31.8.12

L'altra metà di Franco Fortini (di Massimo Raffaeli)

Dai “Coni d’ombra” del “manifesto” d’agosto, dedicati a figure e testi del Novecento per varie ragioni trascurati, riprendo un pezzo, assai bello, su Franco Fortini poeta. (S.L.L.)

IRONIA CHE RESISTE, CONTESA CHE DURA
Al di là del recinto degli addetti ai lavori, 
la poesia di Franco Fortini 
è da tempo inaccessibile. 
Ma i suoi versi ci insegnano 
a non cedere alla paura 
di sentirci solamente individui

Nel più celebre epigramma di Giacomo Noventa, teorico negli anni trenta di un suo anti-canone sulle colonne della «Riforma letteraria», Franco Fortini avrebbe rinvenuto più tardi il paradosso spiazzante che poteva celare sia l'origine sia il decorso della propria poesia. Nella sua clausola vibrante, Noventa aveva infatti affiancato per farne due antipodi «Goethe grando» a «Tasso mato», vale a dire da un lato la pienezza magnanima e una calma persino olimpica e dall'altro l'eccesso e la dismisura, la poesia come veggenza malata e virus iniettato dentro la normalità borghese.

Oltre la zona emersa
È noto che, isolata prima che minoritaria, la tesi di Noventa respingeva l'ermetismo quale degenerazione provinciale del decadentismo europeo, gergo di esteti mendaci e filistei, per invocare viceversa un ritorno alla parola integra dei classici. Il dialetto di Noventa, una patina o un filtro utile per tenere a debita distanza Ungaretti e Montale, era appunto la lingua di un rifiuto e il segno di una sua aristocratica alterità. Nato nel '17, formatosi a Firenze e a due passi dalla enclave ermetica del caffè «Giubbe Rosse», il ventenne Franco Lattes, non ancora Fortini, dal maestro Noventa era stato vaccinato una volta per sempre. Quanto alla poesia, egli non avrebbe più cambiato idea a costo d'essere bollato, e a lungo sottovalutato, alla stregua di un classicista anacronistico o di un professore che scandisse i versi con il dito alzato, pure quando sarebbe divenuto per proverbio Fortini e cioè un punto di riferimento per la cultura e più in generale per la sinistra italiana, crocevia di esperienze e nemico giurato del sonno ideologico, il coadiutore di Elio Vittorini in «Politecnico», il saggista e promotore di Lukacs e dei Francofortesi, di Simone Weil e di Lu Xun, il traduttore di Brecht, di Eluard e del Faust goethiano, il fratello avverso di Pier Paolo Pasolini e all'opposto il compagno di via di Raniero Panzieri, presente nei «Quaderni Rossi» come nei «Quaderni Piacentini» e nello stesso «manifesto», insomma il grande intellettuale firmatario di Dieci inverni ('57), di Verifica dei poteri ('65) e della quantità di pagine, breviario di una intelligenza appassionata e micidiale, che a futura memoria si contengono in Saggi ed epigrammi (2003), un volume dei «Meridiani» Mondadori ottimamente curato da Luca Lenzini e prefato da un limpido ritratto a firma di Rossana Rossanda.
Questo è il Fortini tuttora accessibile e iscritto nel senso comune. Ma va subito detto che è soltanto una metà di Fortini o, meglio, è la sua zona emersa e di dominio pubblico. Fortini poeta, al di là del recinto degli addetti ai lavori e dei sodali, è da tempo inaccessibile, in sostanza rimosso dal suo editore storico, Einaudi, nel cui catalogo gli ultimi titoli fortiniani datano a vent'anni fa: l'auto-antologia Versi scelti 1939- 1989 compare fra gli «Struzzi» nel '90, mentre nel febbraio del '94 (appena nove mesi prima della morte del poeta, avvenuta a Milano il 28 novembre) esce nella «bianca» il libro terminale, Composita solvantur, che taluni ritengono il più suo, e pochi mesi dopo nella stessa collana, postume, le Poesie inedite a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, cui va peraltro il merito di averlo già incluso nei Poeti italiani del Novecento ('78), l'ultima fra le grandi antologie secolari.

Inadempienze, incompiutezze
Quella del poeta è una rimozione che fa torto due volte a Fortini in quanto ne cancella i testi ma oscura nel frattempo la sua particolarissima nozione di poesia, da lui valutata non solo come una specifica forma d'arte ma come una vera e propria antropologia. La pienezza goethiana che da giovane gli aveva additato Noventa per lui non corrisponde a una poetica ma a un'urgenza d'ordine etico-politico o, semmai, antropologico. Cos'è la poesia per Fortini, che cosa lo ha indotto a inseguirla nella parte più concava e segreta, più silenziosamente sanguinante, della sua vicenda di intellettuale e uomo pubblico? O in altri termini: cosa ha potuto mai tentarlo, indurlo ai rischi di una lunga e dolorosa incomprensione, esporlo al sospetto di una debolezza e di una ricorrente concessione all'estetismo? È stata, con ogni probabilità, la convinzione che solo la poesia è forma futuri, dunque la figura allegorica (nel senso dantesco, del Dante studiato da Auerbach) che anticipa o letteralmente pre-figura l'esperienza della verità.
Qualcuno direbbe, più semplicemente, è il comunismo, come se, per un privilegio che è di pochi o di ancora troppo pochi, alcuni avessero la facoltà di dare forma a quanto nella vita quotidiana non ha forma, come se i segni della poesia, morti sulla pagina, ritrovassero vita, cioè un senso e un equilibrio, oltre le infinite dispersioni, nello spazio e nel tempo, della vita che ci è data qui e ora. Specchio ustorio del poeta, in quest'ottica, è giusto il lettore, chiamato fin dove è possibile a colmare la distanza che la forma della poesia, ambigua per necessità, stabilisce fra l'autore e se stesso. Dirà in proposito, a conclusione del discorso La poesia ad alta voce (1986): «Ma quante volte, nella pubblica o ad alta voce lettura della poesia, anche della meno grande, abbiamo creduto di sentire che fra il tempo solitario del testo e quello di relazione degli ascoltatori restasse sempre una inadempienza e una incompiutezza. E ascoltando la poesia veniva in mente la parola che alla fine di una sua lirica Brecht dice al suo compagno lettore: 'Non aspettarti nessuna risposta se non da te'; perché la conclusione della parola poetica è anche nel suo trasmigrare dal tempo dei gruppi umani verso quello di noi separati».
Ecco, la parabola della poesia di Fortini, fin dall'esordio di una guerra prolungata nella Resistenza, Foglio di via ('46), è tutta nell'intervallo che divide la condizione dei «separati» (la maggioranza degli esseri umani, lacerati entro e fuori di sé dal dominio di classe) dai «gruppi umani» finalmente redenti: se detto con le parole del marxismo hegeliano, ciò vuol dire che il poeta partecipa di entrambe le condizioni ma vuol dire anche che la poesia corrisponde al privilegio di mutare lo stato di parzialità (l'esistenza espropriata, divisa, accecata) nella forma compiuta della totalità. Concepita in regime di gelo e a distanza dai conflitti («inverno» resta la sua immagine più indiziata), la poesia di Fortini è povera di nomi propri e di aggettivi mentre è ricca di verbi e di comuni sostantivi, rigetta la metafisica novecentesca della Parola, orfica o spiritualista, e privilegia il nesso di metrica e prosodia, perciò di ritmo e sintassi, così come si esonera dall'universo metaforico nel momento in cui si distende per catene metonimiche e/o sovrapposizioni allegoriche.

Alla resa dei conti
Si tratta di un pensiero poetico continuamente sobillato e paradossalmente equilibrato dallo spasmo emotivo o, all'opposto, si tratta di un sentire (un patire nel profondo, fino all'arsura e all'asfissia) dove la concomitanza del pensare significa per il soggetto una tortura di rango ulteriore, quasi una resa dei conti fra parti nemiche di sé, inconciliabili ma inscindibili. Scrive nei versi di Metrica e biografia, atto d'accusa contro qualsiasi presunzione di immediatezza, in Poesia e errore ('59): «(...) una ho portata costante figura,/ storia e natura, mia e non mia, che insiste;// derisa impresa, ironia che resiste, e contesa che dura//».

Mai-più e non-ancora
Distanza, ironia, preventivo smarcamento sia dal volontarismo dell'engagement sia dall'incandescenza o dall'ambiguo calore della vita (qui si legga il nome più remoto, Pier Paolo Pasolini) sono i tratti elettivi, unici nel Novecento italiano, già messi a fuoco dalla critica fortiniana, pochi nomi ma scelti come Alfonso Berardinelli, Remo Pagnanelli, Romano Luperini (La lotta mentale, Editori Riuniti 1986), Luca Lenzini (Il poeta di nome Fortini, Manni 1999) e ovviamente Mengaldo, che una volta ha ravvisato nel corpus della sua poesia «un senso radicalmente tragico della storia, di cui i testi restituiscono la radiografia spettrale». Spettri, cioè figure ancipiti, emblemi di un mai-più che invoca un non-ancora e viceversa, come il marinaio e la ragazza che si baciano sulle rive della Nievà o la colomba che con un frullo d'ali fa crollare la casa decrepita (spoglio e antiretorico emblema, forse il solo possibile, della rivoluzione, in Una volta per sempre, 1963) o infine le immagini di vegetali, animali e di umani, un'autentica costellazione di trapassati, che abitano i libri della piena maturità, Questo muro (1973) e Paesaggio con serpente (1984). Qui il poeta scrive in totale isolamento e sembra non avere più interlocutori, se non la presenza costante, nel ricordo, di Vittorio Sereni o di Giovanni Raboni che lo ascolta sempre un po' da lontano ma con tenace fedeltà. Fortini sa di doversi inoltrare in un tempo cupo, di dispersione e disorientamento ai limiti dell'afasia, il tempo in cui gli uomini tornano ad essere «separati» e remoti dai «gruppi umani», ridotti a cieche monadi, ad anelli di una catena spezzata. È il tempo che oggi gaiamente noi diciamo globalizzato, quello che equipara l'economia politica a una teologia e il capitalismo all'ultimo orizzonte dell'umanità, un nuovo tempo trionfale che normalizza lo stato di diseguaglianza, che legittima la guerra quale atto di piena umanità ritenendo fatale che il l'uomo sia il lupo dell'uomo. (È l'ultimo e più triste fra i suoi inverni, una parola che a fine millennio torna nei versi e nei titoli di poeti più giovani, diversi tra loro, che a Fortini comunque hanno guardato come a un grande maestro, da Milo De Angelis, Gianni D'Elia, Fabio Pusterla, Remo Pagnanelli, Ferruccio Benzoni a Francesco Scarabicchi, Antonella Anedda, Antonio Prete, Cristina Alziati e Gianfranco Ciabatti, l'autore di Niente di personale - 1988 -, il cui percorso potrebbe dirsi integralmente fortiniano).
Alla nera realtà di un presente che sta divenendo apocalittico e svela la perfezione orrenda del neocapitalismo, Fortini, ormai in punto di morte, dedica Composita solvantur, il cui ultimo verso, suggello che non sarebbe dispiaciuto a Giacomo Noventa, ha la chiarezza di un testamento: «Proteggete le nostre verità».

Un legame nel vuoto
Vent'anni prima, proponendo ai lettori una selezione dei suoi testi (il bellissimo Oscar Mondadori intitolato Poesie scelte 1938-1973, a cura di Mengaldo, che fu un libro essenziale della nostra giovinezza) aveva scelto per la copertina un dipinto dell'americano James Mc Garrell, Two-step: sullo sfondo c'è una prateria vuota, un cielo ingombro di nuvolaglia, mentre in primo piano, a sinistra, una coppia sta per abbracciarsi e a destra un'altra coppia già lo sta facendo. Degli ultimi due sono coperti i volti, la schiena dell'uomo è nuda, non si capisce se si stiano amando o invece scambiando un gesto di conforto ma è sicuro, tuttavia, che nel vuoto assoluto costoro cercano un legame. Non rassegnarsi alla separatezza, non cedere alla paura o all'orgoglio di sentirsi solamente degli individui, questo ci ha sempre insegnato la poesia di Franco Fortini.

“il manifesto” 7.8.2012

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