27.5.12

Mario Mineo. Marxista senza miti (R. Covino - "micropolis" - maggio 2012)

"Micropolis" di maggio, a 25 anni dalla morte, dedica tre pagine speciali a Mario Mineo, un grande marxista rivoluzionario da troppi dimenticato. Questa pagina, curata da Renato Covino è la prima delle tre. (S.L.L.) 


Venticinque anni fa, il 3 giugno 1987, a 67 anni moriva, stroncato da un infarto, Mario Mineo. Ai più – giovani e anziani – il nome dirà poco o niente. E’ anche questo un frutto dell’eclissi della memoria che contraddistingue i nostri tempi. Per molti dei redattori di “micropolis” Mineo è stato non solo un compagno e un amico, ma colui che – caso raro anche nella sinistra della prima repubblica – offriva proposte di analisi e praticava un’idea di politica al tempo stesso basata sull’oggettività dei processi economici e sociali e priva di qualsiasi mitologia.

La rivoluzione possibile
Mineo era un marxista e un comunista senza alcuna propensione ideologizzante, convinto che Marx avesse offerto non un corpo dottrinario, ma un metodo che consentiva di leggere le società contemporanee. Da ciò la sua attenzione alle possibilità di contaminazione tra il filosofo di Treviri e i grandi scienziati sociali “borghesi” di fine Ottocento e del primo trentennio del Novecento: da Schumpeter a Keynes. Era questo il motivo della sua opposizione allo stalinismo, che leggeva come un tentativo di ridurre il marxismo ad una sorta di catechismo che offriva un’interpretazione semplificata il mondo. Mineo era un comunista che riteneva la rivoluzione possibile, ma non probabile, da ciò il suo leninismo, molto poco “sovietico” e piuttosto modellato sul famoso saggio scritto da Luckacs nel 1924, dopo la morte del rivoluzionario russo, che individuava i tratti caratterizzanti del suo agire politico nelle categorie della congiunturalità e della totalità, ossia come frutto di un processo mondiale e di una situazione particolare su cui il partito operaio deve dimostrarsi capace di agire. Da ciò la sua attenzione alle strutture politiche ed istituzionali, alla loro crisi, vista come elemento fondamentale su cui fondare un’ipotesi rivoluzionaria. Mario Mineo, peraltro, basava la sua critica all’Urss su una ipotesi che individuava lo stalinismo come frutto del blocco della transizione, ossia del fallimento dell’ipotesi leniniana della rivoluzione russa come rottura destinata a produrne altre in Europa occidentale. Da ciò era derivato uno stato che rappresentava la negazione dell’idea di democrazia radicale propugnata da Marx.
A questo corpo di analisi Mineo è stato caparbiamente attaccato. Apparteneva a quel tipo di militanti che – come ebbe a dire a suo proposito Vittorio Foa – erano fedeli non ad una organizzazione ma alle proprie idee, ciò spiega la sua irrequietudine e le rottura con le forme organizzate in cui ha militato (Pci, Psiup, IV internazionale, Manifesto – Pdup, ma la stessa chiusura di “Praxis” la rivista che aveva fondato). Molte delle sue analisi – sullo Stato e sulla transizione, sul socialismo reale, sul partito – appaiono oggi difficilmente utilizzabili; altri spunti teorici, come quello del dialogo tra marxismo e i grandi scienziati sociali del Novecento, trovano sempre più conferme; altre ipotesi – più direttamente legate alla realtà italiana – mostrano tutta la loro attualità e il loro valore interpretativo. Soprattutto a queste ultime sono dedicate le pagine che
qui gli dedichiamo.

La crisi di regime
Il concetto nasce dall’analisi dell’esaurirsi del centro sinistra dei primi anni sessanta, che per Mineo rappresenta il fallimento di una ipotesi di adeguamento della struttura dello Stato ai mutamenti intervenuti nell’economia e nella società italiane. Per chi ricorda quegli anni risulta evidente come ogni proposta di riforma trovasse una sorda resistenza da parte di settori moderati e conservatori e da parte di comparti consistenti del settore pubblico (apparati repressivi, settori imprenditoriali, fino ad arrivare al Governatore della Banca d’Italia Guido Carli che arrivò, di fronte alle leggi del primo governo di centro sinistra, ad evocare il colpo di Stato). Per Mario Mineo ciò significava la sconfitta del tentativo di un’evoluzione in senso riformista dello Stato italiano e il rimanere in campo di due ipotesi: o una evoluzione in senso autoritario del sistema istituzionale o un cambiamento radicale in senso socialista della società. La questione che si poneva era, allora, quella di attrezzare in tempi rapidi la sinistra a tale prospettiva, cosa che comportava la crescita di una forza politica diversa dalla sinistra tradizionale sufficientemente consistente per porre sul tappeto la questione della rottura degli equilibri statuitisi con la vittoria democristiana del 1948. L’alternativa era quella che si era posta qualche anno prima in Francia con il passaggio dalla Quarta alla Quinta Repubblica, attraverso il “colpo di Stato pulito” di De Gaulle, con la significativa variante, tutta italiana, che il colpo di stato pulito potesse degenerare in un colpo di stato reazionario gestito dai generali, dall’esercito, dagli apparati repressivi. Non era un’ipotesi campata in aria. I tentativi di colpo di Stato - da quello del generale De Lorenzo in poi - fanno parte della storia d’Italia, come il coinvolgimento dei servizi segreti italiani e stranieri e di settori significativi delle forze che si rifacevano al fascismo. La crisi di regime, insomma, rappresentava la forma specifica della crisi del sistema politico istituzionale italiano e costituiva una possibilità per le forze rivoluzionarie. C’era dietro a questa concezione un elemento di metodo. Mineo riteneva una sciocchezza la teoria del crollo di staliniana memoria che faceva coincidere l’occasione rivoluzionaria con la crisi economica, come si oppose ne “Il Manifesto” all’idea, propugnata da Lucio Magri, secondo cui - in coincidenza e per effetto della crisi economica del 1973-1974 - si era alla vigilia di una crisi di sistema, ossia dell’insieme dei rapporti e degli equilibri della società italiana. Per Mario Mineo invece il lungo sessantotto italiano rappresentava l’effetto dell’inadeguatezza dello Stato e della sua capacità di risposta alle esigenze del paese. La crisi politica nella sua visione era da questo punto di vista centrale, da qui lo sforzo di unire l’insieme delle avanguardie e dei gruppi della sinistra italiana per aggiungere quel minimo di massa critica che consentisse di costruire una riposta adeguata e credibile dal punto di vista organizzativo e programmatico.
In realtà le variabili impreviste che entrarono in gioco nella fase successiva (dal terrorismo all’ipotesi di compromesso storico fino alla sconfitta operaia alla Fiat, lo squagliamento della sinistra rivoluzionaria) non provocarono né la svolta autoritaria né l’affermazione di una forza capace di intervenire in modo efficace nella crisi politico istituzione, determinando un cambiamento radicale del quadro. La fase che va dal 1981 al 1992, caratterizzata dai governi del Caf, vide la cronicizzazione della crisi di regime, interi pezzi di ceto medio vennero “comprati” attraverso l’uso spregiudicato delle finanze pubbliche, con il conseguente effetto dell’aumento esponenziale del debito pubblico e dei fenomeni di corruzione politica. Si poteva pensare che con la vittoria di Berlusconi nel 1994 si sarebbero accelerate le tendenze alla democrazia autoritaria, complice la stessa Unione europea che poteva al più eliminare le tendenze fascistoidi delle classi dirigenti italiane. Tuttavia la chiusura della principale anomalia italiana (il Pci), il rafforzamento degli esecutivi, le leggi elettorali maggioritarie, i processi di smobilitazione dell’attività economica dello Stato, lo stesso dominio dell’ideologia liberista non sono state in grado di chiudere il “caso italiano”. La crisi di oggi si presenta come una riedizione senza via di sbocco di un passato che ormai dura da un cinquantennio. La categoria di “crisi di regime” mantiene tutta la sua forza interpretativa, con l’aggravante che se non sorgono rapidamente forze nuove di sinistra, esterne al quadro politico esistente, il paese è destinato ad un putrescente disfacimento, ipotesi che negli ultimi anni della sua vita Mineo riteneva concreta e tutt’altro che remota.

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