23.6.12

La semplicità difficile. L’inizio del viaggio dantesco (di Cesare Segre)

Cesare Segre
“La semplicità che è difficile a farsi” dice Brecht parlando del comunismo. L’aureo precetto s’adatta anche alla buona divulgazione, per esempio a questa magnifica pagina di Cesare Segre sull’incipit della Commedia dantesca. Segre è un filologo, linguista, teorico della letteratura, critico tra i più colti, documentati, raffinati e questo suo scritto, pubblicato dal Corriere della Sera alcuni anni fa, è impregnato d’erudizione e competenza. Pure riesce a comunicare con facilità, quasi con leggerezza, al lettore non specialista, mediamente colto.
Un esempio da imitare, consapevoli di quanto difficile sia l’essere semplici. (S.L.L.)
Il primo canto dell'Inferno in una illustrazione cinquecentesca
Lettura del I Canto dell’Inferno dantesco
Quando s' incomincia a scrivere un libro, il ventaglio delle possibilità pare infinito. Ma lo scrittore sa che il suo primo passo condizionerà in un certo senso il tono di tutto quanto sarà poi detto. È vero che Dante, componendo i primi versi del primo canto, aveva già stabilito le misure morali e materiali della sua Commedia: un progetto così grandioso che nessuno aveva ancora osato proporsi nulla di simile. Si può essere altrettanto sicuri che tutto il quadro astronomico e cronologico fosse nella sua mente, e si può anche supporre che qualcosa, o molto, dei canti successivi avesse già scritto. Insomma, non partiva proprio da zero.
Questo forse attenuava la sua trepidazione. Ma restava sempre il problema di come avviare con naturalezza un itinerario nel sublime. Un viaggio che i molti predecessori di Dante, anche se di un livello artistico modesto, avevano preso l'abitudine di narrare in prima persona. Ponevano se stessi come esemplari dell'Uomo, di ogni uomo, perché la scelta tra bene e male, tra virtù e vizio, c'investe tutti. Erano influenzati, forse, dal modello di visioni apparse a pii frati, come quella di Alberico da Montecassino: esse avevano valore perché i loro autori le esponevano proprio come le avevano vissute (o creduto di vivere).
La visione di Dante è invece un' invenzione letteraria; ma questo non faceva che aumentare l'efficacia della forma autobiografica, che evidentemente offriva alla sua esperienza di poeta inesauribili effetti di realtà. Col suo rigore matematico, Dante concepisce il primo canto come un'introduzione: così il poema può esser considerato di novantanove canti, numero gravido di significati, più uno. E quest'uno non è una premessa all' Inferno, ma a tutta l'opera, mentre all'Inferno si sarà istradati solo col canto secondo, e l'abisso si aprirà davvero con la famosa, terribile iscrizione che inizia il terzo: «Per me si va nella città dolente», ecc., sino all'ingiunzione «lasciate ogni speranza, voi ch'intrate».
Il primo canto della Commedia è perciò soprattutto un annuncio della conformazione spirituale dell'opera e del suo contenuto. Più facile dichiarare quest' ultimo; e infatti in cinque terzine si annuncia il viaggio del protagonista-autore in mezzo alle pene eterne; il suo passaggio tra altre anime che soffrono, ma sanno di poter poi salire alle gioie paradisiache; infine, l' approdo tra le «beate genti». Andava invece detto di più del quadro spirituale. Per spiegarsi, Dante ricorre all'allegoria, che può esser considerata un linguaggio, allora molto più familiare di oggi. Abbiamo l'allegoria dell'uomo come viandante, che troppo spesso imbocca il sentiero del vizio invece di quello della virtù. Abbiamo l'allegoria dello smarrimento in una selva, e poi della salita verso la purezza delle cime e la luce del sole. Dopo una notte tormentosa, Dante, riprendendosi dallo smarrimento, cioè da pensieri almeno intellettualmente peccaminosi, incomincia a salire, e ha quasi un anticipo del sollievo che attende i beati: si sente infatti simile a chi esce «fuor del pelago a la riva» e guarda indietro, con respiro ancora affannoso, verso «l' acqua perigliosa» da cui è scampato. La scena poi si fa più mossa quando al viaggiatore appaiono successivamente tre animali: una lonza o lince, un leone e una lupa, che cercano di tagliargli la strada e di respingerlo verso il basso, verso la selva. Anche questi animali saranno stati subito riconosciuti dal lettore medievale, che certo ne intuì il possibile simbolismo: per esempio la lussuria, la superbia e l'avarizia. Qui l'allegoria è semplice, e Dante e le tre fiere formano un'immagine da miniatura, così come, prima, il viaggiatore nella valle oscura e verso la vetta battuta dal sole. Pare di veder rappresentati dalla mano di un pittore il poeta e gli animali su un fondale di colline stilizzate. La lonza è snella, agile, e sembra dare allegria col suo pelo maculato: la sua pelle infatti è «gaetta», cioè a macchie policrome, e si pensa a «gaio», anche se etimologicamente non c' entra; il leone, rabbioso per la fame, alza la testa orgogliosa; la lupa è magrissima, anche lei affamata. E mentre la lonza si accontenta di frenare il cammino del poeta, il leone pare voglia assalirlo, e la lupa riesce davvero a farlo arretrare, verso la selva che aveva abbandonato per forza di volontà. Nulla di realistico, anche se spesseggiano versi pieni di vibrazioni. Il lettore è abilmente preparato all'allargamento di significati che avrà luogo nel seguito del poema: aggettivi come «dura», «aspra», «amara» avranno implicazioni escatologiche quando saranno riferiti alla dannazione, così come «bello», «dolce», «dilettoso» avranno riflessi paradisiaci: tutto entro il contrasto tra «vita» e «morte», non nel senso terreno ma in quello di salvezza e di condanna eterna. Ma già del passaggio attraverso la selva si dice che «non lasciò già mai persona viva»: perché il peccato porta a morte immancabile. E si ha pure il presentimento di un clima da paradiso terrestre («sì ch'a bene sperar m'era cagione l' ora del tempo e la dolce stagione»). Viene poi anticipato quel gusto astronomico che caratterizza la Commedia. Il sole, dice Dante, «montava ' n sù con quelle stelle / ch' eran con lui quando l' amor divino / mosse di prima quelle cose belle». E gli animali naturalmente non si limitano a simboleggiare i vizi: essi abbozzano, affrontando Dante, la guerra tra vizi e virtù, che si svolge (già secondo san Paolo) nell' animo dell' uomo. Paura e speranza salgono dunque di livello: non è più in gioco la salvezza dall' aggressione belluina, ma la salvezza eterna. E infatti più avanti si annuncia con toni profetici l' impresa di un Veltro: cane da caccia simbolo di un salvatore che darà termine alla guerra spirituale sconfiggendo il vizio. Un' idea geniale è quella di attuare il trasferimento e l' attraversamento del mondo della visione non con l'aiuto d' un angelo o d'un santo, come nei testi affini, ma di un personaggio come Virgilio, che per qualunque poeta doveva essere familiare, anche se illustre e antico (e ancora un personaggio familiare sarà la guida successiva: Beatrice, la donna amata in gioventù). Assistiamo così, stupefatti, alla transizione dai simboli e dagli stilismi figurativi a un incontro fra poeti, alla rivelazione di quell'amore di Dante per Virgilio che fa del sesto libro dell'Eneide uno dei modelli principali del disegno dell' Inferno. Insomma, c'è tutta una poetica implicita, cha fonde il classicismo pagano di Virgilio con l' ispirazione dei pensatori e dei narratori cristiani del medioevo. A questa poetica non fecero la dovuta attenzione i critici che immaginarono un Dante visionario, fedele cronista di un viaggio che credeva d'aver fatto. Dante invece ci suggerisce, proprio attraverso il dialogo con Virgilio prima d'entrare fra i morti, che il suo è un lavoro di poeta, e che per dire delle verità non occorrono etichette confessionali. E tratta anzi Virgilio come uno dei tanti personaggi concretissimi della sua esperienza, quei personaggi che si susseguono nella Commedia ricostruendo il sistema dei suoi amori, delle sue passioni, dei suoi odi. Virgilio non è solo «maestro» e «autore», cioè modello e testimone di verità, ma quasi un padre.

“Corriere della Sera” 21 maggio 2004

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