24.4.12

La musica e la libertà. Intervista a Ramzi Aburedwan (di Valentina Coluccia)

Tra gli aspetti meno noti della Resistenza palestinese c’è il tentativo di affermare l’esistenza, la dignità e l’identità di un popolo oppresso attraverso la forza dell’arte e della cultura. Un’esperienza assai significativa è stata ideata e realizzata da un musicista, un’importante solista (di viola) che si esibisce da solo o in gruppo in Europa e in Italia. Era a Torino nel settembre 2011 per il MiTo, era a Potenza a novembre ed in Veneto nel marzo scorso. L’intervista di cui qui riprendo un ampio stralcio (dal “Messaggero veneto”) è più antica, del luglio 2008, ed è stata raccolta da una giovane giornalista friulana, Valentina Coluccia. (S.L.L.)   
Ramzi Aburedwan
Ospite di spicco ieri al Mittelfest di Cividale del Friuli è stato Ramzi Aburedwan che non è certo una persona comune o che passi inosservata. […] La “fortuna” di Ramzi è stata la sua disperazione. Nel 1987, infatti, era un ragazzino che lanciava le pietre contro i carri armati israeliani. Viveva nel campo profughi di Al Amari, era molto noto a Ramallah: tra i quattro e i sedici anni aveva venduto giornali per le strade, dalle quattro alle sette di mattina. Una vita normale per un bambino di un campo profughi. Poi, nel 1989, la svolta: Ramzi “inaugura” la prima Intifada, lanciando pietre contro i cingolati di Tel Aviv. Dieci anni dopo, nel 1999, è già nelle file della West-Eastern Divan Orchestra, fondata da Barenboim e Said, e oggi è un musicista affermato che si divide tra i concerti eseguiti con la sua viola e l’impegno in Palestina, dove nel 2005 ha aperto una scuola di musica, “Al Kamandjati” (Il violinista), nel centro storico della città, alla quale hanno fatto seguito numerose altre sempre nei Territori Occupati.
Com’è potuto accadere che un sogno come il suo, che da bambino voleva imparare a suonare uno strumento pur non avendo la minima possibilità né i mezzi per farlo, si sia potuto avverare? Sembra quasi una favola.
«In effetti è un po’ una favola. È andata così: da sempre sono stato attratto dalla musica. Infatti osservavo i gruppi che venivano nel mio campo profughi per suonare, a esempio ai matrimoni, e desideravo toccare per prima cosa uno strumento e poi imparare a suonarlo. Ma ero consapevole che fosse appunto solo un sogno. Poi una donna di Ramallah, militante del Fronte popolare, che aveva notato la mia passione, mi ha invitato a partecipare all’incontro con un violinista palestinese, venuto dalla Giordania per avvicinare i bambini e gli adolescenti palestinesi alla musica. Avevo 17 anni, tardissimo per imparare a suonare uno strumento! Ma la passione è stata più forte di tutto e dopo pochi anni già “abbracciavo” la mia viola nella West-Eastern Divan Orchestra».
Lei è stato molto fortunato. Ma da qui ad aprire gratuitamente la prima scuola di musica in un campo profughi è un grande passo. Come ha fatto?
«Tutto parte sempre dalla mia esperienza personale. Quando ho cominciato a suonare studiavo al Conservatorio Edward Said, fondato nel ’93 come filiazione della storica Università "Bir Zeit" a Ramallah. Eravamo venti studenti e quasi non c’erano insegnanti. Lì sono stato per circa un anno, senza avere un maestro e cercavo di fare un po’ da autodidatta, praticamente suonavo da solo. Nel ’98 ho avuto la possibilità di andare a studiare musica in Francia… È lì che ho iniziato a sognare ancora e il mio sogno era di riuscire a far sognare, mediante la musica, tutti i bambini palestinesi dei campi profughi per dare loro la stessa opportunità che avevo avuto io. Quando sono tornato in Palestina, nel 2002, durante la seconda Intifada, subito dopo l’invasione da parte dell’esercito israeliano a Ramallah, ho deciso di cominciare da solo, suonando per i bambini del campo profughi. E ho visto la stessa magia, che aveva acceso i miei occhi, illuminare quelli dei bambini dei campi profughi».
Così è nata la scuola Al Kamandjati (Il violinista)...
«Esatto. La scuola ha mosso i primi passi fra mille difficoltà fra cui quella di trovare gli strumenti musicali e soprattutto quella di allacciare contatti in Palestina, come all’estero, per trovare il supporto da dare al progetto musicale».
Le famiglie come hanno reagito al desiderio dei figli di imparare a suonare uno strumento?
«Inizialmente non capivano a cosa servisse la musica. Dicevano: ma perché imparare a suonare se l’unica cosa importante in un campo profughi è quella di riuscire a sopravvivere? Poi, come ogni genitore che desidera solo la felicità del figlio, quando vedevano la luce che si accendeva negli occhi dei bambini, erano felici e li spronavano loro stessi a partecipare attivamente».
C’era bisogno di spronarli?
Ramzi sorride: «Sì perché in un campo profughi la percezione del tempo è molto relativa. I bambini arrivavano a lezione con due ore di ritardo o magari con due di anticipo sempre per il fatto che l’unico tempo rispettato all’interno del campo è quello della sopravvivenza. Io vivo in funzione dell’ora in cui riuscirò a mangiare, ad esempio. E dunque adeguarsi a orari istituzionali per prendere parte a lezioni su qualcosa che esula dalla sopravvivenza del corpo - ma non dell’anima – non è stato sempre facilissimo».
Ci sono anche bambine fra le giovani promesse della musica?
«Certo, molte bambine, anzi forse sono più femminucce che maschietti».
Qualcuno di loro spera in una carriera da musicista?
«Decisamente sì. Dei 350 allievi delle scuole di musica che abbiamo creato in Palestina, fra venti selezionati otto hanno vinto concorsi importanti e iniziano a girare per fare concerti. Questo … fa capire a loro e alle famiglie come la musica, oltre a salvare l’anima, possa rappresentare una valida opportunità lavorativa per un futuro migliore… Stiamo cercando, malgrado le evidenti difficoltà che ci sono e ci saranno, di aprire scuole anche in Libano. Noi combattiamo contro i posti di blocco e le frontiere creati dall’uomo nella sua ottusità…».

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