7.10.12

Dopo Caporetto. I prigionieri uccisi da fame e idropisia (John Dickie)

Nel bel libro di John Dickie sugli italiani a tavola c'è un capitolo su Caporetto e sui prigionieri di guerra italiani nei campi austriaci (ha tra le attrattive un curioso libro di ricette nate dalla fame e dal desiderio).
Qui riprendo il brano che l'introduce. Vi si leggono vicende e dati solo in parte conosciuti e tali da fornire una nuova luce sulla natura delle classi dirigenti italiane. Non è inutile ricordare che in quella carneficina che fu per gli italiani la Grande Guerra europea, vi furono in Italia numerosi e mostruosi arricchimenti collegati con le forniture militari. Nacque una vera e propria categoria sociale, detta dei "pescicani" per la loro assassina voracità. Codesti pescicani a loro volta arricchivano gli squali annidati nei vertici politici, militari e burocratici e furono, successivamente, tra i più generosi promotori e finanziatori del fascismo. (S.L.L.)
Un obice a Caporetto.
Fin dal 1861, certi politici e intellettuali di destra andavano so­stenendo che solo una guerra dura e sanguinosa avrebbe potu­to trasformare gli italiani in una nazione: queste voci belliciste cominciarono a levarsi sempre più forti durante gli aspri con­trasti politici dei primi anni del XX secolo. Alla fine, nella pri­mavera del 1915, il bagno di sangue arrivò, quando l'Italia, un paese diviso e in rapida trasformazione, fu gettata, contro la vo­lontà della maggioranza della popolazione, nella Grande Guer­ra. Gli orrori di quella carneficina su scala industriale, però, fu­rono tali che il conflitto finì col produrre effetti opposti a quel­li che i guerrafondai avevano sperato. La prima guerra mondia­le arrivò a un passo dal lacerare l'Italia e segnò la fine della sua nascente democrazia. In mezzo ai massacri e alle violente divi­sioni politiche, però, la guerra del 1915-1918 produsse anche un sublime momento di creatività gastronomica, nell'improba­bile scenario di un campo di prigionia tedesco.
La guerra si rivelò traumatica per le masse contadine, ar­ruolate a milioni per combattere nelle trincee e nelle scarpate delle Prealpi. Lo scopo della guerra nazionale, liberare le terre «irredente», ancora sotto il giogo austriaco, era qualcosa di lon­tano, che si faceva fatica a capire. Gli ufficiali erano sprezzanti, i sottufficiali erano pochi e la disciplina era severa perfino per gli standard dell'epoca; gli uomini venivano mandati a farsi massacrare, in quelli che erano praticamente degli attacchi suicidi, per conquistare una collina, con le mitragliatrici puntate alla schiena; la fucilazione sommaria dei «codardi» era la norma, e la decimazione delle unità accusate di comportamento disono­revole (veniva scelto un uomo ogni dieci e fucilato di fronte agli altri) era una pratica comune. I soldati rimanevano al fronte per mesi e mesi di fila, senza ricevere il cambio e senza ottenere congedi, perché il Comando supremo temeva che un eccessivo con­tatto fra le truppe e i «disfattisti» a casa potesse minare lo sfor­zo bellico. L'esiguità e la discontinuità dei rifornimenti alimen­tari erano una delle principali ragioni del basso morale delle truppe. Spesso, a manifestare più apertamente il loro scontento erano soldati che avevano sperimentato la vita negli Stati Uniti. Un uomo scriveva disperato alla sua famiglia nell'Ohio, nel maggio del 1917: «Ti fo sapere che qua si sta male e ci stiamo a morire di fame e sono quinque giorno che stiamo senza mangiare e qui sembra a vivere un macello».
Nell'ottobre del 1917, dopo due anni e mezzo di massacri senza frutto, la debolezza di fondo delle forze armate italiane venne messa a nudo con la disfatta di Caporetto. La disorganizzazione e l'incapacità dei comandi militari trasforma­no rapidamente la sconfitta in catastrofe. Soldati esausti e disorientati abbandonarono le armi e scesero, trascinandosi a fatica, dalle loro postazioni sulle colline. Austriaci e tedeschi ricacciarono indietro di 150 chilometri la linea difensiva ita­liana, incalzando una schiera di soldati sbandati e di civili in fuga. Solo lo straripamento delle acque del Piave arrestò l'avanzata delle truppe austrogermaniche, consentendo all'esercito italiano allo sbando di ricompattarsi e creare una nuova linea difensiva.
Le notizie che provenivano da Caporetto furono accolte con panico, sbigottimento e vergogna tra i patrioti italiani, pro­vocando un'ondata di suicidi. 11.000 soldati italiani rimasero uccisi, un bilancio relativamente contenuto se lo si paragona ai massacri apocalittici della battaglia della Somme o di quella di Passchendaele.
La cosa mortificante per molti, più che il nu­mero complessivo di morti e feriti, fu la quantità di quelli che, semplicemente, si erano arresi: trecentomila soldati italiani era­no stati fatti prigionieri, il doppio di quelli catturati dall'inizio della guerra fino a quel momento. La triste sorte di questi uo­mini è sintomatica dell'insensibilità con cui fu condotta la guerra: nella caccia ai capri espiatori scatenatasi dopo la disfat­ta, gran parte della responsabilità fu gettata sulle spalle dei pri­gionieri di guerra, bollati come disertori dalle autorità militari e lasciati a morire di fame.
Gli alleati dell'Italia si erano resi conto già dall'inizio della guerra che i pacchi di generi alimentari inviati dalle famiglie non bastavano a nutrire adeguatamente i prigionieri di guerra, che raggiungevano proporzioni numeriche mai viste in precedenza: semplicemente, era troppo inefficiente affidarsi a milioni di pac­chetti di generi alimentari spediti individualmente. Nel giro di poco tempo, sia in Gran Bretagna che in Francia fu lo Stato ad assumersi la responsabilità di impedire che i suoi cittadini pri­gionieri in terra straniera morissero di fame. In Italia, non ci fu nessuna misura del genere, e per gran parte della guerra i prigio­nieri italiani distribuiti nei campi di concentramento sparsi per tutto l'Impero austroungarico poterono far conto unicamente sugli sporadici pacchi di generi alimentari spediti da casa (tra­mite un sistema coordinato dalla Croce Rossa), per integrare le poverissime razioni fornite dai carcerieri. Solo nelle ultime set­timane prima dell'armistizio, quando il governo finanziò, a tito­lo sperimentale, la spedizione di qualche vagone ferroviario ca­rico di gallette, lo Stato italiano diede un contributo materiale di qualsiasi genere al benessere degli internati. C'è chi sostiene, ed è difficile non essere d'accordo, che il governo italiano si sia reso responsabile, per omissione, di una campagna di sterminio collettivo diretta contro i propri cittadini. Il tasso di mortalità fra i soldati italiani prigionieri fu superiore perfino a quello dei soldati al fronte: morì un prigioniero su sei, nella stragrande maggioranza dei casi per malattie legate alla fame, come la tu­bercolosi e l'idropisia da fame (uno spaventoso rigonfiamento degli arti e del viso provocato da una carenza di proteine con susseguente cedimento degli organi). Innumerevoli testimonianze ci raccontano di prigionieri italiani ridotti allo stato di scheletri ambulanti, con solo pochi stracci addosso per proteggersi dal freddo. In condizioni in cui c'era chi correva il rischio di farsi sparare addosso pur di avvicinarsi il più possibile alla staccionata per prendere un ciuffo d'erba da mangiare, spesso i prigionieri nascondevano i corpi dei compagni morti per potersi si dividere anche la misera razione di zuppa brodosa destinata al defunto.
Gli ufficiali ricevevano un trattamento speciale e moriva no con molta meno frequenza dei soldati semplici, ma anche loro patirono i tormenti della fame durante il terribile inverno 1917-1918. Dopo Caporetto, i campi di concentramento degli Imperi centrali furono messi a dura prova da un'inondazione di nuovi prigionieri. Le autorità militari italiane vietarono l'invio di qualsiasi genere alimentare ai «disertori». Sconfitti e catturati dal nemico, abbandonati dalla loro madrepatria, separati dai loro cari: sarebbe già stato difficile conservare l'autostima anche senza l'aggiunta delle privazioni fisiche imposte dalla prigionia. I diari e le memorie di questi ufficiali prigionieri di guerra hanno un tono cupo, di spossata isteria: «Disperazione, fame, viscere torturate dalla fame: deperimento continuo».
Qualsiasi sforzo fisico non necessario veniva eliminato. Tra un pasto e l'altro, tutto quello che molti potevano fare era rannicchiarsi nelle loro cuccette e aspettare. In questa inattività forzata, il cibo diventò un 'ossessione. «La fame costante ci faceva pensare soltanto a mangiare, mangiare, mangiare: parlavamo di cibo, pensavamo al cibo, ricordavamo il cibo». «Poco a poco, la fame divenne una sorta di delirio: non parlavamo d'altro che di mangiare, e aspettavamo soltanto il momento in cui avrebbero distribuito quella miserabile ciotola di brodaglia».

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