23.1.12

Risi italiani (Gianfranco Quaglia)

Da “La Stampa” del 20 agosto 2011 recupero gran parte di un articolo di Gianfranco Quaglia sul riso italiano e le sue varietà. Parla di un centro di eccellenza della ricerca italiana, per di più molto ecologico. La sua costituzione risale alla Prima Repubblica. (S.L.L.)
Il Carnaroli.
E' il principe della risicoltura italiano.
Risale al 1945
e prende nome dal suo "costitutore".
C'è un «Fort Knox» tutto italiano, quasi sconosciuto, in mezzo alle risaie. Non custodisce riserve auree, ma possiede un tesoro ancora più prezioso: il germoplasma del riso, 1300 varietà che risalgono anche ai tempi dell'Unità d'Italia e arrivano fino ai giorni nostri. E' la banca del seme ibernato, un immenso patrimonio di conoscenza e potenzialità di trasmissione del sapere, necessario ai ricercatori per costituire il riso del futuro, forte e resistente alle avversità climatiche, agli attacchi dei parassiti, in grado di aumentare produttività e resa in campo del cereale non solo per scopi commerciali, ma anche per risolvere il grande problema del presente e del futuro: la fame nel mondo… Nel mondo tre miliardi di persone sono nutrite da questo cereale che ha oltre cinquemila anni, l'antico Oryza Sativa, coltivato in 113 Paesi: in quelli in via di sviluppo il riso fornisce alle popolazioni il 27 per cento dell'apporto energetico e il 20 per cento del fabbisogno proteico. Oltre a essere l'alimento base per 840 milioni di persone, di cui 200 milioni bambini, è anche fonte di reddito principale per circa un miliardo di individui...
Siamo entrati nel «caveau» protetto del Centro ricerche dell'Ente nazionale risi a Castello d'Agogna, nel cuore della Lomellina. Un complesso che unisce alta tecnologia a sperimentazioni in campo su 50 ettari, in posizione baricentrica rispetto a Vercelli, Novara e Pavia, il «triangolo d'oro» della risicoltura italiana ed europea. E' la più grande banca del seme esistente in Europa, dove per seme si intendono appunto le varietà in chicchi coltivati in Italia, raccolti e conservati a partire dalla seconda metà dell'Ottocento. Questa «riserva aurea» dell'alimento più consumato al mondo è stata realizzata nella sede attuale nel 1989, raccogliendo semi che altrimenti sarebbero andati perduti. Da allora qui sono state create nuove «linee» di riso in grado di aumentare la resistenza ai parassiti e adatte alle richieste di un mercato sempre più esigente. Una ventina i ricercatori in camice bianco, ma anche pronti a indossare tuta e stivali per entrare in azione nella risaia annessa ai laboratori, coordinati da Romano Gironi, un bolognese che si e' votato a una «mission»: creare quella varietà che con uno o più geni di resistenza ai patogeni possa diventare il riso del futuro, capace di coniugare produttività con riduzione di costi e minimo utilizzo di antiparassitari e diserbanti.
Gironi mette subito le mani avanti, allontanando il sospetto: «No, nessun ricorso a Ogm, organismi geneticamente modificati. Disponiamo di un laboratorio con macchine avanzate che analizzano tutti i semi e sono in grado di isolare anche quei chicchi che abbiano avuto la più piccola contaminazione con colture geneticamente modificate. Noi utilizziamo il metodo dell'ibridazione, gli incroci delle varietà, selezionando i geni che si sono rivelati più adatti nel tempo con quelli attuali».
Il procedimento comincia nel caveau, la maxi-cassaforte dove la temperatura costante non supera mai i quattro gradi. In questa banca dei semi ibernati i ricercatori quasi ogni giorno entrano e compiono il «miracolo» del risveglio di alcuni di quei semi, tenuti in sonno per anni. Operazione che ha quasi del fantascientifico, ma è reale.
Gironi: «Partendo dalla riserva del germoplasma scegliamo le varietà d'incrocio più duttili e flessibili ai nostri obiettivi, trasferiamo i caratteri in altri semi, poi li mettiamo in campo». Così facendo, il patrimonio genetico non muore e diventa un serbatoio vivente, come fosse una riserva animata con gli organi in attesa di trapianto e sempre in evoluzione. Nel caveau scorre la storia della risicoltura in Italia, con la presenza di varietà ormai superate, come il Lencino (progenitore dell'attuale Carnaroli, principe del made in Italy); il Nostrale, l'Ostigliato, il Rizzotto. Quasi certamente qualcuna fu coltivata anche dal Conte di Cavour nella sua tenuta di Leri (Vercelli). I ricercatori sono convinti che quei geni, trasmessi sino a noi nell'arco di un secolo e mezzo, saranno determinanti per ottenere il super-riso italiano e fronteggiare in futuro i grandi «competitor» in arrivo dall'Oriente.

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