6.1.12

Ulisse e la politica (di Eva Cantarella)

Sul “Corriere” del 12 dicembre 2011 si può leggere lo stralcio da una lezione di Eva Cantarella, per un ciclo di incontri organizzato dall’editore Laterza. La tesi che vi si sostiene è ardita e confligge con la memoria di molti che – di certo – non pensano al “mondo di Odisseo” come esemplare di una, sia pur primitiva, forma di organizzazione politica retta secondo regole condivise. Le argomentazioni della celebre antichista e storica del diritto mi sembrano, per gli episodi citati, abbastanza convincenti, ma non so se reggono alla lettura dell’intero poema. La mia impressione è che nella trasformazione in poesia scritta dei racconti aedici, entrati nella memoria collettiva nel corso di più secoli, non siano del tutto scomparsi i segni di tempi diversi, di diverse mentalità, di diverse organizzazioni comunitarie tra loro conflittuali. (S.L.L.) 
È il viaggio per antonomasia, quello di Ulisse verso Itaca, l' isola solitamente identificata, nella metafora, con il traguardo di un difficile percorso spirituale che consente di prendere consapevolezza dei limiti della condizione umana, affermando al tempo stesso l' autonomia della propria coscienza.
Ma per i greci che leggevano l'Odissea - dal momento in cui venne messa per iscritto, nell' VIII secolo a.C. - quel viaggio non era una metafora. Per loro, Itaca era una città reale, con le sue case, il suo porto, le sue abitudini di vita. Una delle tante comunità in cui, nei secoli successivi al crollo dei Palazzi micenei, si era consolidata una nuova forma di vita associativa, in cui non esistevano dei sudditi (come nei regni micenei), bensì dei cittadini. In altre parole, la polis , all'importanza (e alla celebrazione) della cui diversità il viaggio di Ulisse accompagnava i greci.
Nella polis l'uomo greco doveva ispirare le sue azioni a un'etica sociale nuova, che non poneva più in primo piano l'interesse dei singoli individui o delle singole famiglie, ma quello della collettività; e doveva rispettare le deliberazioni che la comunità prendeva nel luogo a ciò deputato, l'agorà (in Omero agore), l'assemblea la cui presenza segnava il discrimine tra la civiltà e l'inciviltà. Come il racconto del viaggio di Ulisse insegnava…
I poemi omerici - è cosa ben nota - non furono scritti ex novo da uno o due poeti (vi è chi pensa a un solo autore, chi ad autori diversi per i due poemi). In essi - al di là del fondamentale contributo poetico di chi li mise per iscritto - confluirono le storie che i poeti orali chiamati aedi e rapsodi avevano cantato per secoli nelle strade della Grecia. Lunghi secoli, durante i quali la poesia aveva svolto la fondamentale funzione che le spetta nelle società orali: quella di trasmettere di generazione in generazione la cultura, e con essa l' identità del gruppo nel quale i poeti agivano. I suoi valori, dunque, le sue pratiche religiose, le regole da seguire e quelle da evitare, illustrate attraverso i comportamenti di personaggi proposti, a seconda dei casi, come modelli positivi o negativi (Achille e Tersite, per intenderci; Penelope e Clitennestra, in campo femminile). E l'introduzione della scrittura alfabetica non cancellò questa funzione, come sta a dimostrare un celebre passo di Platone che, nell'attaccare il sistema educativo greco, parla di coloro che lodavano Omero, sostenendo che aveva educato l'Ellade. Anche se a Platone la cosa non piaceva affatto, Omero era «la scuola dell'Ellade».
E ciò premesso torniamo al viaggio di Ulisse, e a un esempio della sua funzione pedagogica tratto da uno degli episodi che, per il loro aspetto favolistico, possono sembrare, a prima vista, i meno adatti a svolgere una simile funzione: l' incontro con il Ciclope. «Ingiusti e violenti», scrive Omero, i Ciclopi «non hanno assemblee, non leggi (themistes), ma degli eccelsi monti vivono sopra le cime,/ in grotte profonde; fa legge (themisteuei) ciascuno/ ai figli e alle donne, e l' uno dell' altro non cura» ( Odissea , IX, 112-115). Pochi versi, che contengono insegnamenti fondamentali: quel che segnala l'inciviltà dei Ciclopi, quello che li confina inesorabilmente nel mondo della barbarie è la loro socialità prepolitica. I Ciclopi non sono eremiti. Vivono in gruppo, hanno famiglia, ma non esiste un'autorità sovraordinata a quella dei capifamiglia («ciascuno fa leggi ai figli e alla donne»). La vita del gruppo familiare è regolata dai poteri del suo capo, ma i rapporti fra capifamiglia, in assenza di istituzioni pubbliche, sono affidati alla regola della forza, alla vendetta senza limiti e senza controllo.
L'opposizione alla polis, e in particolare a Itaca, è più che evidente: a Itaca esiste un'assemblea che, pur non avendo ancora poteri istituzionalmente previsti, si svolge secondo regole formali consolidate e condivise. Come dimostra l' assemblea convocata a Itaca da Telemaco (Odissea, II): la convocazione viene fatta dagli araldi «dalla voce sonora», la riunione inizia all'alba, in un'apposita sede, ove la popolazione prende posto su sedili di pietra, secondo un ordine predeterminato; tutti, nessuno escluso, hanno il diritto di partecipare e prendere la parola e al termine di ciascun intervento un'acclamazione indica il gradimento dell' intervento, che si conclude quando più nessuno «parla contro». A Itaca, polis in via di formazione, il principio di maggioranza non esisteva ancora. Ma poiché in essa esistono già, sia pur in embrione, le istituzioni della polis, è il modello della vita associata (ovviamente, quando non ci sono i proci a spadroneggiare). Se lo spazio lo consentisse, non mancherebbero altri esempi: il viaggio di Ulisse è (anche) il viaggio che accompagna i greci verso questo modello.

“Corriere della Sera” - 12 dicembre 2011

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