27.5.12

Mario Mineo. La borghesia mafiosa (S.L.L. - "micropolis" maggio 2012)

La seconda delle pagine di "micropolis" in edicola dedicate a Mario Mineo. (S.L.L.)
La Sicilia come metafora è un celebre libro-intervista di Leonardo Sciascia, in cui l’isola, grazie alla sua eccezionalità, diviene emblema dell’universo intero. Mario Mineo fu amico di Sciascia, soprattutto nel breve periodo in cui, consiglieri comunali a Palermo, condussero insieme epiche battaglie di principio (sul rispetto degli orari, per esempio), tuttavia non credeva nella “eccezione Sicilia” e non vedeva differenze strutturali tra l’isola e il Mezzogiorno continentale. Pensava casomai che fossero da osservare le limitate specificità, fra cui la mafia.

Un fenomeno sociale
La locuzione “borghesia mafiosa”, divenuta oggi d’uso corrente, fece scalpore quando Mario Mineo, sul finire del 1970, la usò nel documento costitutivo del “manifesto” in Sicilia e quando, dopo, ne impose la forza di significazione agli allievi politici, incluso qualcuno che da magistrato sarebbe entrato nel pool di Caponnetto.
Per Mineo il disegno di formare nel Sud una borghesia imprenditoriale diffusa era fallito: fino a metà Novecento aveva dominato indisturbato il blocco agrario; negli anni successivi, del boom e dell’emigrazione, era nata una borghesia parassitaria che, per via politica, si accaparrava risorse (lavori pubblici, ruoli negli uffici, appalti, finanziamenti), che era in prima linea nella speculazione fondiaria ed edilizia e nei posti chiave delle grandi professioni. In Sicilia questa borghesia, per genesi, modo di essere, forma, era “mafiosa”, ove per mafia non va inteso un tipo di mentalità o di organizzazione criminale (quella che in passato era stata strumento della grande proprietà nelle campagne), ma un fenomeno sociale complesso e pervasivo, interno alla modernizzazione capitalistica.
Mineo negava scientificità a formule come “modo di produzione mafioso” e non pensava che la borghesia isolana fosse uniformemente mafiosa: conosceva le distinzioni tra Sicilia Occidentale e Orientale e scorgeva nelle professioni liberali o nell’imprenditoria una qualche volontà di emancipazione. Non credeva tuttavia che la cosiddetta “società civile” potesse da sola combattere il blocco di potere costituito: “Un legame organico corre oggi, con molte distinzioni di compiti ma senza soluzione di continuità, tra malavita, droga, speculazione edilizia, clientele pubbliche, partiti, apparato regionale e di stato in Sicilia”. Non ipotizzava secondi o terzi livelli, intravedeva piuttosto un’osmosi tra “mafia militante” (boss e killer) e “mafia trionfante” (lo strato politico, amministrativo, imprenditoriale, professionale dominante), favorita da legami ideologici, familiari, di interesse.

Il buon democristiano
Mineo non si sentiva “mafiologo” ma politico rivoluzionario, e considerava l’approccio analitico preliminare a una lotta di massa. Negli anni del “movimento”, i primi 70, pensò che gli studenti potessero svolgere un ruolo tra i ceti medi, ma considerò sempre determinante l’impegno del movimento operaio organizzato, Pci, Cgil, socialisti; alla scelta prevalente tra i comunisti, di “agire per vie interne” cercando sponde nel blocco politico ed economico dominante (sinistre democristiane, imprenditori progressisti), contrappose però la “lotta frontale” alla mafia. A questo scopo propose pertanto la presentazione di un disegno di legge di iniziativa popolare per l’esproprio dei patrimoni acquisisti con metodi e attività mafiose negli ultimi 20-25 anni, attraverso una procedura rapida e l’intervento di comitati popolari. Occhetto respinse l’idea come suicida: da segretario regionale preferiva dialogare con i Dc e accusava Mineo di “non vedere altro che mafia”.
(Questo andare in caccia di democristiani “buoni”, tipico del partito siciliano dal tempo di Milazzo, ha avuto conseguenze esiziali negli eredi del Pci. Capodicasa, luogotenente di D’Alema e tuttora deputato Pd, fu eletto sul finire degli anni Novanta presidente della Regione. Aveva come assessori i democristiani Lo Giudice (Mangialasagne) e Cuffaro (Vasavasa): non erano ancora finiti in gattabuia per associazione o concorso esterno, ma le loro frequentazioni, solidarietà e amicizie erano già note e da loro stessi mai nascoste.)

Mineo e La Torre
Negli anni della “solidarietà nazionale” (1976-79) in Mineo prevale il pessimismo: la mafia sta conoscendo uno “straordinario potenziamento determinato dal commercio della droga, in termini di disponibilità finanziaria e di collegamenti a livello nazionale e internazionale” e “l’improvvida politica delle assegnazioni al confino contribuisce alla costruzione di una vasta rete mafiosa nell’Italia continentale”. Nel gennaio 81 torna alla guida del Pci isolano Pio La Torre, uno dei dirigenti più consapevoli e combattivi rispetto alla mafia. Già il mese prima aveva presentato in Parlamento un disegno di legge sulla confisca dei patrimoni mafiosi, e Mineo l’aveva giudicato buono.
Con La Torre tuttavia non si capivano. A Palermo raccontano di un La Torre che in pubblico apostrofa come “onanistico” il Circolo Labriola fondato da Mineo. Questi, dal canto suo, dopo l’assassinio del dirigente comunista, su “Praxis” ne esalta la cristallina onestà, ma lo giudica “un modesto funzionario dell’apparato, dotato solo di buona capacità organizzativa e di una certa grinta”.
Credo che l’uno e l’altro sbagliassero di molto.
Mineo aggiustò il tiro qualche mese dopo, in polemica con chi cercava un “patto antimafia”  con la Dc dei “vari Martellucci, Lima e D’Acquisto”: “La Torre ha pagato con la vita, dimostrando così che, in fin dei conti, contro la mafia può servire solo quella battaglia frontale che Occhetto aveva dichiarato suicida”. Un nuovo cadavere eccellente, quello del generale Dalla Chiesa, accelerava intanto l’approvazione della legge sugli espropri, anche se Mineo restava convinto che senza iniziativa di massa sarebbe rimasta lettera morta.
Non si sbagliava: per un decennio poche confische e molti avvocateschi intoppi. Solo a metà degli anni Novanta la neonata Libera, guidata da Ciotti, del gruppo Abele, e da Benettollo, dell’Arci, lancia in tutta Italia una petizione e un movimento per l’uso sociale dei beni sottratti alla mafia, ottenendo nel 96 l’approvazione di una legge. Sui beni confiscati si accende ora la pubblica attenzione e nelle terre liberate nascono cooperative modello. Restano però gocce nel mare: il peso della “borghesia mafiosa”, in Sicilia e altrove, rimane assai forte.

*Tutti i brani citati sono tratti da Mario Mineo, Scritti sulla Sicilia, Flaccovio 1995.

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