11.10.12

Federico Barbarossa e l'Impero (Valerio Castronovo)

L'Imperatore Federico I  di Svevia
assiso sul trono e affiancato dai  figli 
Per le generazioni di italiani che si sono avvicendate sui banchi di scuola tra l' Otto e il Novecento, il nome "Barbarossa" ha significato una cosa sola: la negazione delle patrie libertà in nome di un potere imperiale tirannico e usurpatore. Così, infatti, i manuali di storia definivano l'imperatore Federico I di Svevia, che nel 1162 rase al suolo Milano per punirla di non essersi sottomessa ai suoi voleri: tanto che la letteratura risorgimentale ha associato spesso la sua figura a quella del feldmaresciallo Radetzky, l' ultimo e il più odioso "poliziotto" degli Asburgo.
Quali altri personaggi, del resto, meglio di loro avrebbero potuto scatenare il rancore nei confronti dei tedeschi? Chi avrebbe potuto alimentare il nostro nascente nazionalismo più dello Svevo dalla chioma biondo-ramata, piombato in Italia come un flagello dal fondo cupo della Germania feudale per soffocare l' autonomia dei più fiorenti Comuni della Padania? O più del fedele servitore dell'Impero asburgico che, settecento anni dopo, terrà in scacco per un decennio le aspirazioni dei patrizi italiani? Erano bastati tre famosi versi di Giosuè Carducci (nella Canzone di Legnano, là dove si dice, rievocando l' atroce umiliazione subìta da Milano, che l' imperatore "dritto in piedi, presso lo scudo imperial, ci riguardava, muto, col suo diamantino sguardo", impassibile e sordo alle implorazioni dei cittadini ambrosiani come alle intercessioni dei principi tedeschi al suo seguito) per tramandare un' immagine di Federico quanto mai fosca e inquietante, per farne un modello inarrivabile di feroce violenza e di spietata oppressione; non diversamente da quanto, sia pur sotto sembianze meno truci, capiterà all' arcigno governatore austriaco del Lombardo-Veneto, divenuto nell' opinione comune il simbolo del più bieco dispotismo asburgico.
In Germania, d' altra parte, fin dalle lotte di liberazione contro l'egemonia napoleonica alcuni scrittori romantici ed esponenti della scuola storicista - dopo avere scoperto in Federico (che giunse ad assecondare lo scisma nella Chiesa di Roma pur di sottrarsi alle pretese teocratiche del papato) quasi un antesignano della Riforma protestante - avevano elevato il "Barbarossa" a emblema della "nuova Germania" sul punto di risvegliarsi. Le circostanze della fine di Federico, perito (sia pur incidentalmente, attraversando nel 1190 il fiume Salef) durante una crociata, come un martire in terra lontana, avevano fatto nascere la voce che egli non fosse morto, ma immerso in un sonno arcano, nell' attesa di una mistica restaurazione imperiale. ("Il vecchio Barbarossa, l' imperatore Federico sta, nell' incantesimo, in un castello sotterraneo. Egli non è mai morto, e, chiuso là dentro, vive ancora... Egli ha portato con sè tutto lo splendore dell' Impero, e con esso tornerà alla fine, quando sarà il tempo": così recitava una celebre ballata composta nel 1815 dal poeta Friedrich Eckert). Sicchè la leggenda tedesca e ghibellina del Barbarossa, estesa anche alla figura di suo nipote Federico II, finì per degenerare nel più vieto nazionalismo, nell' aspettativa escatologica di un nuovo destino imperiale all' insegna della germanicità e di una sua pretesa missione ecumenica.
Chi voglia ricostruire l' opera di Federico e la sua realtà più segreta si trova, quindi, non soltanto ad affrontare un' impresa faticosa dal lato della documentazione (nel caso di tempi così lontani, anche la vita di un sovrano resta avvolta nell' oscurità), ma a dover innanzitutto sfatare alcuni miti ancora oggi ingombranti. Ne ha tenuto conto l' ultimo suo biografo, Franco Cardini, già noto per alcuni studi sulle origini della cavalleria e sulle Crociate e la guerra in età medievale, e oggi autore di Il Barbarossa. Vita, trionfi e illusioni di Federico I imperatore (Mondadori, pagg. 396, lire 25.000). Cardini non nasconde la sua simpatia per un personaggio così congeniale a quella tradizione di "regalità sacra" romano-germanica i cui valori e i cui retaggi (prolungatisi talora in forme ambigue fin nella cultura contemporanea) hanno costituito in più occasioni oggetto della sua attenzione. Tuttavia il ritratto da lui tracciato (sulla scorta di una analisi attenta allo scenario sociale e culturale del tempo non meno che alle vicende politiche) è in linea generale convincente, e riporta la figura del Barbarossa nella sua giusta luce, lontano dagli stereotipi tanto di tono agiografico quanto di carattere dissacratorio. L' obiettivo fondamentale a cui Federico votò tutte le sue energie era la pacificazione e la prosperità dell' Impero. Solo lungo la strada egli giunse a concepire il miraggio "mediterraneo" di annettersi il Regno di Sicilia e di conquistare Bisanzio, e forse di ampliare il proprio potere fino ai confini della Terra Santa. Quando nel 1152 (a trent' anni) successe allo zio Corrado III, quale erede delle case guelfa e ghibellina, la Germania era da lungo tempo dilaniata da faide e guerre private fra i grandi signori feudali, mentre in Italia soffiava il vento della ribellione, tanto impetuoso da investire non solo le prerogative dell' Impero ma lo stesso potere temporale del papato. Il nuovo imperatore, che aveva assunto a suoi modelli Carlo Magno (che nel 1164 farà canonizzare) e Ottone I, si trovò così impegnato prima di tutto a ristabilire l'autorità imperiale, che si era ridotta a una semplice potestà teorica, priva di autentica forza. Federico perseguì questo programma di restaurazione sovrana in modo limpido e risoluto, convinto com'era del suo pieno diritto di esercitare il potere regio senza alcuna intermediazione o interferenza, ma agendo di volta in volta con una certa duttilità e una valutazione realistica delle circostanze di fatto. Riuscì così a ricostituire la concordia interna in Germania riconoscendo i privilegi dell' aristocrazia laica ed ecclesiastica, ma affidando allo stesso tempo i suoi domìni diretti non più a feudatari nobili, bensì a funzionari tratti dalle file dei cavalieri di origine servile e quindi a lui devoti. Anche nei confronti del papato egli seppe far valere il proprio prestigio alternando l'arma dello scontro frontale e la tattica del compromesso, anche se la sua pretesa di santificare la figura dell' Imperatore (da lui concepito come vicario di Cristo, investito della missione di guidare la "città terrestre" verso la "città celeste") rimase un semplice ideale, sorretto magari dai cultori del modello giustinianeo ma privo di crismi più concreti. La strategia di Federico non funzionò invece nei confronti dei Comuni italiani, notevolmente cresciuti in risorse sia umane che economiche (specie nella parte centro-settentrionale della penisola) e che avevano approfittato del vuoto di poteri creatosi negli ultimi anni per esercitare diritti e funzioni pubbliche spettanti al sovrano. Nei loro confronti Federico commise un duplice errore: da un lato, stentò a comprendere la natura politica del movimento comunale e dall'altro ne sottovalutò la forza. Di qui la sua illusione di poter imporre ai Comuni non soltanto il ripristino dei diritti fiscali e amministrativi di pertinenza dell'Impero a norma dell'ordinamento feudale, ma un vero e proprio potere monarchico basato sulla tradizione giuridica romana. Sta di fatto che la lotta ingaggiata contro i Comuni impegnò oltre misura le energie dell'Impero e si concluse nel 1176 con la sconfitta del Barbarossa battuto nella battaglia di Legnano dalla Lega Lombarda, costituitasi nove anni prima col giuramento pronunziato nell' abbazia di Pontida. Se pure l'autorizzazione che Federico dovette concedere nel 1183 ai Comuni, di continuare a godere di alcuni privilegi precedentemente da lui contestati e di eleggere loro magistrati al posto dei podestà imperiali non fu una vera e propria capitolazione, essa segnò nondimeno la rinuncia dell' imperatore a governare direttamente l'Italia e, più in generale - come osserva giustamente Cardini - l'eclisse del progetto che più stava a cuore a Federico: quello di una monarchia universale appoggiata al diritto romano. Ma da queste circostanze non scaturirono gli effetti che, da opposti versanti, la tradizione storiografica e letteraria ha attribuito all' azione del Barbarossa: in Italia il successo dei Comuni non fu il preludio di una reale coscienza autonomistica, mentre in Germania venne meno la prospettiva di fare dell' Impero romano-germanico il nucleo propulsivo di una monarchia accentrata, come quelle che si sarebbero insediate in Francia e in Inghilterra.

“la Repubblica” 6 giugno 1985

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