12.9.12

Un incontro con Umberto Bindi (di Luigi Manconi)

Nel 1977 mi trovai a collaborare al progetto di un programma tele­visivo, Come mai, ideato da Giampaolo Sodano e Franco Lazzaretti. Un programma destinato a un pubblico intergenerazionale, ma con partico­lare attenzione ai giovani, e che prevedeva il ricorso a nuovi linguaggi e forme narrative.
Proposi ai curatori del programma un servizio, che oggi si chiamerebbe docufilm, su Umberto Bindi, prevedendo un ampio spa­zio per il racconto in prima persona della sua omosessualità. Per questa ragione ebbi modo di incontrare Bindi in numerose circostanze e per lun­ghe ore. Lui era sempre accompagnato da un manager, silenzioso e im­penetrabile, che sembrava avere come solo compito quello di ascoltare (e registrare nella sua testa) le nostre conversazioni. Bindi era di disarman­te semplicità e, così sembrava, di altrettanta sincerità. Io avevo prepara­to, con largo anticipo, una serie infinita di possibili approcci dialettici al tema dell'omosessualità, tutti destinati a evitare un'immediata resistenza e una prevedibile riottosità. Dunque, avevo ben scolpite in mente circon­locuzioni e figure retoriche che dovevano consentire un avvio più agevole della conversazione. Ma non ce ne fu bisogno perché, appena ricordam­mo il suo esordio sul palco di Sanremo nel 1961 (con Non mi dire chi sei), emerse un'ira antica e mai sopita. O forse, più che un'ira, un ro­vello irriducibile e il senso di un'offesa non cancellabile: «Parlavano so­lo del mio anello al dito mignolo e, dunque, solo pettegolezzi e malignità, cattiverie e infamie». E ancora: «Della mia canzone non fregava niente a nessuno. Volevano solo sapere se ero finocchio». Quell'anello, Bindi, lo portava ancora al dito mignolo e, ogni tanto, lo toccava e lo faceva ruota­re intorno alla falange. A fatica perché l'anello era evidentemente desti­nato a un dito assai più sottile del suo.
Iniziato il discorso, Bindi era come un fiume in piena. Il suo racconto, nel primo e nel secondo di quei no­stri colloqui, era davvero bello e, talvolta, drammatico. Io l'ascoltavo incantato. Ambienti e personaggi, parentele e amicizie, a partire da quella Genova dove l'adolescente Umberto Bindi, nell'immediato secondo do­poguerra, imparava a suonare il pianoforte. E Bindi raccontava anche dei suoi incontri e dei suoi innamoramenti con tali accenti di verità da indur­mi a rimpiangere di non avere con me il necessario per registrare. Avver­tivo l'ansia, assai prossima al panico, che tanta disponibilità a parlare di sé si esaurisse prima che una telecamera la riprendesse. Ci furono ancora alcuni incontri, sempre davanti al manager taciturno, prima che giunges­se il momento delle riprese. Quando infine - avevo il cuore in gola - si arrivò alla registrazione (ricordo ancora la prima scena: Bindi in smoking, seduto al pianoforte, il capo chino), tutto sembrava funzionare a meraviglia. Bindi parlava e parlava e io, fuori scena, lo sollecitavo con brevi domande. Dopo non so quanto tempo, improvvisamente il cantante, senza smettere di parlare, posò le dita sulla tastiera e cominciò a suonare: fino a quando la musica arrivò a sopraffare il suono delle sue parole. Ma Bindi sembrava non curarsene, nell'esplosione della musica, ormai indifferente al motivo per cui ci trovavamo là e a quanto gli avrei potuto ancori chiedere. Intanto, la musica si era fatta fortissima. Io non sapevo che fare e oscuramente mi veniva da pensare che comunque quell'inopinata conclusione in crescendo fosse una bella soluzione televisiva. Quindi Bindi altrettanto improvvisamente sfumò la musica e si alzò dallo sgabello. Mi venne incontro sorridendo e mi strinse la mano, ringraziandomi. Il manager era già vicino a lui e i due si allontanarono, promettendo una telefonata per fissare un successivo appuntamento. Quella telefonala non arrivò mai, così come non arrivò la liberatoria che avrebbe dovuto autorizzare la messa in onda di quelle immagini. Che, infatti, mai furono messe in onda. E fu un vero peccato, anche perché Umberto Bindi era un compositore bravissimo e alcune sue canzoni restano tra le migliori di tutta la musica leggera italiana. Nei testi, anch'egli si giovò di quella innocente soluzione che la lingua italiana offre a chi, omosessuale o eterosessuale non vuole indicare il genere del partner cui ci si rivolge. Abitualmente ricorre al «tu» e a formule e desinenze che possano valere per entrambi i sessi. Così fanno Renato Zero e lo stesso Tiziano Ferro, che pure ha voluto dichiarare la propria identità sessuale. Ma nel complesso della musica leggera nazionale il tema dell'omosessualità resta comunque sommerso, e appena sfiorato.

Da La musica è leggera. Racconto su mezzo secolo di canzoni, Il Saggiatore, 2012

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