25.11.12

Ulivieri: “Nel calcio meno tattica e più cultura” (Massimo Raffaeli)

Juan Alberto Schiaffino e Nils Liedholm
Sul magazine del “manifesto”, all’incirca un anno fa, l’intervista a un allenatore di calcio colto e comunista, grande affabulatore di Toscana, da parte di un finissimo critico letterario. Mi pare che, al di là dei riferimenti cronachistici, il ragionare di Renzo Ulivieri non abbia perduto attualità e attrattiva. (S.L.L.)
Renzo Ulivieri

Colle Val d’Elsa.
Un lungo dopocena a parlare di calcio, di letteratura e di politica. Pure se potrebbe sembrare spiazzante, l’appuntamento è alla Biblioteca comunale di Colle, che organizza l’incontro insieme con l’associazione «Amici di Romano Bilenchi». Non tutti sanno che, tra i massimi narratori del Novecento, l’autore di Conservatorio di S.Teresa e de Il gelo era infatti un grande amante del football, come testimonia il suo epistolario e chiunque l’abbia conosciuto. Ospite d’onore è l’attuale Presidente dell’AIAC (Associazione Italiana Allenatori di Calcio), cioè Renzo Ulivieri, un tecnico dal curriculum imponente, quarant’anni di panchina alle spalle, tra cui quelle di Perugia, Sampdoria, Cagliari, Napoli, Parma, Bologna e Torino.
Ulivieri fa eccezione nel suo ambiente perché è un laico integrale, un uomo dichiaratamente di sinistra, un grande affabulatore, colto e ironico, a tratti persino pungente e tuttavia rispettoso, sempre, dei suoi interlocutori. A cena, prima dell’incontro, risponde con naturalezza alle domande tra un parterre di letterati, tutti quanti appassionati e talora veri e propri tifosi di calcio, fra cui Dario Ceccherini, diretto promotore dell’iniziativa, Luca Lenzini, saggista e responsabile dell’«Archivio Fortini» di Siena, e Luca Baranelli, un autentico maestro della nostra filologia. La conversazione prende spunto dal gesto clamoroso che in estate ha visto protagonista lo stesso Ulivieri contro una delibera in via di approvazione da parte della Federcalcio.

Cominciamo appunto dalla fine: perché il gesto di incatenarsi davanti alla Federcalcio, lo scorso 24 agosto?
Per un gesto di solidarietà con gli allenatori diplomati delle squadre dilettantistiche di I, II e III categoria regionale. Abolire quel diploma, avrebbe voluto dire affidare le squadre all’ultimo arrivato e avrebbe significato un abbassamento della cultura sportiva, ma anche della cultura in senso più generale. Il provvedimento veniva giustificato con motivazioni economiche ma, in realtà, gli allenatori di quelle categorie guadagnano molto poco, da zero a un massimo, molto raro, di 2.500 euro, per un media che non supera i 250 euro al mese. Con alcuni colleghi abbiamo fatto uno studio, velocissimo, e ci siamo subito accorti che si tratta di realtà sociali particolari, spesso piccole frazioni dove non c’è neanche un cinema e lì la società sportiva è forse l’unico luogo di aggregazione: è lì che c’è bisogno di un allenatore che abbia studiato, e non solo il calcio, anche perché si trova a lavorare con una grande varietà di persone, dai ragazzini a giovani molto più grandi, anche di trenta o trentacinque anni. Questo gesto sono stato costretto a farlo, nel senso che mi sono sentito in dovere di farlo, anche se mi sentivo dire ‘… ma uno come te, alla tua età, che si
mette a fare Pannella…’. Nello stesso periodo, poi, era in corso lo sciopero dei calciatori e invece di questa cosa, che era la più importante, perché coinvolgeva 3.600 allenatori, non si parlava affatto e così rischiava di scivolare in secondo piano. Sarebbe stata una vergogna, anche nei confronti dell’Europa ma, per fortuna, il provvedimento se lo sono poi rimangiato.

Ma in che senso lei trova un fatto politico, in senso stretto, mantenere il patentino da allenatore a quei livelli?
Ha un valore politico perché, appunto, significa non abbassare il livello tecnico e culturale. Vede, la
Gelmini ha già tagliato disastrosamente le classi, gli insegnanti, i bidelli, persino i buoni per i libri, ma qui non c’era nemmeno la scusa dei costi, si trattava di una presa di posizione puramente ideologica, che colpiva persone che operano, come dicevo, con dei ragazzi spesso giovanissimi: l’alternativa era lasciarli soli, abbandonarli.

Anche una simile chance, è riferibile a una tradizione, a una scuola calcistica italiana, oppure essa non esiste più, in presenza della cosiddetta globalizzazione?
La tradizione esiste, e non è andata persa, voglio dire però una tradizione che rispecchia una certa mentalità del popolo italiano, il che vuol dire un po’ furbesca, di un calcio fatto anche di astuzie, pure se probabilmente oggi non paga più e, infatti, c’è un grande bisogno di apertura. Questo sul piano tattico. Quanto invece al calcio come momento di aggregazione, dello stare insieme, la cosa non tocca il calcio professionistico. Sì, il calcio professionistico ha avuto qualche momento di apertura, di sguardo verso il mondo esterno, ma in genere continua a interessarsi solo del risultato
e, di riflesso, pensa solo ad aumentare le risorse economiche.

Quanto ha contato, in questo, non solo l’arrivo massiccio di tecnici stranieri ma anche il fatto che ormai tutti vedono tutto, in Italia e come all’estero, grazie alla televisione?
Vede, se uno ci fa caso, nel nostro campionato ci sono non meno di sette o otto modi diversi di giocare (penso fra l’altro al 3-4-3, al cosiddetto rombo, al 4-3-1-2, o al 4-4-1), se invece andiamo al campionato inglese c’è il 4-4-2 o il 4-3-3 e via, tant’è che un allenatore straniero, quando arriva in Italia, ha delle difficoltà: lo stesso Mourinho, quando gli hanno chiesto che cosa rimpianga dell’Italia, lui, che rimpiange pochissimo di tutto, ha detto di rimpiangere la «guerra tattica» che c’è nel nostro campionato. Probabilmente in Italia questo essere particolarmente evoluti sul piano tattico, ci ha fatto rimanere un po’ indietro sul piano del gioco, specie della bellezza del gioco. Da noi si comincia troppo presto con la tattica, già con i bambini, e invece non lo si dovrebbe fare, perché un bambino dai sei agli otto anni, che ha ancora l’io dentro di sé e non è abituato a riconoscere il compagno, è normale che tenga la palla e vada verso la porta. Solo dopo gli otto-dieci
anni si dovrebbe fargli notare che esistono anche gli altri bambini, dietro o di fianco o davanti a lui, cioè insegnargli che si tratta di un gioco di squadra. Da noi manca l’insegnamento del gioco fine a se stesso, del gioco per la bellezza del gioco.

Ma continua ad essere vero che la scuola italiana di calcio ha riflessi corporativi ogni volta che viene qualcuno da fuori?
Si trattasse solo di una corporazione, io non ci starei… La diffidenza c’era in passato quando noi allenatori italiani eravamo restii ad andare all’estero, cioè eravamo un mondo abbastanza chiuso. Oggi non è più così, per esempio Alberto Zaccheroni allena la nazionale del Giappone, Capello la nazionale inglese, Mancini è in Inghilterra, Spalletti in Russia, saranno almeno setto o otto, e dico solo gli allenatori di vertice. L’arrivo dei colleghi stranieri per noi è stata invece una fortuna, perché subito si è creato uno scambio, un meticciato. Del resto oggi per noi è inevitabile guardare fuori, per imparare sempre, e qui penso alla scuola spagnola, specialmente al Barcellona. Io, che credo di capire un po’ di calcio, avevo visto una decina di partite del Barcellona, pensavo di avere capito tutto e però sentivo che mi mancava ancora la chiave: poi Guardiola è venuto a parlare a Coverciano e me l’ha data lui, questa chiave. Un’altra scuola importante, insieme ovviamente a quella inglese, oggi è la scuola tedesca, in ascesa sotto ogni punto di vista, sul piano del gioco ma anche dell’organizzazione, con un’ottima politica dei prezzi, lì gli stadi sono sempre pieni.

Non ha citato la scuola sudamericana…
Quella è una scuola più che altro di calciatori artisti, di giocolieri, che mi sembra comunque in via di europeizzazione, dentro un processo che riguarda anche le cosiddette piccole nazioni. Una volta, con una novità di gioco, un allenatore viveva tre anni, poi tre mesi mentre oggi, mi viene da dire, appena tre giorni. Una volta se un allenatore aveva una novità poteva tenersela stretta, e a lungo, ma oggi non è più possibile per la tv e tutto il resto.

Lei ha cominciato ad allenare giovanissimo, ma quali sono stati i suoi maestri?
Ho cominciato a vent’anni, giocavo centromediano negli juniores della Fiorentina, ero iscritto all’Isef e già allenavo i ragazzi del San Miniato: perciò non ho potuto avere maestri diretti. Il mio riferimento allora era il Mago Herrera e andai persino a spiare gli allenamenti della Roma a Spoleto, più tardi Nils Liedholm, per il gioco sempre manovrato. Io sono stato sempre innamorato della manovra, più che del contropiede. Infine, certamente, Sacchi e Zeman, ma voglio ricordare anche Corrado Viciani, l’allenatore della Ternana anni settanta, che è stato un anticipatore e un vero maestro di calcio.

E invece, paradossalmente, qual è il giocatore da cui ha imparato di più fra i tanti che le è accaduto di allenare?
Senza dubbio Liam Brady, che ho avuto alla Sampdoria quando lui era reduce dalla Juventus, un grande campione, un uomo di eccezionale umanità che forse, pur rimanendo sempre composto, in silenzio, non ha mai perdonato chi gli aveva preferito Michel Platini…

“Alias” - 12 Novembre 2011

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