15.3.12

Classici. Italo Calvino rilegge "Jacques le fataliste" di Denis Diderot.

In un inserto di “Repubblica-cultura” interamente dedicato a Diderot e pubblicato nel giugno del 1984, il 24, giorno di San Giovanni Battista, si rintraccia una magistrale lettura di Jacques le fataliste, resa più ricca dalla evidente simpateticità di Calvino con il grande enciclopedista settecentesco. Ne ho ripreso qui una parte, quella che mi è sembrata più significativa. (S.L.L.)
Denis Diderot
Il posto di Diderot tra i padri della letteratura contemporanea non fa che crescere, e per merito sopratutto del suo antiromanzo-metaromanzo-iperromanzo Jacques il fatalista e il suo padrone, di cui non si finirà mai d' esplorare la ricchezza e la carica di novità che contiene. Cominciamo col dire che, capovolgendo quello che già allora era l'intento principale d'ogni romanziere - far dimenticare al lettore di star leggendo un libro perchè s'abbandoni alla storia narrata come se la stesse vivendo - Diderot mette in primo piano la schermaglia tra l'autore che sta raccontando la sua storia e il lettore che non attende altro che d'ascoltarla: le curiosità, le aspettative, le delusioni, le proteste del lettore e le intenzioni, le polemiche, gli arbìtri dell'autore nel decidere gli sviluppi della storia sono un dialogo che fa da cornice al dialogo dei due protagonisti, a sua volta cornice d' altri dialoghi...
Trasformare il rapporto del lettore col libro da accettazione passiva a messa in discussione continua o addirittura a una specie di doccia scozzese che tenga sveglio lo spirito critico: questa è l'operazione con cui Diderot anticipa di due secoli quello che Brecht volle fare col teatro. Con la differenza che Brecht lo farà in funzione delle sue precise pretese didascaliche, mentre Diderot ha l'aria di voler solo dissolvere ogni partito preso. Va detto che col lettore Diderot gioca un po' come il gatto col topo, a ogni nodo della storia aprendogli davanti il ventaglio delle varie possibilità, quasi a lasciarlo libero di scegliere il seguito che più gli aggrada, per poi deluderlo scartandole tutte tranne una che è sempre la meno "romanzesca". Qui Diderot precorre l' idea di "letteratura potenziale" cara a Queneau, ma anche un po' la smentisce; infatti Queneau metterà a punto un modello di Racconto a modo vostro in cui sembrano echeggiare gli inviti di Diderot al lettore perché scelga lui il seguito, ma in realtà Diderot voleva dimostrare che la storia non poteva essere che una. (Il che corrispondeva a una precisa opzione filosofica, come si vedrà).
Opera che sfugge a ogni regola e a ogni classificazione, Jacques le fataliste è una specie di pietra di paragone su cui mettere a prova un buon numero di definizioni coniate dai teorici della letteratura. Lo schema del "racconto differito" (Jacques che comincia a raccontare la storia dei suoi amori e tra interruzioni, divagazioni, altre storie tirate in ballo, non finisce che alla fine del libro), articolato in numerosi "embotements" d' un racconto in un altro ("racconto a cassetti") non è soltanto dettato dal gusto per quello che Bachtin chiamerà "racconto polifonico" o "menippeo" o "rabelaisiano": è per Diderot la sola veritiera immagine del mondo vivente, che non è mai lineare, stilisticamente omogeneo, ma i cui coordinamenti sebbene discontinui rivelano sempre una logica. […]
Un grande modello dichiarato tanto per Sterne quanto per Diderot era il capolavoro di Cervantes; ma diverse sono le eredità che ne traggono; l' uno valendosi della felice maestria inglese nel creare personaggi pienamente caratterizzati nella singolarità di pochi tratti caricaturali, l' altro ricorrendo al repertorio delle avventure picaresche di locanda e di strada maestra nella tradizione del Roman comique.
Jacques, il servitore, lo scudiero, viene per primo - già nel titolo - precedendo il padrone, il cavaliere (di cui non si sa neanche il nome, come se esistesse solo in funzione di Jacques, in quanto son matre; e anche come personaggio resta più sbiadito). Che i rapporti tra i due siano quelli di padrone e servitore è sicuro, ma sono anche quelli di due amici sinceri; i rapporti gerarchici non sono stati ancora messi in discussione (la Rivoluzione francese tarderà ancora dieci anni almeno), però sono stati svuotati dal di dentro. (Su tutti questi aspetti, si veda l' ottima introduzione di Michele Rago a Jacques il fatalista e il suo padrone nella collana Einaudi "Centopagine", una completa e precisa esposizione sia del quadro storico che della poetica e della filosofia di questo libro). E' Jacques che prende tutte le decisioni importanti; e quando il padrone si fa imperioso, può anche rifiutarsi d'obbedire, ma fino a un certo punto e non di più. Diderot descrive un mondo di rapporti umani basati sulle reciproche influenze delle qualità individuali, che non cancellano i ruoli sociali ma non se ne lasciano schiacciare: un mondo che non è d'utopia né di denuncia dei meccanismi sociali, ma come visto in trasparenza in una situazione di trapasso. (La stessa cosa si può dire per i rapporti tra i sessi: Diderot è "femminista" per sua mentalità naturale, non per partito preso: la donna è per lui sullo stesso piano morale e intellettuale dell' uomo, così come nel diritto a una felicità dei sentimenti e dei sensi. E qui la differenza col Tristram Shandy, allegramente e caparbiamente misogino, è incolmabile).
Quanto al "fatalismo" di cui Jacques si fa portavoce (tutto ciò che avviene era scritto in cielo), vediamo che lungi dal giustificare rassegnazione o passività, porta Jacques a dar sempre prova d' iniziativa e a non darsi mai per vinto, mentre il padrone, che sembra propendere più per il libero arbitrio e la volontà individuale, tende a scoraggiarsi e a lasciarsi portare dagli avvenimenti. Come dialoghi filosofici, i loro sono un po' rudimentali, ma allusioni sparse rimandano all' idea di necessità in Spinoza e in Leibniz. Contro Voltaire che se la prende con Leibniz in Candide o dell' ottimismo, Diderot in Jacques il fatalista pare prenda le parti di Leibniz e più ancora quelle di Spinoza, che aveva sostenuto la razionalità oggettiva d' un mondo unico, geometricamente ineluttabile. Se per Leibniz questo mondo era uno tra i tanti possibili, per Diderot il solo mondo possibile è questo, buono o cattivo che sia (anzi, mescolato sempre di male e di bene) e la condotta dell' uomo, buono o cattivo che sia (anzi, mescolato sempre anche lui) vale in quanto è in grado di rispondere all' insieme delle circostanze in cui si trova. (Anche con l'astuzia, l'inganno, la finzione ingegnosa; vedi i "romanzi nel romanzo" inseriti nel Jacques: gli intrighi di Mme de La Pommeraye e di padre Hudson che mettono in scena nella vita una calcolata finzione teatrale. Siamo molto lontani da Rousseau, che esaltava la bontà e la sincerità nella natura e nell' uomo di natura). Diderot aveva intuito che è proprio dalle concezioni del mondo più rigidamente deterministe che si può trarre una carica propulsiva per la libertà individuale, come se volontà e libera scelta possano essere efficaci solo se aprono i loro varchi nella dura pietra della necessità. […]

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