26.7.12

Le comuni rurali. Marx censurato (di Annibale C. Ranieri)

L’articolo che segue fu pubblicato sul “manifesto” nel 2001 e si collega al dibattito nel movimento antiglobalizzazione che i carnefici di Fini e Berlusconi avevano tentato di stroncare a Genova. 
Raineri rievoca con grande chiarezza l’intervento diretto di Marx nel dibattito tra i “marxisti” russi sulle comuni rurali, utilissimo a chiarire come il “filosofo di Treviri” non si lasci incapsulare nel determinismo neanche dai suoi seguaci (“io non sono marxista” soleva dire).
Quanto scrive Raineri ridicolizza anche quanti si sono immaginati e continuano ad immaginarsi un Marx statolatrico e totalitario, una specie di stalinista che vuole riportare tutta la società – oltre che l’economia – a un potere centralizzato che – dall’esterno – organizza, regola e controlla. Il metodo seguito in quella circostanza da Marx può, al contrario, aiutare oggi certi marxisti a ragionare in maniera meno dogmatica delle forme di comunitarismo precapitalistico presenti in Africa o in America Latina. (S.L.L.)


A cavallo fra gli anni settanta e ottanta del milleottocento il vecchio e malato Marx si trovò coinvolto nella polemica attorno cui si dibatteva la "intellighentsija" russa, ed in particolare le sue componenti liberali e rivoluzionarie, circa il destino della comune rurale, antichissima istituzione che in Russia aveva attraversato i secoli e che in quel periodo subiva gli attacchi concentrici di uno Stato oppressivo e del nascente sviluppo capitalistico. In quel dibattito Marx venne coinvolto in quanto, con le sue opere scientifiche, e specialmente col Capitale, avrebbe sostenuto la inevitabilità della dissoluzione della comune rurale e di tutte le forme di economie precapitalistiche, secondo lo schema di sviluppo che l'Inghilterra aveva semplicemente anticipato, ma che tutti i popoli avrebbero dovuto seguire, vincolati da una necessità immanente alle ferree leggi dello sviluppo storico.
Inoltre per il gruppo di rivoluzionari che costituivano il nocciolo del futuro Partito operaio socialdemocratico di Russia, tale processo oltre che inevitabile era anche auspicabile, in quanto solo dalla dissoluzione della comune rurale, e dalla conseguente proletarizzazione dei contadini russi, sarebbe potuta sorgere e svilupparsi la classe soggetto della emancipazione dell'umanità, come per altro sembrava avvenire nella progredita Europa occidentale.
Marx però riteneva che quella interpretazione del suo pensiero equivaleva ad un travisamento, come scrisse in una lettera della fine del 1877 alla redazione dell'“Otecestvennye Zapiski”: quanto descritto nel Capitale è "unicamente ... la via mediante la quale, nell'Occidente europeo, l'ordine economico capitalistico uscì dal grembo dell'ordine economico feudale" e non una "teoria storico-filosofica della marcia trionfalmente imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica essi si trovino, per giungere infine alla forma economica che, con la maggior somma di potere produttivo sociale, assicura il più integrale sviluppo dell'uomo". Infatti alla conoscenza dei fenomeni storici "non ci si arriverà mai col passe-partout di una filosofia della storia, la cui verità suprema è d'essere soprastorica". Tuttavia questa lettera di Marx non venne pubblicata dalla rivista russa, e fu resa pubblica soltanto dopo la sua morte, a Ginevra nel 1884 e, in versione integrale, a Parigi nel 1902.
L'8 marzo 1881 Marx rispondeva a Vera Zasulic, una rivoluzionaria che da poco aveva lasciato il populismo per unirsi a quanti in Russia si rifacevano al movimento socialista di "ispirazione marxista", la quale gli chiedeva una opinione sulla posizione da assumere sulla comune rurale. In maniera altrettanto netta Marx ribadiva alla Zasulic che "la fatalità storica" del movimento di "espropriazione dei coltivatori agricoli", e quindi il passaggio al sistema capitalistico basato sulla "separazione radicale del produttore dai mezzi di produzione", è "espressamente limitata ai paesi dell'Europa occidentale". Dalle analisi del Capitale, chiariva Marx alla Zasulic, non possono essere derivate ragioni pro o contro lo sviluppo della comune rurale russa, "ma lo studio apposito che ne ho fatto, e di cui ho cercato i materiali nelle fonti originali, mi ha convinto che la comune è il punto di appoggio della rigenerazione sociale in Russia". Al contrario "se la Russia continua a battere il sentiero sul quale dal 1861 ha camminato, perderà la più bella occasione che la storia abbia mai offerta a un popolo, e subirà tutte le peripezie del regime capitalistico" (lettera citata alla "Otecestvennye Zapiski"). Tuttavia nemmeno la lettera alla Zasulic venne resa pubblica, nonostante ad essa Marx attribuisse sicuramente una notevole importanza - come testimoniato dalla notevole mole di appunti preparatori stesi dallo stesso Marx - e solo nel 1924 uscì dall'archivio Axelrod.
In cosa consistesse per Marx l'"occasione storica" che la Russia rischiava di perdere risulta chiaro dagli appunti preparatori della lettera alla Zasulic: la possibilità per un modo comunitario di relazione sociale, quale quello della comune rurale russa, di "appropriarsi le conquiste positive del sistema capitalistico senza passare per le sue forche caudine", cioè senza "dover cominciare col proprio suicidio", ed anzi dimostrando, nel processo "di rigenerazione della società russa ... la superiorità sui paesi ancora asserviti dal regime capitalistico".
Ho voluto riprendere così lungamente queste note di Marx su una questione che ha per noi la distanza della storia, perché testimoniano quale fosse l'effettivo punto di vista del Marx giunto alla conclusione del suo lungo percorso intellettuale e politico. Di fronte al conflitto fra la potenza dissolutrice del denaro nella sua funzione di capitale - che irrompe sulla scena di un paese non ancora pienamente sviluppato - e le preesistenti formazioni sociali di tipo comunistico, quindi non ancora assoggettate agli "automatismi del mercato" e alla conseguente atomizzazione delle relazioni sociali, Marx riteneva possibile una pratica che né si attestasse su posizioni "reazionarie" di difesa dei vecchi istituti né accettasse come inevitabile pagare i "prezzi della modernizzazione capitalistica". Anzi, riteneva Marx, proprio il carattere pubblico e comunitario di tali istituti li rendeva soggetti fondamentali nella lotta per il superamento della società borghese, avendo qualcosa da insegnare ai soggetti il cui orizzonte di vita è costituito dai "paesi ancora asserviti dal regime capitalistico".
La possibilità di questo nuovo sviluppo storico si fondava, per Marx, sulla contemporaneità fra la esistenza di antichi istituti comunitari e lo sviluppo del modo di produzione capitalistico sulla cui base si sono sviluppati tanto i processi di universalizzazione delle relazioni sociali quanto l'emergere del valore della individualità con la connessa idea moderna di libertà: "se la rivoluzione russa diverrà il segnale di una rivoluzione proletaria in Occidente, in modo che le due rivoluzioni si completino a vicenda (sottolineatura mia), allora l'odierna proprietà comune della terra in Russia potrà servire come punto di partenza ad uno sviluppo in senso comunistico" (prefazione alla edizione russa del Manifesto, il 21 gennaio 1882).
E' impossibile non rimanere colpiti dalla assonanza fra queste osservazioni marxiane e ciò di cui è espressione il "popolo di Porto Alegre": la realtà composita di un movimento in cui esperienze fondate su pratiche comunitarie, di resistenza alla penetrazione del capitale in settori non ancora interamente posti sotto il suo dominio - perché sino ad un certo momento ancora non ritenuti utilizzabili ai fini della sua accumulazione - si mescolano alle esperienze critiche sviluppatesi dove più estremo è stato il processo di "atomizzazione" e "astrattificazione" della vita e "desertificazione dell'universo di senso".
L'assonanza che mi sembra di trovare fra questa vecchia polemica marxiana e gli inediti compiti che ci troviamo innanzi, indica, mi sembra, quanto lunga sia stata la fase della sua gestazione, cioè l'intera epoca storica in cui è storicamente posto il problema del superamento del denaro come forma della sintesi sociale, cioè il dominio del rapporto sociale di capitale sull'intero delle relazioni sociali. D'altra parte proprio questa definizione dell'epoca contemporanea come epoca di transizione verso un nuovo mondo, possibile e necessario, fondava per Marx (come chiarito nelle note preparatorie della lettera alla Zasulic) la possibilità che antichi istituti comunitari e modi di produzione non assoggettati alla legge del capitale assumano un ruolo fondamentale nel processo di liberazione dalle forme storiche del dominio, dello sfruttamento e dell'alienazione, anziché essere consegnate alla pattumiera della storia.
Così, se, come spesso ci ricorda Cavallaro, il nodo che abbiamo da sciogliere è quello di superare/sopprimere il dominio del denaro (capitale) nella determinazione del quanto, come e cosa produrre, è altrettanto vero che questo compito, che segna per le sue dimensioni una intera epoca storica, non può essere ridotto alla definizione di una autorità centrale (a livello planetario), ma ci riconsegna il problema della invenzione e costruzione di percorsi decisori pubblici e democratici, non (più) mutuabili dalle esperienze degli stati nazionali, senza ovviamente con ciò volere demonizzare le esperienze del novecento, né darne una rappresentazione caricaturale, come troppo spesso capita di leggere.
Questa invenzione storica, anche di articolazioni istituzionali, oltre che economici e sociali, può essere solo il prodotto di un movimento in cui cooperino creativamente tutti i soggetti che già oggi fanno pratica (contraddittoria quanto si vuole) di relazioni sociali non mercantili e non autoritarie.
Non è un caso, io credo, che anche su questo punto le assonanze fra le attuali esperienze del "popolo di Porto Alegre" e le valutazioni espresse da Marx sulla Comune di Parigi e nella sua Critica al Programma di Gotha - con cui ruppe con la cultura lavorista e statal-nazionalista del movimento socialista europeo - ci obblighino a sviluppare uno sguardo capace di interrogare il tempo presente in tutta l'ampiezza dell'unico destino che vincola tutti viventi sulla Terra da quando essa, con la conquista delle Nuove Indie, è stata progressivamente posta sotto il doppio dominio della spada e del denaro.

“il manifesto” – 19 settembre 2001

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