7.2.12

La prosa di Fortini (di Riccardo Bonavita)

Per pubblicizzare l'in­gresso dell'opera omnia di Sade nella Plèiade, Gallimard realizzò dei cartelloni in cui gli eleganti volumetti erano coperti da catene di ferro accompagnate dalla scrit­ta: «l'inferno in carta india».
Acco­stamento trasgressivo solo in ap­parenza ma che, per antitesi, tor­na in mente scorrendo il «Meri­diano» dei Saggi ed epigrammi di Fortini (a cura e con un saggio di Luca Lenzini, introduzione di Rossana Rossanda, pp. CXXXIII-1849, € 49,00). Perché qui viene «canonizzato» dall'edizione lus­suosa qualcosa che oggi si consi­dera molto più perturbante e osceno dell'illimitato eccesso sadiano: un lungo, sofferto, ostinato invito al comunismo. Se ne sono accorti gli aspiranti tutori dell'or­dine simbolico costituito, precipi­tatisi a ripetere le rituali giaculato­rie contro i «cattivi maestri» e i fautori del socialismo reale (che Fortini iniziò a criticare in pubbli­co almeno fin dal 1949). Non ba­sta che la sua opera, indisponibile al consumo frettoloso e distratto, sia giocoforza destinata a una ri­stretta cerchia di lettori. Per i nuo­vi benpensanti è intollerabile an­che solo la sua semplice presenza nello spazio pubblico. Lo ha capi­to perfettamente la Rossanda: «Fortini giace insepolto fuori delle mura. E si spiega: ha voluto essere una voce poetica di quella parte del secolo che aveva tentato l'as­salto al cielo di un cambiamento del mondo, ha perduto ed è rica­duta fra le maledizioni del Nove­cento e l'inizio di un millennio che non ne sopporta il ricordo». Lui per primo, congedandosi da amici e nemici, ha riconosciuto e sfidato questa volontà di rimozio­ne: «dimenticatemi, se potete».
Ma «dimenticarlo» non è pro­prio possibile. Lo scandaloso For­tini è così strettamente intrecciato con la storia - non solo culturale e non solo italiana - del Novecento, che nemmeno una ipotetica di­struzione di tutti i suoi scritti po­trebbe cancellarlo davvero. Conti­nuerebbe a esistere in negativo, come un buco nero, una forza in­visibile ma concreta che ha modi­ficato in profondità il campo gra­vitazionale del nostro passato. Piaccia o no, tra il '45 e il '94 Forti­ni ha comunque lasciato un se­gno non trascurabile nel dibattito culturale e politico, nella mentali­tà degli intellettuali, nella storia delle riviste, dal «Politecnico» a «Quaderni rossi» (ma anche ad «Arguments» e «Kursbuch»...) e in quella dei quotidiani, dal manife­sto al Corriere della sera, nell'edi­toria, nella critica letteraria, nelle traiettorie di intellettuali come Vittorini, Cases, Calvino, Mengaldo, nei testi di altri poeti come Pa­solini, Giudici, Sereni, Zanzotto, nel nostro modo di leggere tanti degli autori che egli ha tradotto: Eluard, Kierkegaard, Brecht, Si­mone Weil, Goethe.
Nato come personaggio pub­blico dalla Resistenza, proprio co­me la nostra Repubblica, con il suo itinerario mentale Fortini ha saputo tenere aperta per più di mezzo secolo una possibilità radicalmente altra, rispetto a ogni forma di dominio: possibilità che è stata solo in parte agita in alcu­ne grandi svolte storiche (il '45, il '56, il '68), ma che continua a irri­tare, accusandoli, i vincitori e i lo­ro eredi. La semplice esistenza della sua protratta eresia denun­cia l'arbitrarietà, la non necessità della norma, delle varie «ortodos­sie» che hanno dominato questi anni. Così come, d'altra parte, la programmatica eccentricità dei suoi risultati migliori - poesia e prosa - mette in crisi, con la sua eccezione permanente, qualsiasi tentativo di esposizione schema­tica della storia letteraria italiana dalla fine degli anni trenta ai no­vanta. Un'eresia e una sistemati­ca distanza da opinioni e scritture egemoni che per restare tali han­no dovuto evolversi continua­mente, costruendo delle posizioni - teoriche, politiche, stilistiche - spesso escluse dal ventaglio di ciò che di volta in volta appariva dici­bile o perfino pensabile. Di qui quei tratti, sempre sottolineati dai detrattori, che a volte risultano ir­ritanti anche agli amici: la postura profetica, le gesticolazioni del predicatore, la violenza polemica che rischia di diventare cieca o in­transigente, l'atteggiamento apo­calittico. Sono il prezzo che Forti­ni ha pagato per difendere la pro­pria diversità, ma anche la traccia di una ferita, di una sofferenza molto più profonda di quanto la­sci sospettare la dimensione «pubblica» dell'intellettuale Forti­ni. Ma quanto angoscia e lacera­zione del sé facciano da contro­partita alla durezza polemica e al­la tensione dell'utopia, lo si può leggere, per esempio, nelle pagine di Cani del Sinai in cui vengono rese pubbliche le «ustioni» private e quelle impresse nell'intimo da­gli incendi sociali e storici. E an­che i suoi più urtanti «saggi-sassa­ta» (la definizione è di Pavese) di­pendono da questo andirivieni incessante tra interiorità psichica e condizione storica: «tutto quel che ho potuto fare è stato, giorno dopo giorno e anno dopo anno, di osservare come si richiamassero le une dalle altre, si ri­specchiassero e si confondessero nel brusio interiore, detto soggetto, coscienza, le voci del­lo Ich o dello Es e quelle dell'urlio detto mondo o storia».
Da questa lotta col sé e col tempo emerge uno dei rarissimi esempi di prosa italiana capa­ce sia di proporre continui ribaltamenti dialet­tici e accensioni metaforiche - sulla scorta degli esempi tedeschi di Hegel, Adorno e Benjamin - sia di inseguire nella storia i dilemmi tragici dell'esistenza, appresi dalla Bibbia, da Michelstaedter e Kierkegaard. Anche per questo la Rossanda nel suo saggio-testimonianza ac­compagna Fortini lungo una sequenza cronologica, nel suo corpo a corpo con gli anni, per mostrarlo. prima che cpme autore, come uno stile di intervento – militante na autocritico – che si trasforma con il mondo a cui si oppone. E anche Lenzini disegna in forma narrativa le premesse, lo sviluppo e le caratteristiche della sua attivi­tà di «saggista» sui generis, dando il giusto rilievo all'esigenza di «to­talità» e all'escatologia secolarizzata su cui Fortini tara la propria critica, così come cerca di renderla presente nella figuralità dei suoi versi: non è il suo solo merito di curatore. Ha stilato una Cronolo­gia che è già un indispensabile saggio biografico, e soprattutto ha saputo combinare scelta antologi­ca e rispetto delle principali strate­gie di scrittura, autoselezione e montaggio di Fortini.
Il «Meridia­no» comprende cinque raccolte d'autore, rappresentative dei prin­cipali «modi» e settori d'intervento saggistico e della poesia satirica ed extravagante, oltre che epigram­matica (Verifica dei poteri, Cani del Sinai, Saggi italiani, L'ospite ingrato I e II, Breve secondo Nove­cento) insieme a un'antologia di Scritti scelti 1938-1994. Si può non essere d'accordo sui dettagli (per­ché così tanto Fortini «italianista» e «novecentista», anche quando dormicchia?), non sull'intelligenza e la chiarezza della scelta, che fa ri­saltare la grandissima varietà dei generi e dei temi, in prosa e in ver­so, praticali, contaminati o rein­ventati.
Diversamente ha fatto Velio Abati, raccogliendo - senza sce­gliere - un'enorme massa di inter­viste, dichiarazioni, interventi e al­tri pezzi «interlocutòri»: Un dialo­go ininterrotto Interviste 1952-1994 (Bollati Boringhieri «Saggi»), da cui spicca soprattutto il Fortini capace di rimettere tutto e tutti in que­stione, sé stesso per primo, e di ri­declinare a ogni sussulto dei tem­pi la sua esigenza utopica. Tra l'u­no e l'altro volume sono quasi tre­mila pagine, oscene come la verità - intesa nel senso contraddittorio, instabile e in divenire che religio­ne e profezia, dialettica e psicoa­nalisi le hanno attribuito.

da “alias”, 17 luglio 2004

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