17.6.12

Gli intellettuali e la Rete secondo Jürgen Habermas (di Benedetto Vecchi)

Vecchi recensendo  un libro di Jürgen Habermas, Il ruolo dell'intellettuale e la causa dell'Europa, saggiamente critica le illusioni sulle virtù salvifiche di Internet, non sono solo e non tanto quelle dell’ultimo dei “Francofortesi”, ma dei tantissimi nel mondo intellettuale che se ne nutrono e le alimentano. Del suo articolo riprendo una buona parte. (S.L.L.)
Jürgen Habermas
«La politica si sta liquefacendo nella comunicazione», afferma Jürgen Habermas in questa raccolta di saggi che ha come filo di Arianna il ruolo dell'intellettuale nelle società, mentre il suo cuore è nell'analisi della formazione dell'opinione pubblica e il rapporto di questa con la sfera politica. In sordina rimane invece l'Europa, progetto politico che ha subito talmente smacchi da rendere scettico il filosofo tedesco sulla possibilità di un suo rilancio in tempi brevi. Eppure sull'Europa Habermas è stato uno degli intellettuali che ha preso ripetutamente, e con passione, parola affinché il vecchio continente si dotasse di una costituzione dopo averla sottoposta a referendum per garantire una sua legittimità «popolare», diversamente da quanto era accaduto al trattato di Maastricht, sottoscritto dai governi e mai discusso dai governati.
La necessità di un soggetto politico chiamato Europa è infatti illustrata in due brevi saggi sull'assenza di una politica estera europea sulla guerra dell'Iraq e la crisi economica del 2007. La mancanza di una posizione comune su questi due argomenti ha reso l'Europa subalterna all'unilateralismo di George W. Bush. Ma, aspetto ben più importante, è che questo «vuoto politico» ha condotto il vecchio continente all'afasia, anche se non entusiasma la proposta di costituire un esercito europeo come esempio di protagonismo politico. Per quanto riguarda la crisi economica, la mancata costituzione europea ha alimentato quell'«egoismo nazionale» che Habermas vede complementare all'affermarsi di politiche economiche a favore del libero mercato che stanno facendo carta straccia dei diritti sociali di cittadinanza.
Il filosofo tedesco usa però un tono piano, dialogico. Nessuna invettiva, ma l'andamento di chi pensa che il dialogo tra persone informate apra le porte a un punto di vista condiviso e di chi punta a costruire un ordine del discorso basato attraverso l'individuazione delle compatibilità da rispettare affinché l'ordine politico e sociali non possa essere sovvertito. In fondo è questo il nucleo fondante della sua proposta di «politica deliberativa», forma di costruzione del consenso sui valori espressi dalla «carta» - la Costituzione, per essere chiari - che definisce il perimetro dell'azione statale, dei partiti e dei movimenti sociali, realtà potenzialmente antagoniste tra di loro e che hanno come «interfaccia» la sfera pubblica all'interno della quale tutti possono mettere a confronto le proprie posizioni.
Una rappresentazione dell'agire politico che deve necessariamente fare i conti con la pervasività dei media, tanto di quelli «tradizionali» (televisione, radio, carta stampata) che di quelli nuovi (Internet). Ed è su questo ospite inatteso che emerge la figura dell'intellettuale in quanto guardiano dell'ordine costituzionale. La sua presa di parola è legittimata ovviamente dalle sue conoscenze specialistiche, ma tuttavia si concentra anche su terreni estranei al suo «lavoro». In altri termini, pone con forza temi che sono già presenti nella discussione pubblica, ma mai assunti nella loro giusta rilevanza. Siamo dunque lontani sia dalla figura platonica del filosofo che illumina la caverna dove sono condannati a vivere gli altri uomini e donne. Ma siamo altrettanto lontani dal maître à penser novecentesco o dal gramsciano intellettuale organico. Per Habermas l'intellettuale deve svolgere il suo ruolo di indirizzo proprio in una realtà segnata dai media, che rendono la discussione pubblica materia prima di un infotainment che impedisce la definizione propria di un terreno condiviso e di una politica deliberativa. E non è un caso che nei ritratti di intellettuali significati della fine del Novecento Habermas annoveri studiosi liberal come Richard Rorty o disincantati e ostili a una politica «radicale» come Jacques Derrida.
Lo schema proposto del rapporto tra opinione pubblica, agire politico e sfera statale risulta così alterato. L'opinione pubblica non è infatti costituita da uomini e donne informati, ma da un accumulo di informazioni precostituite da sondaggi tesi tuttavia a impedire la definizione di un terreno condiviso. L'agire politico è dunque investito dall'infotainment e rischia così di liquefarsi. La scelta suicida di molti partiti è cercare di rappresentare il simulacro di opinione pubblica prodotto dall'infotainment.
Che i sistemi politici e istituzionali del capitalismo contemporaneo siano in crisi è indubbio. Che il potere sociale, economico e politico dei media sia cresciuto fino al punto di sussumere la sfera pubblica è altrettanto vero. Ma Habermas non è convincente quando pensa che vada ristabilita quella ripartizione tra società civile, sfera pubblica e istituzioni statali indispensabile per una «politica deliberativa». E non è un caso che il filosofo tedesco individui nella Rete lo strumento affinché possa costituirsi una opinione pubblica indipendente non solo dal sovrano, ma anche dalle media corporation. La convinzione che attraverso Internet possa risorgere «un pubblico egualitario di scriventi e leggenti» e da essa prenda forma un'opinione pubblica riflessiva si base sulla rimozione del fatto che la Rete è un contesto dove convivono sia tendenze alla manipolazione delle informazioni che strategie economiche delle imprese, che forme di radicalismo sociale e politico. Paradossalmente la Rete è l'immagine allo specchio della società, con i suoi conflitti e le strategie di controllo esercitate dal potere. Non quindi un antidoto al potere manipolatorio e parassitario dei media, ma esemplificazione dell'agire sociale in cui la politica deliberativa ha le stesse possibilità di successo che ha al di fuori dello schermo... 

“il manifesto”, 6 aprile 2011

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