11.12.11

Leopardi e il degrado italiano. Riletture (di Daniele Balicco)

Tra il 7 e il 31 marzo del 1824 Leopardi dovette interrompere le Operette morali per scrivere un breve articolo sull'Italia. È il noto Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'italiani. La tesi di fondo del suo ragionamento è abbastanza semplice. L'Italia si trova in una condizione morale difficile perché ha subito il potere del disincanto della modernità senza però godere dei bilanciamenti creati dalle società europee più avanzate. Secondo Leopardi, in Italia non è esistita infatti una «società ristretta» simile a quella francese, inglese o americana, vale a dire una élite politica legittimata a imporre norme e consuetudini moderne. Il popolo italiano è stato così lasciato solo di fronte al «nudo vero», senza filtri e senza protezione alcuna: se nella vita quotidiana è il più filosofico fra i popoli europei, per la stessa ragione è anche il più cinico e disilluso. A differenza di Spagna, Portogallo o Russia non è infatti riuscito a conservare del tutto la propria identità protettiva premoderna; e, nello stesso tempo, non ha conosciuto le forme istituzionali, e le illusioni morali, dei paesi avanzati. Leopardi però non concluse l'articolo. «Si deve essere stancato» commenta ironicamente Franco Cordero nella nuova edizione del Discorso da poco pubblicata per Bollati Boringhieri. Si deve essere stancato anche perché è difficile immaginarlo difensore entusiasta dei punti alti della modernità occidentale. La lucidità implacabile del suo pensiero non lo consente: «Gli uomini soffrono sotto ogni forma di governo» scriverà infatti di lì a qualche anno a Fanny Targioni Tozzetti. Tuttavia l'impostazione del ragionamento del Discorso è interessante e ha fatto bene Cordero ad accettare l'invito del suo editore: usare Leopardi per provare a ragionare sull'Italia e la sua problematica questione morale.
Il risultato è un'analisi impietosa della qualità delle nostre classi dirigenti. Con il suo puntiglioso sguardo indiziario da giurista, Cordero avvicina gli snodi più importanti della storia italiana: politica post-unitaria, impresa libica, guerre mondiali, fascismo, regime democristiano, telecrazia berlusconiana. Il quadro generale è sconfortante: la scena pubblica è stata quasi sempre sequestrata da personaggi di moralità dubbia. Nella nostra «società ristretta» hanno imperversato mitomani, truffatori, retori, avventurieri, corrotti, egolatri. Cordero li immortala con definizioni sprezzanti. Mussolini è un «egomane impulsivo ed estremista equivoco»; Andreotti un «negromante sommesso»; Togliatti «potendo reincarnare qualcuno, sarebbe un Cavour rosso»; Bettino Craxi è il «condottiero di un soi-disant socialismo davanti al quale Filippo Turati inorridirebbe»; D'Alema è un «clericocrate» che intende la politica «come arte esoterica»; Berlusconi un «pirata con patente governativa» ma, soprattutto, «un demiurgo che alleva animali umani».
Anche Roberta De Monticelli torna alle pagine del Leopardi del Discorso nel suo fortunato pamphlet La questione morale (Cortina). Ma la direzione della sua analisi è molto diversa. Di fronte al degrado morale dell'Italia contemporanea, De Monticelli compie due precise mosse teoriche. Anzitutto sposta lo sguardo sul lunghissimo periodo. Nella prima parte del libro, infatti, le pagine di Leopardi, ma soprattutto le note di Guicciardini sugli «interessi particulari», possono illuminare le aberrazioni del berlusconismo nostrano: «sembra incredibile, ma questo bel prontuario di regole immorali fa parte del nostro comune Dna, a quanto pare, fin dai primi albori della modernità. Molto prima che fosse fatta l'Italia, gli italiani - o almeno quelli di loro che contavano e si esprimevano - erano già fatti così».
De Monticelli decifra i mali che soffocano la società italiana attraverso l'individuazione di una continuità antropologica. L'ultimo ventennio berlusconiano porterebbe dunque a perfezione sistemica niente meno che una somma di tare, servilismi, ritardi storici e distorsioni culturali che l'Italia avrebbe accumulato nei secoli. Il problema di fondo è dunque l'endemico ritardo della società italiana. Il suo soggettivo non adeguamento agli standards morali propri delle grandi democrazie europee, le cui istituzioni liberali andrebbero con tutta forza imitate, essendo niente meno che «ragione pratica incarnata». Siamo dunque molto lontani da Leopardi. Ma la seconda mossa teorica del libro è squisitamente filosofica. Il problema questa volta è lo scetticismo etico e la sua incontrastata egemonia culturale. Due le scuole teoriche imputate, non senza ragioni: il nichilismo filosofico e la razionalizzazione scientista. Entrambe avrebbero tolto consistenza alle forme comuni della vita quotidiana generando una astratta e anomica equivalenza di valori all'interno della quale perfino la fondamentale distinzione etica fra bene e male non si involve in aporia, ma in irrilevanza. Forse però entrambi gli imputati potrebbero anche essere letti in modo diverso. Non tanto come causa di quell'enorme processo di sradicamento che è stata la modernità occidentale; quanto come sua reazione, come freudiana soluzione di compromesso di fronte a un mondo che sempre più ha reso l'umano un essere antiquato. Le pagine più convincenti del libro sono altrove: quando De Monticelli difende con forza la centralità dell'intelligenza morale come fine ultimo di qualsivoglia pedagogia. Si diventa adulti solo quando si accede a una dimensione cosciente di responsabilità e di autonomia.
Il che è tuttavia anche, o forse soprattutto, un problema politico. Perché se è vero che «siamo un paese con troppi individui non formati» questo dipende - molto banalmente - da quante risorse vengono investite nella formazione degli insegnanti, nella pubblica istruzione, nella ricerca scientifica, e così via. L'indisciplina e la minorità morale di ampi strati sociali di un'intera nazione possono anche essere letti come l'esito ultimo di un conflitto, sempre aperto, fra oligarchie, «società stretta» e il resto della moltitudine.

"il manifesto" 10 giugno 2011

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