10.11.11

La Duse, Pirandello e "La vita che ti diedi". (S.L.L.

Eleonora Duse (Disegno di Beppe Devalle)
Ho ritrovato stamattina, rimestando tra ritagli letterari sul Novecento italiano, una pagina del “Corriere” dell’8 Ottobre 1986 che pubblica il carteggio, fino ad allora inedito, tra Luigi Pirandello ed Eleonora Duse. Poche lettere, due (più un telegramma) del drammaturgo, due dell’attrice. Il tutto in meno di due settimane, dal 23 marzo  al 3 aprile del 1923. L’antefatto del carteggio e il suo significato nella vicenda umana e intellettuale dei due grandi italiani è raccontato da un critico di valore, Vittore Branca, cattolico impegnato. Si cita un Pirandello di molti anni prima che aveva definito la Duse “attrice suprema”, “della più rara creatività spirituale” e aveva scritto: “E’ l’opposto dell’attrice professionista… vuole scoprire i più profondi sensi al di là di ogni esperienza… i significati morali e intellettuali al di là di quelli artistici”. Per questo, secondo Pirandello, alla grande Eleonora non bastava il repertorio del tempo, inadatto a rivelare le più riposte ansietà della mente e i più sconosciuti tormenti della passione. In questo modo, spiega Branca, lo scrittore “tracciava il ritratto dell’interprete ideale per i suoi tormentati drammi esistenziali”.
Disamorata del D’Annunzio teatrale e teatrante, la Duse, dal canto suo, espresse in varie occasioni simpatia e sintonia per Pirandello, apprezzandone perfino le note ironiche, lei che all’ironia era di solito refrattaria. Per la sua riapparizione in teatro dopo una lunga assenza, all’inizio degli anni Venti, l’attrice studiò a lungo Così è se vi pare e Come prima meglio di prima, ma alla fine scelse Ibsen e la sua Donna del mare, la cui prima, molto clamorosa, ebbe luogo al Teatro Balbo di Torino il 5 maggio del 1921. Il successo fu grande, ma l’attrice cercava ancora l’anno dopo un copione più attuale, un dramma che rendesse “la pena di vivere così”.
Pirandello aveva appena composto i Sei personaggi in cerca d’autore e l’Enrico IV, quando seppe dal critico Silvio D’Amico delle ricerche dell’attrice ammiratissima volle comporre proprio per lei un dramma che avesse al centro l’amore di una madre, spinto fino alla follia, e anche il vuoto che circonda gl’individui nella vita. Tramite il D’Amico le fece avere il testo.
Così le scrisse il 22 marzo dall’abitazione di via Pietralata 23, in Roma: “So che da ieri è nelle sue mani La vita che ti diedi. L’ho scritta con religioso amore, pensando costantemente a Lei, tutto inteso a raccogliere e a contenere nelle parole di questa madre quelle vibrazioni che solo la Sua arte sa e può destare in chi veramente sia capace di soffrirne e di goderne, quasi divinamente”. Aggiungeva di stimare per sé “una fortuna non avere nessuna pompa di parole, ma nudo stile di cose”. Dichiarava d’attendere dalla “divina” una “parola” sul suo lavoro.
La Duse risponde: “Del Lavoro, Lei, mi consenta oggi di non parlargliene – direi così male la profonda impressione, il timore, e la nobiltà del rischio di assumere una tale responsabilità”. L’attrice parla poi di un “inferno” che nasce da complicazioni e “strettoie” e chiede pertanto allo scrittore di “Attendere”, scritto proprio così, maiuscolo e corsivo. Spiega: “Bisogna che vi sia fra Lei e me piena intesa, confiance, e fede. E che nessuno, di fuori, vi metta parole, o mezze parole, o  insinuazione che sciuperebbero tutto… Lei mi crede e allora, Ella attende con me, senza dubbi, senza insistenze, quasi direi senza speranze…”.
Affidatario delle miserie della Duse, Pirandello, nella sua risposta del 29 marzo, parla delle proprie “miserabili necessità impellenti”, ma – con tutta la delicatezza che si conviene a una “divina” – le chiede “un limite all’attesa, almeno approssimativo, e sia pur lontano di più mesi”. L’attrice sarà più chiara nella sua successiva risposta, proponendo come termine ottobre. Pirandello risponderà con un telegramma: “Sento che debbo attendere e attenderò”.
Non vi sono altre lettere tra i due. Pirandello non attese o forse ricevette a voce prima del tempo un no (che immagino assai rispettoso). La vita che ti diedi venne rappresentata per la prima volta a Roma dalla compagnia di Alda Borelli il 12 ottobre del 1923. Certo è che i rapporti tra i due non si ruppero. Racconta Branca che Pirandello, dodici anni dopo, riprendendo come regista questo suo dramma, fece trapelare in una lettera la seguente confidenza della Duse: “Mi basta dentro il mio cuore sapere che non ho mai voluto nulla per me dal mio lavoro e che sono stato strumento puro, credo, nelle mani di Qualcuno sopra di me e di tutti”. Serve questa citazione alla lettura che Branca fa del “gran rifiuto” di Eleonora Duse, suffragata dalla testimonianza di Olga Signorelli. L’attrice era sinceramente attratta dall’idea-chiave del dramma pirandelliano, la vita oltre la vita, nel caso specifico il tentativo di una madre di tenere in vita l’amato figlio prima costruendo dentro e fuori di sé una finzione che lo preservi dal mutamento, dall’oblio e dal ricordo, poi affidando un ruolo sostitutivo al figlio del figlio. Sembra non soddisfacesse la ritrovata religiosità cristiana della Duse il folle ed eroico tentativo “ateo” (visto che prescindeva da Dio) e “materialista” (visto che prescindeva dalla spiritualità) di quella madre. La tesi del critico mi pare convincente.
Non mi ha convinto invece il dramma pirandelliano che non avevo mai visto per intero a teatro o in televisione e la cui lettura non ricordavo: non doveva essermi piaciuto. Non mi è piaciuto nemmeno stamattina: mi pare che – tranne che in paio di scene – il sofistico ragionare tipico di Pirandello proceda a vuoto, non trovi un centro. Della grandezza di Eleonora Duse tanti che la videro dissero, per esempio Chaplin: “E stata la miglior cosa che ho mai visto sul palcoscenico”: sapeva penetrare il cuore del dramma (e dello spettatore). Forse nello scrivere per la Duse La vita che ti diedi Pirandello non s’impegnò molto a cercare il cuore, il centro: lo avrebbe trovato la “divina”.

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