11.2.12

La diagnosi del malato esigente (di Franco Voltaggio)

Augusto Murri
Quando si dice che la medicina (quella istituzionale alla quale siamo avvezzi) è in crisi si fa un'affermazione che è, nel contempo, futile e vera. Futile perché, per fortuna sua e di noi tutti, la nostra medicina è sempre stata in crisi, dal momento che è stata, ed è, soggetta a un costante ripensamento dei metodi di indagini, della messa a punto dei canoni terapeutici, del reperimento dei rimedi; vera, d'altra parte, perché negli ultimi decenni è intervenuta una novità: rispetto al medico e all'istituzione sanitaria nel suo complesso è mutato l'atteggiamento del malato che, come osservava Ivan Cavicchi in un libro di qualche anno fa, Il rimedio e la cura (Editori Riuniti), non è più un paziente ma è divenuto un esigente, una persona che esige di essere informata, durante tutte le sue fasi, del trattamento cui viene sottoposto, intendendo, spesso con qualche perentorietà, di essere soggetto e non oggetto di cura. Questa esigenza, ovviamente corretta, postula l'impostazione di una relazione buona tra medico e malato. Ma le cose non sono così semplici. In primo luogo perché il medico deve, oggi, fare i conti, assai più che in passato, con l'economia e la politica: un'economia che vede la sanità con gli occhiali dell'aziendalismo, una politica che, smarrito ogni slancio progettuale, si è appiattita a copertura ideologica della mera logica del profitto. In secondo luogo perché una medicina incentrata sul paziente dà per scontato qualche cosa che va costruito, l'esistenza di una relazione tra medico e paziente - a meno che non si intenda per tale il mero incontro tra i due soggetti in ambulatorio, in ospedale o nell'alloggio dell'infermo - la quale, per i bioeticisti, andrebbe semplicemente migliorata o, per meglio dire, umanizzata, ammesso poi che l'umanizzazione non si risolva in una mera mozione degli affetti.
Il problema è ora affrontato, tra gli altri, in La clinica e la relazione (Bollati Boringhieri) da Cavicchi che continua il lavoro di approfondimento speculativo […] una filosofia pragmatica, dunque, la cui necessità viene giustificata da Cavicchi dall'assenza di una vera filosofia della medicina, giacché, secondo l'autore, non avrebbero serio titolo a denominarsi tali le teorie filosofiche sinora espresse, giacché in esse non sono esplorate le due distinte polarità, il medico e il malato, destinate a entrare in rapporto.
A dire il vero, nella memoria di un passato relativamente recente alberga il ricordo di grandi clinici, come Charcot, Billroth, Lord Lister, Murri, Frugoni, i quali associavano ad un eccezionale livello professionale la capacità di muoversi con disinvoltura nel complicato universo dei loro malati. Se, tuttavia, ricostruiamo storicamente il contesto ambientale in cui operavano, e, soprattutto, se ne esaminiamo gli scritti, scopriamo che tale eccellenza era piuttosto l'esito di qualità personali che non di una educazione pregressa intesa a farli mettere «in gioco» e «in relazione». Ma ci chiediamo, una società di massa come la nostra ha bisogno davvero di fuoriclasse o non si limita a pretendere che il più modesto dei medici di base sia stato educato ad essere un buon medico, capace di condurre una diagnosi senza delegare tutta la responsabilità dell'atto medico agli accertamenti clinici e alla diagnostica strumentale e, sulla scorta dell'anamnesi, a dar vita ad una collaborazione fattiva con il malato? Ci vuole dunque una formazione di base costituita da un insieme di saperi, logica, epistemologia, semiologia, filosofia del linguaggio, che dovrebbero integrarsi con la scienza medica.
Per eliminare il rischio di una sovraimposizione, occorre ingabbiare questo iter formativo in un contesto di principi cautelativi che, da soli, costituiscono già la filosofia della medicina. Tra questi principi uno, davvero cruciale, è quello che investe il significato delle conoscenze che passano tra medico e malato, quali possono scaturire dall'anamnesi, a proposito della quale Murri soleva dire, a lezione, che il malato spesso mente. Murri aveva scoperto un fatto importante, ma lo aveva frainteso: il malato non mente, ma usa un linguaggio suo proprio, individuando così un significato suo proprio. Al riguardo Cavicchi osserva quanto segue: «Supponiamo un malato che racconta al medico i suoi sintomi. La situazione si presta a essere descritta invertendo lo schema classico dell'intervista: domanda del medico e risposta del malato. Cioè il malato, raccontando i suoi sintomi è come se chiedesse 'che cosa è questo?', ‘che cosa è quello?', ‘cosa significa questo?', `cosa vuol dire quello?'. In tal modo il malato, cui si dica che ha ‘il colesterolo alto', imparerà dal medico che cosa vuol dire colesteroloemia». Come dire che una conoscenza è passata dalla clinica (incarnata dal medico) alla quotidianità (incarnata dal malato). E' a questo punto che nasce finalmente la relazione come comunicazione intersoggettiva, dunque linguistica, la quale conserva la diversità (da Cavicchi chiamata «asimmetria») tra i due soggetti, una situazione nella quale l'uno, il medico, restando quello che è, riesce a capire l'altro, il malato, il quale, a sua volta, resta quello che è: un gioco delle parti nel quale si scambiano le conoscenze di due dialoganti. Sembra poca cosa, ma non è così.

"il manifesto" 6 marzo 2004

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