice Prin, 1901-1953) è stata un mito per almeno due generazioni di artisti e rimane immortalata nella memoria collettiva per numerosi ritratti, tra cui quello, celeberrimo, che le allestì Man Ray, trasformandola in violoncello umano con il titolo di Violon d'Ingres, con il bel volto di profilo e la testa adorna di un turbante, in una fulminante allusione alle figure del maestro di Montauban.
Molteplici furono i talenti di questa straordinaria signora delle notti parigine, di cui ora la Excelsior 1881 manda in libreria i ritrovati ricordi che vanno sotto il titolo di Infinitamente prezioso (traduzione di Silvia Marina Cristina Calandra, pp. 212, € 16,50), in un volume riccamente illustrato, dopo che già Abramo nel 1997 aveva presentato il Diario. Questi souvenirs, come il volume precedente, che ebbe enorme successo al suo apparire nel 1929 (suscitando anche censure per la trattazione esplicita di scene di sesso), con il corredo di una prefazione di Ernest Hemingway qui riproposta, consacrava un mito personale e quello di un quartiere, che l'aveva eletta regina: Montparnasse appunto, di cui la signora costituì una autorevole incarnazione. Non si contano infatti i nomi famosi che si rincorrono in queste pagine: Kisling e Foujita, ma senz'altro anche i surrealisti, da cui l'autrice prese poi clamorosamente le distanze, accusandoli di incoerenza, e un grande poeta, Robert Desnos, a cui fu legata da tenerezza, nonché Modigliani, in un girotondo di amanti, prima della morte prematura. Il mondo di artisti e modelle assolutamente ha i tratti di una aggiornata Vita di Bohème (non per caso Kiki si rappresenta giovinetta proprio come un personaggio di Henry Murger), ma le durezze di un'esistenza ai margini sono ben presenti e si incidono i segni di una vita frenetica, affrontata spavaldamente.
L'autrice, nata in una famiglia povera, vissuta tra difficoltà di ogni genere, conquista in strada la consapevolezza della sua grande attrattiva, che si riassume in quello strepitoso sorriso, via via sempre più venato di tristezza, mentre dalle continue feste nei cabaret, passa lentamente a una vita professionale prima in posa per i pittori, poi come chanteuse (con tanto di tournèes a Berlino, acclamatissima) e come disegnatrice (con varie mostre all'attivo), dotata di un talento ingenuo, ma senz'altro capace di produrre immagini graziose, come ben documenta l'iconografia del volume. Tra un pernod e un amore, tra una boutade e un azzeccato numero improvvisato al Boeuf sur le toit, locale coordinato come direttore artistico da Jean Cocteau, emerge sotto tutte le risate l'ombra di una malinconia pertinace, fino all'approdo alla droga, narrato in modo diretto, senza infingimenti. L'ultima pagina di queste note termina comunque su un accento di allegria, che sembra la chiusa di una canzone di Edith Piaf: «e adesso sono felice, allegra, ritrovo le mie forze. Vivo, respiro, credo nel futuro. Ho un uomo che mi ama, che amo, saremo felici. Tutto va bene. Kiki».

Danilo Nicli, il gappista romano dimenticato (di Massimo Sestili)

Danilo Ticli
Dal blog del mio amico e compagno Massimo Sestili, autore fra l’altro di un bel libro sull’affaire Dreyfus, recupero questa intensa e documentata pagina di storia (in origine un  articolo pubblicato su “Patria indipendente”, la rivista dell'ANPI) che, a sua volta recupera la memoria di un gappista romano, un operaio, da quasi tutti dimenticato. Da leggere. (S.L.L.)
Massimo Sestili con Anna e Mirella Ticli
Nel 1943 piazzò una bomba sotto il palco del Teatro Adriano.

Sopra c’erano il maresciallo Graziani e i comandanti nazisti.

L’attentato fallì per i difetti dell’ordigno esplosivo.

Le storie esistono per essere raccon­tate. Magari per decenni rimangono na­scoste in una via secon­daria, nell’atrio di un portone, in una soffitta abbandonata, sopra una lastra annerita, tra le pagine di una rivista ingiallita. Sono le storie di vite non celebrate, senza medaglie e rico­noscimenti, storie di persone che con umiltà si sono messe a disposi­zione ed hanno dato il loro contributo nella guerra contro il nazifa­scismo. Basta guardarsi attorno. Sono lì che aspettano qualcuno che le racconti. E capita che se non sei tu a cercarle allora ti cercano loro, perché sono in attesa da troppo tempo. Così ac­cade che un giorno di primavera squilla il telefono, rispondi, e ascolti una voce di giovane donna che sus­surra emozionata: «Sono la nipote di Danilo Nicli. Mario Fiorentini mi ha consigliato di mettermi in contat­to con lei». Nello smarrimento cerchi un appiglio! Poi la voce continua: «Anna e Mirella Nicli, le figlie di Danilo, vivono qui a Roma, se vuole le può incontrare». Del gappista ro­mano Danilo Nicli nessuno sa nulla e pensi che finalmente una pagina che mancava nella storia dei GAP (Gruppi d’Azione Patriottica) roma­ni può essere scritta dopo sessantotto anni. Pensi che la storia di Danilo ti ha cercato e che la devi raccontare. Stupore e emozione si placano in un silenzio riflessivo e un filo s’addipana.
Solo il nome, nient’altro. Roma era occupata da circa un mese dalle truppe naziste quando Danilo Nicli partecipò alla riunione di fondazione dei GAP Centrali davanti al Fonta­none di Ponte Sisto alla fine d’otto­bre del 1943. Quel giorno, così im­portante per la Resistenza romana, arrivò con Carlo Salinari, “Sparta­co”, comandante della VI Zona che comprendeva San Giovanni, Appio-Latino-Metronio, Monti e Esquili­no, e, successivamente, comandante dei GAP Centrali unificati. Mica con uno qualsiasi! Di quella storica giornata e della presenza di Dani­lo Nicli è testimone Ma­rio Fiorentini, “Giovan­ni”, comandante del primo GAP Centrale “Antonio Gramsci”: «Nel mese d’ottobre del ’43 ci riunimmo Carlo Salinari, Giulio Corti­ni, Danilo Nicli ed io e formammo i GAP Centrali. C’è voluto del tempo per organizzarli e non sono stati costitu­iti tutti contemporane­amente. Quel giorno abbiamo deciso di sepa­rare dalle zone alcuni degli elementi più vali­di, di isolarli completa­mente, non potevano più avere contatti con nessuno. Dovevano es­sere staccati dall’orga­nizzazione in modo che agissero clandestinamente, in misu­ra più pertinente e utile, dovevano fare azioni speciali contro i tedeschi, i fascisti, la polizia, contro i mezzi di comunicazione».
Il filtro utilizzato dal Partito Co­munista per il reclutamento dei gappisti era molto rigido, farvi entrare chiunque avrebbe significato mettere a serio rischio l’attività di tutta l’organizzazione, compresi i capi militari. Dovevano essere uomi­ni fidati, pronti alle azioni più peri­colose, uomini che il Partito selezio­nava tra i suoi migliori combattenti. “Spartaco” lo sapeva molto bene e se quel giorno di fine ottobre lo porta con sé per affidargli un compito così delicato vuol dire che di Danilo ci si poteva fidare, che aveva le qualità morali e caratteriali, la propensione all’azione “senza tregua” contro il ne­mico, lo spirito di abnegazione che venivano richiesti a tutti i gappisti; vuol dire che nel Partito era cono­sciuto e apprezzato.
Tuttavia di Danilo, in tutte le memorie scritte dai gappisti, non compare che il nome quando ricordano l’azione fallita al teatro Adriano di Piazza Cavour. Si trattava di far saltare in aria il palco del teatro e con esso Rodolfo Grazia­ni e lo stato maggiore nazista e re­pubblichino presenti a Roma, com­presi Kesselring e Maeltzer. Non era un’azione qualsiasi: richiedeva una meticolosa preparazione, un attento studio del luogo, tempi giusti per collocare l’ordigno esplosivo, una strategia per mimetizzarlo e farlo en­trare senza destare sospetti. Occorre­va sangue freddo. Era il 18 novembre 1943. Insieme a Fabrizio Onofri, co­mandante dei GAP di Zona, che di­rigeva l’azione, c’erano due partigiani di primo piano: Mario Fiorentini e Rosario Sasà Bentivegna, “Paolo”, comandante del GAP Centrale “Carlo Pisacane”. L’ordigno era stato preparato da Giulio Cortini, “Cesa­re”, primo artificiere dei GAP, in se­guito sostituito da Giorgio Labò e Gianfranco Mattei. A Danilo Nicli venne assegnato l’incarico più delica­to: collocare la bomba sotto il palco, mentre “Paolo” e “Giovanni” erano di copertura e distraevano il custode. Ricorda Sasà: «Danilo ebbe tutto il tempo di scegliere il posto migliore per collocare l’ordigno, e, con disin­voltura, dopo un po’ ci passò di nuo­vo davanti e se ne andò. Io a mia vol­ta salutai il guardiano e mi allontanai dal teatro. Fuori incontrai Fiorentini. Insieme ci avviammo verso il centro» (R. Bentivegna, Achtung Banditen, Mursia, 2004). L’estintore carico di tritolo non esplose per un difetto di costruzione e, a guerra finita, Sasà e G. Cortini lo trovarono dove Danilo l’aveva collocato. Ma, come racconta Sasà, nel frattempo Danilo era morto.
Nient’altro, scompare nel nulla. Nes­suna fotografia. Neppure una bio­grafia scritta dall’ANPI. Non si sa da dove sia venuto, quando e come è morto.
Sfogliando il numero speciale della rivista «Mercurio» dedicato alla Resi­stenza (A.I, N.4, dicembre 1944) ci si imbatte in un articolo di F. Onofri dal titolo Danilo. Quel nome, passa­to inosservato per sessantotto anni, inizia ad avere un corpo e una storia. Siamo ancora nel dicembre del ’44, Roma era stata liberata a giugno, ma al Nord la guerra continuava, quindi era opportuno non scrivere i cogno­mi. È il primo e unico scritto dedica­to a Danilo Nicli da un suo compa­gno di lotta. Un uomo che sembrava arrivato dal nulla per esserne poi di nuovo inghiottito inizia ad avere una fisionomia: il suo corpo, il colorito della sua pelle, l’espressione del suo viso, le sue reazioni emotive, pennel­late da F. Onofri, gradualmente ac­quistano nitidezza tra le incrostazio­ni del tempo: «Era pallido, come sbiadito nei capelli e negli occhi, col viso calmo, quasi immobile: un ope­raio. Ma poi si vedeva che era inquie­to e teso nelle guance, sotto la pelle. Anche le mani e i gesti erano così. Forse perché me lo ricordo durante quell’azione. Era malato di cuore».
L’azione cui fa riferimento F. Ono­fri è quella al teatro Adriano. Da giorni i gappisti studiavano il luo­go e valutavano le diverse possibili­tà che si presentavano loro, e quan­do decisero per la bomba sotto il palco pensarono a Danilo: «Lo in­contrai verso sera, nella tuta grigia da lavoro. Gli dissi di che si trattava. Lui mi ascoltò, senza fare obiezioni. Aveva un cerchietto dorato, all’anu­lare, sulla sua mano d’operaio. Si ac­corse che lo guardavo, e d’un tratto mi parlò della moglie, dei bambini che aveva a casa. Disse: “Mia moglie non sa niente. Ma se mi dovesse capi­tare qualche cosa... Vorrei che quelle creature non mi morissero di fame”. Lo disse con calma, a bassa voce. Poi parlammo del colpo da fare, e gli spiegai tutto il piano».
Danilo aveva due figlie: Anna di cinque anni e Mirella di appena un mese. Non era facile per un uomo con quelle re­sponsabilità prendere una decisione del genere. Proprio lui, che con il suo salario da operaio, in piena guerra, non aveva nulla da lasciar loro per sfamarle. I più non l’hanno fatto e sono rimasti a guardare na­scosti negli angoli più bui: indiffe­renti e invisibili.
Il pensiero di Danilo per la famiglia nel momento di prendere una deci­sione che avrebbe potuto portarlo alla morte restituisce ai gappisti la loro vera umanità: non erano né guerrieri né tantomeno eroi, ma per­sone in carne ed ossa che decisero, in un momento particolarmente diffici­le della storia d’Italia, di prendersi le loro responsabilità e di sacrificarsi per il bene comune. Quel giorno, con il pensiero rivolto alle piccole fi­glie, Danilo decise che l’azione anda­va fatta: «E dopo un po’ Danilo svol­tò da una traversa e avanzò verso di me. Pedalava con gran lentezza. Alla fontanella si fermò, e si chinò per bere. Fu allora che vidi il suo viso, rovesciato sullo zampillo, pallido e teso cogli occhi bui: mi guardava trasognato. Io mi sforzai di sorrider­gli, per dargli un po’ di coraggio. E poi si cominciò. [...]. Le vedrò finché vivo, quelle mani bianche e caute, con quei gesti interminabili, in mez­zo all’aria grigia». Sono momenti di tensione, un piccolo e banale errore potrebbe costargli la vita e mandare l’azione in fumo. I tre partigiani sono fuori che aspettano mentre Danilo deposita l’estintore-bomba sotto il palco. Continua F. Onofri: «E final­mente uscì. Era più pallido, forse, più rigido nella persona, ma calmissimo, lento. Prese la bicicletta, la portò sul­la strada, vi montò su, e cominciò a pedalare: senza fretta. Venne verso di me, come si era stabilito, e anch’io salii in bicicletta, aspettai che mi fos­se accanto, e poi volammo via riden­do come pazzi, col sangue che ci bruciava».
Forse questa è l’ultima azione a cui ha partecipato, perché F. Onofri, che ha continuato la sua attività di co­mandante partigiano fino alla libera­zione di Roma conclude: «Da allora, non l’ho più visto. È morto in un ospedale, qualche tempo appresso, di polmonite, senza che si potesse far niente. Era malato di cuore. Ce lo ri­corderemo sempre con quel suo viso pallido, nella tuta grigia da lavoro».
Insieme a Chiara Sestili, la nipote di Danilo, ci rechiamo in una calda domenica di luglio da Anna e Mirel­la Nicli. Anna ci accoglie sorridente nel suo ombreggiato giardino con dei buoni pasticcini e una bibita fre­sca. Un albicocco carico di frutti ci protegge dal sole pomeridiano. Tutt’intorno fiori rigogliosi e colora­ti. Mi complimento con Anna per la cura del giardino: «Sì – mi risponde – amo tanto i fiori. Forse anche que­sta passione mi è stata trasmessa da papà». Guardo la foto di Danilo e ritrovo negli occhi di Anna la stessa dolce e bonaria timidezza. Iniziamo a parlare di Danilo.
Danilo Nicli era nato a Udine il 30 dicembre 1911. La famiglia Nicli scappò da Udine durante la Prima Guerra Mondiale, dopo la disfatta di Caporetto (ottobre 1917), quando l’esercito austriaco avanzava sulla città, e si stabilì a Roma. I Nicli era­no poveri e dovevano ricostruirsi una vita a Roma, così Danilo per studiare venne inviato in un colle­gio. A diciotto anni già lavorava come operaio. Durante la guerra la­vorava a “Ottica Meccanica” in via Magna Grecia e abitava in via Si­nuessa 11, quartiere Appio-Latino-Metronio.
Il quartiere, che faceva parte della VI Zona, era molto attivo nella resi­stenza ed era abitato da personaggi di primo piano: a via Licia 56 abita­va Gioacchino Gesmundo, uno dei fondatori dei GAP Centrali. Anto­nio Leoni, schedato e diffidato come antifascista, abitava a via Altino 4 ed era componente di un gruppo che faceva capo a Mario Cambi: si riuni­vano al caffè Quirini che si trovava a via Taranto angolo via Rimini.
Considerando che conosceva perso­nalmente Carlo Salinari si può pre­sumere che Danilo fosse pienamente inserito nel contesto politico e mili­tare della VI Zona e che ne facesse parte da qualche tempo.
Ricorda Anna:
«Io ho un gran bel ricordo di Dani­lo, era un gran bel papà, mi voleva un bene dell’anima ed io ne volevo a lui. Ero molto più affezionata a papà che a mamma. Se fosse morta mam­ma forse non avrei sofferto così tan­to. Per me c’era lui e basta. Invece è morto lui.
Mia madre si chiamava Antonietta Gallo. Si erano sposati nel 1937 e andarono ad abitare prima a via dei Serpenti e successivamente a via Si­nuessa dove siamo rimasti fino al 1951. Io sono stata la prima figlia, nata il 27 marzo del 1938. Poi è nato un maschietto, Costantino, che è morto a tre mesi. Il 18 settembre del 1943 è nata Mirella: papà è morto il 22 febbraio del 1944, quando Mirel­la aveva circa cinque mesi.
Danilo era un uomo molto al­legro, di compagnia, ed ave­va una grande passione per la lavorazione dell’oro che io ho ere­ditato. I miei avevano una grande comitiva di amici e mamma in se­conde nozze ha sposato un amico di papà rimasto anche lui vedovo, lavo­ravano insieme all’Ottica Meccani­ca. Quando c’è stato il bombarda­mento a San Lorenzo [19 luglio 1943] la prima moglie del nostro patrigno stava affacciata alla finestra a chiedere aiuto ed è stata fatta a pezzetti, papà mi ha portata con lui in bicicletta a vedere cosa fosse suc­cesso e l’ha coperta con un lenzuolo. C’era un caos tremendo. Non capi­sco perché durante i bombardamen­ti papà mi portava in terrazza: mam­ma prendeva la valigetta e andava al ricovero e lui mi portava con sé sul terrazzo e mi diceva: se devi morire muori all’aria aperta, non fare la fine del topo. Per me era un divertimen­to, sembravano fuochi d’artificio.
Papà non ha avuto un’infanzia feli­ce, è stato in collegio, e ricordo che mi diceva sempre: se mi dovesse suc­cedere qualcosa non ti far mettere in collegio, non ci andare in collegio, assolutamente, perché si sta male. Era molto legato a me e mi incorag­giava a studiare. In particolare, aven­do delle mani affusolate, mi diceva di fare l’ostetrica o di studiare il pia­noforte.
Ricordo che da via Sinuessa Danilo si recava spesso a via Acaia dove c’e­rano due palazzi che noi chiamava­mo “I Cancelli”. Forse era un luogo d’incontro dei partigiani della zona. Dopo la morte di papà, mamma è andata più volte in quel luogo a chie­dere se poteva avere una pensione, un aiuto per le figlie. Purtroppo que­ste persone, compagni del Partito che mamma conosceva, le hanno detto che non le spettava niente e in­vece non era vero. Questa è una cosa che non perdonerò mai: perché noi eravamo due figlie più mamma, era­vamo talmente piccole che se ci aves­sero dato una pensioncina forse avremmo potuto anche studiare. Il periodo era brutto, però se ci fosse stato un piccolo aiuto... Perché han­no detto di no? Sia io che Mirella ri­sultiamo orfane di guerra; abbiamo un certificato che lo attesta. Infatti Mirella nel 1958 ha ottenuto la pen­sione. Inoltre papà aveva almeno quindici anni di contributi. Per noi era un diritto! Questo è il mio forte rammarico, non avere avuto alcun aiuto di nessun tipo; abbiamo avuto una vita durissima, io ho iniziato a lavorare che ero ancora una bambina.
Danilo non parlava mai della sua at­tività clandestina in famiglia, non si vantava. Ricordo che una volta a piazza Epiro c’erano delle bandierine rosse appese e mi disse, quelle le ho messe io stanotte. Infatti spesso la notte usciva di casa e una volta ricor­do che disse a mia madre: “Anto­nietta se mi succede qualcosa ti ver­ranno a prendere con una macchina nera, tu non fare do­mande, vai via, fai la valigia e vai, ti porta­no loro in un posto sicuro”. Quindi mam­ma pur non sapendo esattamente cosa il marito facesse, sicura­mente aveva intuito di cosa si trattasse.
Spesso papà mi portava con sé in bicicletta a fare la spesa a piazza Vittorio. Una cosa un po’ strana vista la di­stanza da casa. Ma io mi divertivo tanto, ero tanto orgogliosa del mio papà.
Ricordo anche che fa­ceva sempre un gioco con me: mi metteva una monetina tra le gambe per farmi notare che le avevo dritte.
Danilo fu ricoverato per una appen­dicite andata in peritonite. L’hanno operato due volte, il cuore non ha retto ed è morto. Aveva il cuore mal ridotto ed aveva vissuto emozioni troppo forti. Io l’ho visto l’ultima volta in ospedale il giorno prima che morisse. Era convinto di dover mo­rire a 33 anni. Ricordo che in quell’ultimo incontro mi disse: “bella di papà, il Padreterno m’ha fregato un anno. Ricordati una cosa, mamma è giovane e si rispose­rà, tu pensa a tua sorella”.
L’ho rivisto nella cassa e l’ho baciato. Del funerale ricordo solo la cassa e papà che aveva la fronte gelata. Quel­la di fare il partigiano è stata una sua scelta che noi abbiamo sempre ri­spettato. Io sono sicura che se fosse rimasto in vita l’avrei seguito, che sa­rei stata, e sono, dalla sua parte».
Il sole volge al tramonto, arriva da Ostia un leggero ponentino. Anna e Mirella ci offrono un magnifico gela­to. Le due sorelle sorridono. Anche in Mirella rivedo i tratti di Danilo. È arrivato il momento di salutarci.
Con Chiara riprendiamo la strada per Roma. Un leggero silenzio ci ac­compagna durante il viaggio. Quel filo che s’addipana accomuna le no­stre alla vita di Danilo, di Anna e di Mirella.

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