20.2.12

Italo Calvino. Un comunista al Cottolengo.

La giornata di uno scrutatore non è tra i libri più amati e conosciuti di Italo Calvino.
Pubblicato nel 1963 e ambientato nel 1953 ebbe una gestazione quasi decennale. Al Cottolengo, il celebre istituto religioso che a Torino si occupa di minorità, deficienze, deformità spesso gravissime, trasformato per l’occasione in seggio elettorale, Calvino aveva passato circa mezz’ora nel 1953, il giorno delle votazioni per il Parlamento, nella sua qualità di candidato alla Camera nelle liste del Pci per quella circoscrizione piemontese. Vi tornò nel 1961, nel ruolo di scrutatore per le elezioni amministrative, quando aveva già maturato l’idea  di un libro che collegasse la società politica con quel luogo di sofferenza.
Il racconto della giornata di Amerigo Ormea, scrutatore indicato dal Pci e proiezione dell’autore, è svolto in uno stile dimesso e ancora legato al cosiddetto “neorealismo”, ma nel corso della giornata il confronto con la malattia diventa confronto con il guazzabuglio del reale e del cuore umano. Tutto ciò mette profondamente in crisi le certezze illuministiche e marxistiche del protagonista che, senza rinunciare a un lumicino di ragione, giunge a ipotizzare una sorta di “rivoluzione sentimentale” fondata sull’amore, pur senza credere in alcuna palingenesi. Di fronte alla galleria dei votanti variamente anormali il personaggio Calvino sembra concludere che “L'umano arriva dove arriva l'amore; non ha confini se non quelli che gli diamo”.
L’opera è letta da storici e critici come congedo dal neorealismo e  documento del definitivo passaggio a una letteratura sperimentalistica, non meno “impegnata” ad affrontare temi e problemi del reale, ma nella loro complessità irriducibile a formule. A me, invece, non sembra opera di transizione, ma matura in sé, un piccolo capolavoro, e perciò su di essa ho in animo di scrivere un organico saggio. Se “posto” qui l’incipit è per invogliare alla lettura dell’intero libro. (S.L.L.)
Amerigo Ormea usci di casa alle cinque e mezzo del mattino. La giornata si annunciava piovosa. Per raggiungere il seggio elettorale dov'era scrutatore, Amerigo seguiva un percorso di vie strette e arcuate, ricoperte ancora di vecchi selciati, lungo muri di case povere, certo fittamente abitate ma prive, in quell'alba domenicale, di qualsiasi segno di vita. Amerigo, non pratico del quartiere, decifrava i nomi delle vie sulle piastre annerite — nomi forse di dimenticati benefattori — inclinando di lato l'ombrello e alzando il viso allo sgrondare della pioggia.
C'era l'abitudine tra i sostenitori dell'opposizione (Amerigo Ormea era iscritto a un partito di sinistra) di considerare la pioggia il giorno delle elezioni come un buon segno. Era un modo di pensare che continuava dalle prime votazioni del dopoguerra, quando ancora si credeva che col cattivo tempo, molti elettori dei democristiani — persone poco interessate alla politica o vecchi inabili o abitanti in campagne dalle strade cattive — non avrebbero messo il naso fuor di casa. Ma Amerigo non si faceva di queste illusioni: era ormai il 1953, e con tante elezioni che c'erano state s'era visto che, pioggia o sole, l'organizzazione per far votare tutti funzionava sempre. Figuriamoci stavolta, che si trattava per i partiti del governo di far valere una nuova legge elettorale (la «legge-truffa», l'avevano battezzata gli altri) per cui la coalizione che avesse preso il 50%+ 1 dei voti avrebbe avuto i due terzi dei seggi... Amerigo, lui, aveva imparato che in politica i cambiamenti avvengono per vie lunghe e complicate, e non c'è da aspettarseli da un giorno all'altro, come per un giro di fortuna; anche per lui, come per tanti, farsi un'esperienza aveva voluto dire diventare un poco pessimista.
D'altro canto, c'era sempre la morale che bisogna continuare a fare quanto si può, giorno per giorno; nella politica come in tutto il resto della vita, per chi non è un balordo, contano quei due principi lì: non farsi troppe illusioni e non smettere di credere che ogni cosa che fai potrà servire. Amerigo non era uno che gli piacesse mettersi avanti: nella professione, all'affermarsi preferiva il conservarsi persona giusta; non era quel che si dice un «politico» né nella vita pubblica né nelle relazioni di lavoro; e — va aggiunto — né nel senso buono né nel senso cattivo della parola. (Perché c'era anche un senso cattivo; o anche un senso buono, secondo come uno la mette; Amerigo comunque lo sapeva.) Era iscritto al partito; questo sì, e per quanto non potesse dirsi un «attivista» perché il suo carattere lo portava verso una vita più raccolta, non si tirava indietro quando c'era da fare qualcosa che sentiva utile e adatto a lui. In Federazione lo consideravano elemento preparato e di buon senso: ora l'avevano fatto scrutatore: un compito modesto, ma necessario e anche d'impegno, soprattutto in quel seggio, all'interno d'un grande istituto religioso. Amerigo aveva accettato di buon grado. Pioveva. Sarebbe rimasto con le scarpe bagnate tutta la giornata.

Se si usano dei termini generici come «partito di sinistra», «istituto religioso», non è perché non si vogliano chiamare le cose con il loro nome, ma perché anche dichiarando d'emblée che il partito di Amerigo Ormea era il partito comunista e che il seggio elettorale era situato all'interno del famoso «Cottolengo» di Torino, il passo avanti che si fa sulla via dell'esattezza è più apparente che reale. Alla parola «comunismo» o alla parola «Cottolengo», capita che ognuno, secondo le proprie cognizioni ed esperienze, è portato ad attribuire valori diversi o magari contrastanti, e allora resterebbe da precisare ancora, definire il ruolo di quel partito in quella situazione, nell'Italia di quegli anni, e il modo di Amerigo nello starci dentro, e quanto al «Cottolengo», altrimenti detto «Piccola Casa della Divina Provvidenza» — ammesso che tutti sappiano la funzione di quell'enorme ospizio, di dare asilo, tra i tanti infelici, ai minorati, ai deficienti, ai deformi, giù giù fino alle creature nascoste che non si permette a nessuno di vedere — occorrerebbe definire il suo posto nella pietà dei cittadini, il rispetto che incuteva anche nei più distanti da ogni idea religiosa, e nello stesso tempo il posto tutt'affatto diverso che aveva assunto nelle polemiche in tempo d'elezioni, quasi un sinonimo di truffa, di broglio, di prevaricazione.
Infatti, da quando nel secondo dopoguerra il voto era divenuto obbligatorio, e ospedali ospizi conventi fungevano da grande riserva di suffragi per il partito democratico cristiano, era là soprattutto che ogni volta si davano casi d'idioti portati a votare, o vecchie moribonde, o paralizzati dall'arteriosclerosi, comunque gente priva di capacità d'intendere. Fioriva, su questi casi, un'aneddotica tra burlesca e pietosa: l'elettore che s'era mangiato la scheda, quello che a trovarsi tra le pareti della cabina con in mano quel pezzo di carta s'era creduto alla latrina e aveva fatto i suoi bisogni, o la fila dei deficienti più capaci d'apprendere, che entravano ripetendo in coro il numero della lista e il nome del candidato: «un due tre, Quadrello! un due tre, Quadrello!».
Amerigo queste cose le sapeva già tutte e non ne provava né curiosità né meraviglia; sapeva che una giornata triste e nervosa lo attendeva; cercando sotto la pioggia l'ingresso segnato sulla cartolina del Comune aveva la sensazione d'inoltrarsi al di là delle frontiere del suo mondo.

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