18.5.12

Un paese in Sicilia. Da un mio racconto inedito (S.L.L.)

Da un mio lungo racconto dal titolo (provvisorio) Borghesia, degli anni Novanta del secolo scorso ma inedito, riprendo un brano che abbozza la storia di un paese siciliano, dalle origini ai primi del Novecento, il tempo in cui è collocata la narrazione. (S.L.L.)
Particolare da una foto di Fausto Vella
Era un paese giovane, nato da una feudale licentia populandi (di popolare o di devastare?) alla metà del Seicento.
L’avevano battezzato con uno di quei nomi ruffiani che usavano allora nell’illusione di attirare la gente. La toponomastica isolana è piena di campi belli e felici, monti vaghi, allegri e lucenti d’oro, acque vive e fresche, ma, allora come adesso, in Sicilia i nomi (e gli aggettivi) non significano la verità delle cose, piuttosto la nascondono.
I siciliani lo hanno sempre saputo, sicché, all’infuori di qualche latitante, allettato dalla facoltà di condono tombale concessa al Castellano, e di alcune famiglie di terremotati del 1697 e del 1726, per più di un secolo pochissimi si stabilirono in quel paese, per quanto il sito beneficiasse dell’esenzione triennale dalle gabelle regie ed offrisse ai nuovi residenti un “soccorso” pecuniario per dieci anni.
I baroni che si succedevano nella carica di Castellano speravano di ottenere dal popolamento non solo risorse, ma meriti da spendere nelle carriere palermitane, per sé ed il casato. Facevano grandi promesse, case con censo bassissimo, contratti agrari vantaggiosissimi per il contadino, terre comuni in abbondanza, ma con scarso successo. Non era l’America, per il colono. Quand’anche si trattasse di terre incolte da secoli o addirittura vergini, egli non aveva speranza di libertà e di futuro. I potenti e i loro sgherri trovavano sempre il modo di riprendersi con il sovrappiù quel che avevano dato vista di concedere, e contro di loro non c’era legge che valesse: chi comanda fa legge.
Le cose cambiarono più tardi, quando al margine dell’abitato fu fatta passare una grande via di comunicazione, una trazzera regia, obbligata per gli spostamenti mare-interno e per il coast to coast da Nord a Sud. Ci piazzarono una stazione di posta e arrivarono fondacari, osti, beccai, artigiani, negozianti, briganti e avventurieri. Fu poi d’aiuto un provvidenziale periodo di anarchia feudale: a un barone matto ne seguì uno che si cacava addosso, poi uno melanconico e un altro sifilitico. Per primi ne approfittarono i più esperti tra i collaboranti del Castellano, che si diedero da fare per accaparrarsi le terre comuni e perfino quelle della Baronia. Ma anche tra i nuovi arrivati non mancavano uomini energici, pronti d’ingegno, forti di spalle, lesti di mano, leggeri di gambe. Vi furono appropriazioni di case e terreni, sequestri di persona, requisizioni forzose, grassazioni e furtarelli, e non mancarono sparatorie in piazza, al fondaco o all’osteria, ammazzamenti nei campi, guerre tra associazioni contrapposte. Non era il Far West, ma un po’ ci assomigliava.
Quando fu restaurata qualche forma di ordine, i rappresentanti ufficiali del potere si comportarono come i padri riottosi dopo la fuga d’amore della figlia: si rassegnarono al fatto compiuto. Ora il paese era più popolato, aveva un’articolazione sociale più complessa e dinamica, era diventato persino ricco, quanto poteva esserlo un paese della Sicilia interna. I suoi abitanti venivano chiamati da quelli dei centri vicini i Panzuti e, se la pancia non è segno di buona salute e di alimentazione completa e variata, pure rende manifesto che di fame non si muore.
I Panzuti non avevano tradizioni. C’erano lì vicino il Poggio degli Impiccati e il Bosco della Fata, i cui nomi rimandavano a leggende di tempi lontani, ma nessuno le conosceva; nemmeno dopo, quando filologia, etnologia e demopsicologia ebbero perfezionati metodi e tecniche di ricerca, la fatica di eruditi locali e folcloristi insigni, durata parecchi decenni, riuscì ad andare al di là di improbabili congetture.
Gente in massima parte eterogenea e randagia, i Panzuti dovettero pertanto inventarsi ogni ragione d’orgoglio municipale. Tentarono di farlo erigendo ben tre chiese nuove e il palazzo comunale, ma risultavano poco più che catapecchie a fronte degli edifici civili e religiosi dei paesi vicini, che non solo possedevano il prestigio dell’antichità, ma avevano anche accumulato nel tempo statue e dipinti. L’unico vanto restò a lungo la regolare topografia dell’abitato con le sue strade larghe e diritte che incrociandosi disegnavano una specie di tabellina pitagorica con case e cortili in luogo dei numeri.
Poi, qualche decennio dopo la cacciata di Franceschiello, ci pensò il sindaco Liotta, lu sgricchiatu, a dare ai Panzuti la gioia del primato.
Sgricchiari o scricchiari è voce onomatopeica usata in quasi tutta l’isola; vale a dire, transitivamente, “far saltare fuori” o, intransitivamente, “saltare fuori” e il suono rinvia allo “scric” di uno scatto. Si sgricchiano le mandorle liberandole dal pericarpo, le olive snocciolandole, i piselli estraendoli dal baccello; sgricchia il glande, se si scappella il pene. Ma una testa di cazzo, in circostanze determinate, può sgricchiare anche da sola.
L’uso nominale del participio sgricchiatu, riferito ad esseri umani, è però esclusiva dei Panzuti e rimane un fattore d’identità. Nel sindaco Liotta, infatti, c’era sempre qualcosa che saltava fuori di scatto: un capo d’abbigliamento vistoso, un inutile monocolo, una frase fuori tempo e fuori luogo, una vanteria sproporzionata. Da qui il soprannome e il successo del lemma, tuttora in uso. Teste di cazzo ce ne sono, purtroppo, dappertutto, ma gli sgricchiati si trovano solo tra i Panzuti.
Né fu solo questo il primato che quel sindaco lasciò in eredità ai concittadini. L’altro è la piazza di mastro Menico.
Anticamente c’era in paese un grande carcere regio, che uno dei primi castellani aveva fatto costruire per ingraziarsi il Vicerè, un edificio sicuramente sovradimensionato e prevalentemente utilizzato per la giustizia locale, feudale. Il governo borbonico preferiva la forca.
Mastro Menico ne era stato l’ultimo ospite. Calzolaio provetto, aveva ottenuto l’impiego di carceriere in grazia degli stivaletti che fabbricava alla baronessa, invidiati per la loro eleganza da tutte le gran dame di Palermo, e delle scarpe che forniva, sempre gratis, all’intera famiglia del barone.
Da carceriere aveva cura dei detenuti, mai più di cinque insieme: accoltellatori, ubriaconi, assassini d’onore, sacchinari, “ladri di passo” babbei che si erano lasciati acchiappare, perfino un avvocato liberale. I ladroni veri non li prendevano quasi mai; quando succedeva, più per caso che per intenzione, o li impiccavano o li facevano ministri.
Mastro Menico era una specie di tuttofare: sorvegliante, cuciniere, infermiere, confessore, consolatore. C’era sempre lo stesso giro di galeotti, la sua vera famiglia. Quella anagrafica era composta dalla moglie e tre figlie e a lui, calzolaio, erano riuscite tutte zoccole. Aveva licenza di andarle a trovare ogni domenica - un gendarme gli dava il cambio - ma spesso preferiva rimanere nella prigione, per non vedere, sentire, sapere, parlare.
In carcere oltretutto continuava a tenere bottega e aveva adibito ad officina una delle tante celle vacanti, per coltivare i suoi interessi tecnologici. Ideava e realizzava invenzioni, generalmente inutili, finché non riuscì a forgiare, come tuttora raccontano i suoi discendenti, la macchina per fabbricare cartamoneta. Un detenuto infamone fece la spia e questo modificò la condizione giuridica di mastro Menico, da carceriere a carcerato.
Tutto nella realtà rimase come prima: egli conservava la custodia del carcere e dei carcerati, il possesso delle chiavi, anche del portone esterno, la bottega. La domenica non veniva il gendarme per il cambio e le visite coniugali erano rare e brevi, ma quello era tutto un guadagno.
Quando, al tempo di Garibaldi, infransero i turpi serrami e liberarono i prigionieri, mastro Menico non ne volle sapere di tornarsene a casa. Dovettero rinominarlo carceriere.
Passarono gli anni e un decreto prefettizio chiuse definitivamente l’inutile prigione, erroneamente giudicata simbolo della tirannide borbonica. Il sindaco Liotta decise di abbatterla per far luogo ad una grande piazza.
La facciata dell’edificio dava sull’area prospiciente la Chiesa Madre, già di per sé spaziosa; i muri laterali fronteggiavano l’uno il municipio, l’altro un bel palazzo signorile; da retro c’era la residenza del Barone. Ne veniva perciò fuori non solo una piazza amplissima, ma un vero centro del paese, dove si concentravano le funzioni civili e religiose e si rappresentava la gerarchia sociale, dove poteva utilmente allocarsi il principale mercato del posto, quello dei braccianti che si affittavano a giornata.
Mastro Menico fu sfrattato ed indennizzato con un congruo vitalizio. S’era fatto vecchio. La moglie intanto era morta e le figlie, dato che erano zoccole, si erano sposate e avevano famiglia propria. Se lo contesero, un po’ per affetto un po’ per interesse, ma lui preferì alloggiare da singolo nella sua casa di vedovo. Figlie e nipoti non gli fecero mancare qualche conforto, ma la libertà gli riusciva insopportabile. Se ne morì nel giro di tre mesi.
Qualche giorno dopo il suo funerale, all’inaugurazione, ci fu grande spolvero di autorità civili e militari, con fanfara. Ora al posto del carcere faceva bella vista un marciapiede quadrangolare, novanta metri per centosessanta, subito denominato “spianatoia”. La piazza fu intitolata a una fausta ricorrenza della giovane patria, ma per un lungo ordine di anni tutti la chiamarono “piazza di mastro Menico”.
I vecchi lo fanno ancora.

1 commento:

Falilulela ha detto...

Finalmente qualcosa di tuo... E questa amata/odiata Sicilia che ti porti dentro si delinea, si colora di immagini, si popola di persone che diventano, loro malgrado, personaggi...
Bello!

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