20.6.12

Mario Mineo. Gli anni di Perugia (S.L.L. "micropolis" maggio 2012)


Diario scolastico perugino, 1959

Schumpeter, per esempio
A Perugia Mario Mineo arrivò sul finire degli anni 50, come insegnante all’Istituto tecnico commerciale. Era, da tempo, assistente ordinario di Economia all’Università; ma una commissione presieduta da Papi, uomo della destra più conservatrice, gli aveva negato la libera docenza per le sue scelte politiche e scientifiche piuttosto eterodosse (Schumpeter, per esempio).
Enrico Mantovani, che lo ebbe come insegnante negli ultimi anni del corso di Ragioneria, racconta la ventata di novità che portò: via il manuale superficiale e dogmatico, lettura diretta di documenti e testi sia giuridici che economici, coinvolgimento e responsabilizzazione degli studenti. “Con Alberto Grohman, mio compagno di banco, intuimmo subito che era di sinistra: ne avemmo conferma, quando lo scoprimmo a leggere l’Espresso e, qualche tempo dopo, l’Unità. Sotto la sua guida preparai una relazione sul socialismo degli Incas: è prova della varietà e vastità di interessi che sollecitava. Dice bene la Rossanda: era un maestro, tra i più esigenti”. A riprova Mantovani riferisce la reazione del professore all’intenzione di leggere i testi economici di Marx: “A Marx ci arriverai. Prima è meglio passare per Marshall, Pareto e Keynes; non leggerli, ma studiarli”.

La biblioteca del Pci
Tra i comunisti perugini vigeva una certa tolleranza nei confronti degli “intellettuali” (famosa è la battuta sulla porta girevole attraverso cui Pio Baldelli entrava e usciva dal partito) e il professore siciliano sapeva farsi apprezzare per la sua lucidità politica e cultura. Mario Mineo, che da qualche anno era tornato a iscriversi al Pci, frequentava la federazione di Piazza della Repubblica, partecipando e intervenendo negli attivi e in altre riunioni. Per qualche tempo si pensò di affidargli la Commissione Scuola, ma non se ne fece niente. Maurizio Mori, che in anni successivi avrebbe partecipato con Mineo, nel frattempo rientrato a Palermo, all’esperienza di Italia-Cina e dei gruppi della IV Internazionale, ne fece la conoscenza proprio in federazione, nel corso di una riunione di medici e tecnici sulla Riforma sanitaria. Si teneva nella Sala Rinascita, ove era collocata la ricca biblioteca del Pci e dove un ignoto signore gironzolava, osservava i libri negli scaffali, ne tirava fuori qualcuno, lo sfogliava, lo rimetteva a posto, all’apparenza incurante della discussione. A sorpresa, però, costui intervenne nel dibattito e disse la sua con tale precisione che i più lo scambiano per un accademico della materia o per un esperto mandato dalla Direzione. Era invece proprio Mineo che, dopo un paio d’ore di attenzione, mostrava di sapersi ottimamente districare in un campo piuttosto complesso, con valutazioni e proposte da tutti apprezzate. Episodio rivelatore non solo di cultura e intelligenza politica, ma anche di rare capacità di ascolto.

Apparati di periferia
Tra gli Scritti politici di Mineo due, entrambi del 62, risalgono alla permanenza in Perugia.
Il primo, sul capitalismo di stato, fu pubblicato nel numero di giugno da Cronache umbre, il mensile locale del Pci. Era il tempo dell’Eni di Mattei, cresceva il ruolo delle Partecipazioni Statali, il primo centro-sinistra nazionalizzava l’elettricità. A un importante convegno del Gramsci di qualche mese prima, s’era considerato irreversibile l’estendersi del capitalismo di stato, in forma di intervento diretto (lo Stato imprenditore) e indiretto (la manovra monetaria e finanziaria). Mineo denuncia il “notevole ritardo” del Pci sul tema: una analisi dei processi in atto neanche abbozzata, una proposta genericamente “antimonopolistica”. L’affermazione che nei paesi avanzati e in regime di democrazia politica il capitalismo di stato non è obbligatamente strumento di involuzione totalitaria e può al contrario favorire l’evoluzione democratica della società gli appare giusta ma insufficiente: il problema è sapere come il movimento operaio può modificare i rapporti di forza e orientare il processo. La tematica è ripresa nel documento redatto in vista del X Congresso del Pci, datato settembre 62 e circolato tra Perugia e Palermo, ove Mineo si appresta a fare ritorno; in convergenza con la sinistra socialista di Foa e Libertini, vi si sostiene l’idea di un “controllo operaio” che, partendo dalle strutture produttive, sia capace di esprimere a tutti i livelli strutture di potere democratico da contrapporre al potere statale.
Il cuore della riflessione precongressuale di Mineo riguarda tuttavia la natura del partito e la democrazia interna: egli contesta il centralismo cosiddetto democratico e chiede di ammettere, almeno nella fase congressuale, le correnti. Tutto ciò in coerenza con la critica radicale dello stalinismo concepito come una “deviazione ideologica e politica”.
Il “libello” – così lo chiama Mineo – fu fatto circolare, per evitare facili accuse di tradimento, solo all’interno del partito e inviato alla Direzione nazionale, alla Commissione di Controllo e alla segreteria di federazione. Non ho notizia della reazione, ma dubito che potesse essere tranquilla, anche per l’intransigenza delle posizioni espresse. Ecco, ad esempio come viene bollata la parte delle tesi congressuali relativa al partito: “Costituisce nel complesso una raccolta di banalità, degne di un apparato burocratico di periferia”.
Dal Pci il rivoluzionario palermitano sarebbe uscito alla fine dell’anno, questa volta definitivamente. 

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