3.4.12

La fiorente industria dell’agricoltura biologica (di Philippe Baqué)

PRODUZIONE INTENSIVA,
SFRUTTAMENTO DI MANODOPERA,
ASSENZA DI TRACCIABILITÀ

Polli allevati in batteria,
pomodori in tutte le stagioni,
frutteti in cui si sfruttano operaie immigrate…
Sì, ma «bio»!
Ecco come un movimento voluto da militanti impegnati
nella difesa dei piccoli produttori
e contro le logiche produttivistiche
rischia di arenarsi
sugli scaffali dei supermercati.
«Ecologisti e sessantottini hanno lasciato il posto ai professionisti!» diceva, nel giugno 2009, un tecnico della cooperativa Terres du sud che organizzava, nel Lot-et-Garonne, una giornata alla «scoperta» degli allevamenti intensivi di… polli biologici. Le performance degli impianti chiave in mano distribuiti dalla cooperativa, i crediti e gli aiuti pubblici proposti puntavano a convertire gli agricoltori invitati. In effetti, le potenti cooperative agricole, legate ai grandi marchi dell’industria agroalimentare, si fanno ormai una concorrenza spietata nell’allevamento di questi polli al di sopra di ogni sospetto destinati a rifornire la grande distribuzione e la ristorazione collettiva. Sfruttano la nuova normativa europea che permette a un allevatore di produrre fino a settantacinquemila polli da carne biologica l’anno e non pone limiti alle dimensioni degli allevamenti di galline da uova biologiche.
Le cooperative hanno capito di poter guadagnare molto proprio con quel tipo di agricoltura che tanto a lungo avevano denigrato. Applicandovi i loro metodi. «I produttori hanno contratti ferrei e perdono ogni autonomia – afferma Daniel Florentin, membro della Confederazione contadina, ex allevatore di pollame biologico che ha lavorato con la cooperativa delle Lande Maïsadour. Si ritrovano pesantemente indebitati per almeno vent’anni e devono consegnare tutta la produzione alla cooperativa che s’impegna a comprarla, senza determinarne in anticipo il prezzo. È un puro sistema d’integrazione, usuale negli allevamenti intensivi convenzionali.»
Dal 1999, a causa di problemi sanitari e ambientali, il consumo di prodotti alimentari biologici cresce in Francia del 10% l’anno. Nel 2009, nonostante la crisi, il giro d’affari dei prodotti biologici
è aumentato del 19% (2). Questo mercato, a lungo marginale, è diventato portante ed è stato preso d’assalto dalla grande distribuzione, che realizza ormai più del 45% delle vendite.
Tuttavia, nel 2009, nonostante l’aumento delle adesioni, l’agricoltura biologica rappresentava solo il 2,46% della superficie agricola utilizzata. Per soddisfare la domanda dei consumatori, gli attori che dominano il mercato hanno quindi scelto due soluzioni: un massiccio ricorso alle importazioni e lo sviluppo di un’agricoltura biologica industriale e intensiva.
Il concetto di agricoltura biologica è nato e si è sviluppato in Europa come reazione all’agricoltura chimica e produttivistica in auge dopo la seconda guerra mondiale. All’inizio degli anni ’60, una rete di piccoli produttori di biologico e di consumatori crea Nature et Progrès. L’associazione piace a buona parte delle popolazioni urbane le quali decidono, per scelta, di ritornare alla terra e tessono legami con vari movimenti ecologisti e politici, come il movimento antinucleare e il sindacato Contadini-lavoratori negli anni ’70, poi, a partire dagli anni ’90, con la Confederazione contadina e gli anti-Ogm (organismi geneticamente modificati). Di conseguenza, Nature et Progrès ha man mano inserito nel proprio disciplinare un certo numero di principi: rifiuto dei prodotti di sintesi, trattamenti naturali, diversificazione e rotazione delle colture, autonomia delle aziende, energie rinnovabili, difesa dei piccoli produttori, biodiversità, semi contadini, sovranità alimentare...
Per ridare senso al consumo e ricreare legami sociali, la vendita dei prodotti biologici è garantita da mercati locali, fiere e gruppi d’acquisto che daranno vita alla rete delle Biocoop. Lo statuto di Nature et Progrès ha ispirato quello della Federazione internazionale dei movimenti per l’agricoltura biologica (Ifoam), adottato nel 1972, che ai criteri agronomici associa obiettivi ecologici, sociali e umanitari.

Un mercato in cui regnano gli intermediari
Il movimento contadino e sociale legato a questo tipo di coltivazione stenta però a trovare una propria coerenza.
Negli anni ’80, il disciplinare ufficialmente riconosciuto di Nature et Progrès coabita con altri, all’incirca una quindicina, creati da diversi movimenti.
Nel 1991, col pretesto di un’eccessiva confusione, Bruxelles ne impone uno per tutta l’Unione europea, la cui applicazione da parte dello stato francese produrrà il marchio nazionale Ab (Agricoltura biologica). Gli organismi certificatori, privati e commerciali, esautorano il controllo partecipativo realizzato fino a quel momento da commissioni di produttori, consumatori e trasformatori.
È un momento di grave crisi per Nature et Progrès. Alcuni membri decidono di boicottare il marchio. Altri, tentati da un mercato biologico certificato in piena espansione, lasciano l’associazione. «La certificazione ha favorito le filiere a scapito delle reti solidali – spiega Jordy Van Den Akker, ex presidente dell’associazione. L’ecologia e il sociale, che sono per noi importanti valori del biologico, non sono più associati all’aspetto economico. Il marchio e la normativa europea hanno permesso lo sviluppo di un mercato internazionale facilitando la libera circolazione dei prodotti, il commercio e la concorrenza. Non ci riconosciamo in tutto questo
Entrata vigore il 1° gennaio 2009, una nuova normativa europea permette, tra l’altro, lo 0,9% di Ogm nei prodotti biologici e deroghe per i trattamenti chimici (4). «Il biologico è totalmente incompatibile con gli Ogm – reagisce Guy Kastler, allevatore nell’Hérault e militante di Nature et Progrès. Noi continuiamo a pretendere lo 0% di Ogm! La nuova normativa definisce degli standard e non si preoccupa più delle pratiche agricole. Si è passati da un obbligo di mezzi – qual è il metodo di coltura utilizzato? – a un obbligo di risultati – che residuo è rintracciabile nel prodotto finito? Così si apre la porta alla generalizzazione di un’agricoltura bio industriale
In questo processo, le cooperative agricole sono all’avanguardia. Grazie, in particolare, all’alimentazione per pollame la cui produzione, unita alla vendita agli agricoltori, garantisce notevoli margini di utile. La vecchia normativa francese imponeva a un allevatore biologico di produrre il 40% dell’alimentazione animale sulle proprie terre. Un legame col suolo che non è riproposto nella nuova regolamentazione europea. L’allevatore compra dalle cooperative la totalità degli alimenti, nei quali la soia è uno dei componenti fondamentali. Nel 2008, in Francia, la produzione di pollame biologico è aumentata del 17%, mentre quella della soia biologica è diminuita del 28%. La soia importata, molto meno cara, si è imposta.
Nel novembre 2008, sono state ritirate dal mercato trecento tonnellate di panelli di soia biologica provenienti dalla Cina, e importati tramite una filiale della cooperativa Terrena, in quanto risultava presente un elevato tasso di melammina, un prodotto molto tossico.
Da allora l’azienda ha rinunciato al commercio con il gigante asiatico ma, per alimentare il pollame biologico del Grande ovest, si approvvigiona su un mercato internazionale in cui regnano intermediari che non brillano per trasparenza. La soia biologica comprata in Italia – che può arrivare da Romania o Polonia – è in concorrenza con quella del Brasile. Quest’ultima è coltivata da piccoli produttori dello stato del Paraná, dipendenti da grandi società esportatrici, e soprattutto del Mato Grosso dove le fazendas biologiche – i cui proprietari rifiutano le visite della stampa – possono estendersi per cinquemila ettari. Quest’ultimo stato è il più implicato nella distruzione della foresta amazzonica. Secondo Wwf-Francia, due milioni e quattrocentomila ettari di foresta spariscono ogni anno in Sudamerica, direttamente o indirettamente a causa della soia. Eppure, alla soia biologica brasiliana, comunque scontata, non è richiesta alcuna certificazione che ne garantisca una produzione estranea a questo disastro.
Anche se l’agricoltura biologica rappresenta una parte minima delle attività delle grandi cooperative, comunque esse intendono imporre la loro supremazia. Terrena ha comprato l’impresa Bodin, leader del pollo bio francese; la cooperativa Le Gouessant ha ormai acquisito l’Unione francese per l’agricoltura biologica; Euralis possiede quote importanti di Agribio Union...
Molte associazioni interprofessionali regionali di promozione del biologico e la quasi totalità delle camere dell’agricoltura – sempre più coinvolte nella gestione di questo tipo di coltivazione – subiscono l’influenza delle cooperative. L’Istituto nazionale delle appellativi di origine (Inao) quello incaricato di controllare l’applicazione della normativa europea in Francia, è diretto da Michel Prugue, presidente di Maïsadour che commercializza diverse varietà di semi Ogm.
Queste cooperative, che non rinnegano minimamente l’uso dei prodotti chimici nella cosiddetta agricoltura «convenzionale», rafforzano il loro legame con le multinazionali coinvolte nella ricerca e commercializzazione degli Ogm. Il quaranta per cento delle quote di Maïsadour-semences, una filiale di Maïsadour, appartiene alla società svizzera Syngenta, erede delle attività agrochimiche di Novartis. Maïsadour-semences possiede fabbriche di produzione in varie parti del mondo. La crescente influenza delle cooperative con interessi finanziari nel settore degli Ogm non è probabilmente estranea alla decisione della Commissione europea di fissare allo 0,9% il tasso di Ogm tollerato nei prodotti biologici, cosa a cui il Parlamento europeo si era opposto.
La Francia importa più del 60% della frutta e degli ortaggi biologici che consuma. ProNatura è il leader francese della loro commercializzazione in negozi specializzati e nei supermercati. In meno di dieci anni, quest’impresa del sud-est della Francia ha decuplicato il suo giro d’affari e assorbito altre quattro società. Un quarto dei suoi prodotti proviene dalla Francia, ma il resto è importato da Spagna (18%), Marocco (13%), Italia (10%) e da una quarantina di altri paesi. ProNatura è stata la prima società a commercializzare frutta e ortaggi biologici fuori stagione. Ciò non impedisce al suo fondatore, Henri de Pazzis, di predicare il rispetto della terra, dell’ambiente, del contadino e del consumatore. Ma la legge dettata dalle società della grande distribuzione è ben lontana da questi principi. «Adottano per il biologico gli stessi devastanti meccanismi di acquisto utilizzati per il convenzionale, spiega de Pazzis. Incoraggiano la concorrenza in modo aggressivo. Alcuni dei nostri prodotti sono fuori mercato perché altri fornitori propongono prezzi molto inferiori ai nostri.» Nella guerra dei prezzi, a cui ProNatura e le altre società di import-export hanno scelto di partecipare, il sociale e il rispetto dell’ambiente hanno ben poco spazio.

Gli stessi metodi, «certificati»
Da dodici anni, ProNatura importa fragole biologiche spagnole prodotte dalla società Bionest. I proprietari, Juan e Antonio Soltero, possiedono nella regione di Huelva cinquecento ettari di serre, che, a prima vista, non si differenziano in niente dalle migliaia di serre convenzionali che coprono la pianura, sinistrata da una monocoltura di fragole particolarmente inquinante e sfruttatrice di mano d’opera. Come altre aziende, Bionest si trova all’interno del parco naturale di Doñana, iscritto nel patrimonio mondiale dell’Unesco. Secondo Wwf-Spagna, le serre si moltiplicano in modo più o meno illegale nel parco e incidono pesantemente sull’ambiente, minacciando in particolare le riserve d’acqua.
Bionest non rispetta la biodiversità (le poche varietà di fragole utilizzate sono le stesse delle serre convenzionali), pratica la monocoltura, immette fertilizzanti nelle piante con un sistema d’irrigazione a goccia... I suoi metodi di coltura non sono radicalmente diversi da quelli delle serre convenzionali di Huelva. Solo gli input certificati garantiscono il marchio biologico. Per la raccolta, Bionest ingaggia centinaia di romene, polacche e filippine... particolarmente precarizzate. L’argomento è molto delicato e i proprietari di Bionest rifiutano di ricevere i giornalisti per dare spiegazioni. Le donne, reclutate direttamente nel loro paese dalle organizzazioni padronali spagnole, arrivano ogni anno in Spagna con visti e «contratti di origine» a tempo determinato. Non conoscendo i propri diritti, sono totalmente succube dei datori di lavoro che le sfruttano a volontà. Francis Prieto, membro del Sindacato degli operai delle campagne (Soc), organizza una visita a sorpresa negli alloggi delle lavoratrici di Bionest. Totalmente isolate in mezzo alle serre, le donne sono sottoposte a un regolamento assai rigido: divieto di visite, uscite controllate, passaporti confiscati... «Sono terrorizzate dai padroni, spiega Francis Prieto, e subiscono lo stesso sfruttamento delle altre stagionali di Huelva, con condizioni di lavoro particolarmente difficili.»
Bionest non è un caso isolato in Andalusia. Nei dintorni di Almería, Agri-Eco, con centosessanta ettari di serre, produce, confeziona e commercializza da settembre a fine giugno più di undicimila
tonnellate di pomodori, peperoni e cetrioli «biologici». Nelle serre dotate di tecnologie all’avanguardia, gli input sono certificati biologici e le stagionali sono romene e marocchine. Miguel Cazorla, il direttore, prevede orgogliosamente una nuova espansione della società. Esportati da miriadi di camion in tutti i supermercati e i negozi specializzati in bio d’Europa, gli ortaggi di AgriEco sono, fin dall’inizio dell’inverno, in concorrenza diretta con i prodotti delle serre «biologiche» d’Italia, Marocco e Israele... Sulle coste del Mediterraneo, la guerra commerciale diventa feroce, per maggior profitto degli intermediari.
Lontana da questa deriva del biologico industriale, la piccola cooperativa agricola La Verde, nella sierra andalusa di Cadice, è stata creata negli anni ‘80 da giornalieri membri del Soc che alla fine del franchismo hanno lottato strenuamente per ottenere un po’ di terra. Su quattordici ettari, sei famiglie coltivano ortaggi, alberi da frutto e allevano poche vacche e pecore. Commercializzano tutta la produzione in Andalusia tramite un’altra cooperativa, Pueblos Blancos, che riunisce ventidue piccoli agricoltori o cooperative biologiche. «Siamo stati tra i primi a lanciarci nell’agricoltura biologica, spiega Manolo Zapata. Era in linea con l’agricoltura dei nostri nonni e bisnonni e andava nel senso della nostra lotta. Se l’agricoltura biologica non serve a ristabilire equità, giustizia, autonomia, autosufficienza e sovranità alimentare, non ha alcun senso. I certificatori non ci aiutano. Un agricoltore che diversifica le sue colture e coltiva più varietà viene tassato più pesantemente di quello che fa monocoltura intensiva.» Per aver denunciato pubblicamente il sostegno del principale organismo certificatore spagnolo, il Comitato andaluso di agricoltura ecologica (Caae), alle grandi imprese del «biobusiness», La Verde ha dovuto subire una valanga d’ispezioni. Dato che i suoi membri hanno fondato la più importante banca di semi contadini spagnola, che oltre a garantire le loro colture rifornisce tutti i piccoli produttori biologici della regione, temono che la repressione si abbatta su di loro. «Esistono leggi e norme che reprimono il diritto ancestrale di riprodurre i semi e che ci impediscono di certificare le antiche varietà che abbiamo salvaguardato.» La normativa europea per l’agricoltura biologica impone di utilizzare semi biologici certificati. Se non esistono, si deve far ricorso ai semi convenzionali del mercato. «Per il momento, tutto si svolge al limite della legalità, ma se un domani la vendita dei nostri prodotti sarà proibita, ci obbligheranno a coltivare con semi bio venduti da Monsanto.» Prendendo esempio da alcuni contadini di Nature et Progrès, i membri di La Verde ipotizzano di ritirarsi dalla certificazione biologica.
Attualmente, esempi come quello di La Verde si moltiplicano, in Colombia, Bolivia, Brasile, India, Italia, Francia... La resistenza al bio-business si organizza su tutto il pianeta. Un numero sempre maggiore di contadini, comunità rurali e piccole cooperative di produttori difendono un’agricoltura contadina e un tipo di coltura agroecologica, che privilegiano aziende a dimensione umana, rispettose della biodiversità e della sovranità alimentare. Molti rifiutano le certificazioni e praticano i sistemi partecipativi di garanzia fondati su una relazione di scambio e di fiducia tra produttori e consumatori. Si estendono le reti di difesa dei semi contadini, per imporre il diritto dei contadini a produrre e commercializzare i loro semi.
In Francia, le Associazioni per il mantenimento di un’agricoltura contadina (Amap), che mette in relazione diretta produttori e consumatori senza passare per il mercato, hanno un tale successo da non riuscire a soddisfare la domanda. L’associazione Terre de Liens raccoglie con successo fondi solidali per aiutare l’insediamento di giovani agricoltori attratti dal biologico.
Per smarcarsi dalla normativa europea, la Federazione nazionale dell’Agricoltura biologica (Fnab) ha creato un nuovo marchio: Bio-Cohérence. Sarà un complemento della certificazione ufficiale e richiederà il rispetto di un capitolato molto più rigoroso e l’adesione a principi ispirati a quelli adottati dall’Ifoam nel 1972. Fuori dalla normativa, Nature et Progrès difende il suo capitolato garante di un’agricoltura biologica contadina.
Il fatto che i valori sociali ed ecologici entrino o non entrino a far parte degli obiettivi di produttori, trasformatori e consumatori del biologico determinerà il suo avvenire. Diventerà un semplice settore del mercato, sottoposto ai soli interessi del liberismo economico? O sarà ancora portatore di un’alternativa al liberismo?

"le Monde diplomatique" febbraio 2011 (Traduzione di G. P.)

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