10.10.11

Sicilia 1956. Processo alla Costituzione (Marcello Sorgi)

Non amo Marcello Sorgi quando fa il notista politico, sul “Sole” o sulla “Stampa”. Mi pare che in più di una occasione faccia violenza alla sua intelligenza o ne faccia un uso fraudolento per rendere grazia ai padroni del vapore, che poi sono anche i padroni del giornale. Mi piace di più nei suoi libri su storie emblematiche e dimenticate o quando recensisce libri altrui. Questa (su “La Stampa” del 6 ottobre scorso) di un antico libro di Dolci, oggi ripubblicato, tra i primi letti nella mia politicizzazione a sinistra, mi sembra ottima, perché ottimamente colloca nel tempo e problematizza i contenuti del volume, aggiungendovi un apporto di personale testimonianza.
Una piccola precisione da “comunista orgoglioso”. Quello a Dolci per lo “sciopero alla rovescia” fu forse il primo processo relativo a questa particolare forma di lotta ed è certo che con Dolci essa entrò, insieme al digiuno collettivo, nel patrimonio dei “nonviolenti” italiani, guidati da Capitini. E, tuttavia, non fu Dolci a introdurla per primo in Italia, ma Di Vittorio, e sulla sua indicazione si impegnò molto la Fgci dei primi anni Cinquanta che era guidata da Enrico Berlinguer. Ma erano gli anni più duri dello scelbismo e per reprimere con pestaggi, fermi, arresti e condanne i giovani comunisti, poliziotti e magistrati non avevano bisogno di intervenire negli scioperi alla rovescia, avevano tante altre più ghiotte occasioni. (S.L.L.)
In prima fila al processo. Piero Calamandrei e Danilo Dolci
La mattina del 30 gennaio 1956 a Partinico, un paese tra Palermo e Trapani, un gruppo di braccianti siciliani disoccupati e disperati mise in pratica una singolare forma di protesta: lo «sciopero alla rovescia». Andarono su una vecchia trazzera abbandonata, che portava verso una distesa di terre incolte, e cominciarono a lavorare con vanghe e badili per renderla praticabile. Dopo meno di un’ora di lavoro volontario, non retribuito, a dispetto, furono caricati dalla polizia. Si sedettero per terra annunciando che per otto ore avrebbero continuato a protestare digiunando, cosa alla quale erano per altro allenati, non avendo da tempo nulla da mangiare. Uno dopo l’altro vennero arrestati e portati in carcere all’Ucciardone.
Nessuno degli ufficiali di polizia impegnati in quei mesi a reprimere le occupazioni delle terre, da parte di disgraziati affamati che si battevano per l’applicazione della legge agraria, poteva immaginare che da quella singolare manifestazione, e dagli incidenti che ne erano seguiti, avrebbe preso origine una vicenda che fece il giro del mondo, mobilitando tutto insieme in Italia il Gotha degli intellettuali laici e di sinistra e quella che molti anni dopo in Italia si sarebbe chiamata la «società civile».
Il merito di questa mobilitazione, che accese un faro di luce mediatica e politica su un pezzo di Sicilia derelitta in cui si viveva in condizioni da Terzo mondo, fu di Danilo Dolci, un cattolico triestino sociologo e poeta, già religioso dell’Ordine dei Servi di Maria: una specie di Pannella ante litteram che inaugurò a Partinico la sua battaglia non violenta e i suoi ripetuti digiuni, e divenne il protagonista del «processo all’articolo 4». I cui imputati erano incredibilmente chiamati a rispondere di aver chiesto solo l’applicazione della Costituzione, nel punto in cui «riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto». A 55 anni dai fatti, Sellerio ha meritoriamente ripubblicato il libro con lo stesso titolo (Danilo Dolci, Processo all’articolo 4 , pp. 425, 15) uscito a suo tempo per rievocare la storia.
Al suo arrivo in Sicilia a Trappeto, vicino a Partinico, dove aveva insediato il suo centro studi - in realtà una sorta di ospedale da campo in cui si cercava di dare aiuto a una popolazione affollata di moribondi -, Dolci era rimasto impressionato dalle condizioni di abbandono, ai limiti della sopravvivenza, in cui la gente si trascinava. E quando, nel novembre ’55, una bambina di cinque mesi era morta di fame, vomitando nel sangue, tra le braccia della sorellina, l’ultimo alito di vita, la sua coscienza civile s’era ribellata. Era nata così l’idea dello «sciopero alla rovescia», preparata con una serie di petizioni alle più alte autorità nazionali e locali, e accompagnata da una serie di diffide preventive della polizia, che avevano messo in guardia Dolci dal proseguire nelle sue iniziative. Era l’embrione dello scontro, che si preparava, tra un’idea della Costituzione come regola vivente dei cittadini e la resistenza politica ad attuarla da parte dei primi governi Dc, con un’autoritaria politica della sicurezza e rudi direttive di repressione impartite alle forze dell’ordine.
Dolci teorizzava che quelli che la polizia si ostinava a considerare «banditi» perché si ribellavano a insopportabili condizioni di vita, e imbracciavano talvolta il fucile per reagire ai soprusi dei gabelloti mafiosi posti a guardia dei feudi abbandonati, erano uomini che reagivano con fierezza alla sottomissione. Su questo aveva pubblicato da Einaudi un libro, Banditi a Partinico , con la prefazione di Norberto Bobbio. E Bobbio, con Carlo Levi, Alessandro Galante Garrone, Lucio Lombardo Radice e Mauro Calamandrei, per citare i principali, furono tra i primi a mobilitarsi.
Nell’aula del processo, sotto gli occhi allibiti della corte, si presentarono uno dopo l’altro, sottolineando il senso e il valore dell’azione non violenta di Dolci e il suo diritto a battersi per il lavoro garantito dalla Costituzione. Il giovane avvocato palermitano Nino Sorgi, ragazzo di bottega di un collegio di difesa guidato dal futuro Presidente della Repubblica Sandro Pertini e dal padre costituente Calamandrei, li accompagnava uno dopo l’altro a rendere testimonianza. Le telecamere della Rai torinese fermavano le immagini di una delle prime esperienze di cronaca giudiziaria televisiva e giornalismo di denuncia. Gli inviati dei grandi giornali stranieri fissavano sui taccuini il resoconto dei discorsi dei testimoni, un corteo surreale per il tempo e il luogo in cui si muoveva. Il discorso più drammatico, forse perché siciliano lontano da tempo dalla terra natale, lo fece Elio Vittorini, paragonando l’isola a una sorta di India italiana e lodando, appunto, la predicazione digiunatrice e non violenta di Dolci come la più adatta a promuovere il riscatto delle debolissime masse siciliane.
L’Italia democristiana del tempo assistette sorpresa, senza sapere cosa pensare, alla sfilata degli intellettuali laici in difesa del sociologo cattolico servo di Maria, finito in galera perché si batteva contro la fame in Sicilia. E alla fine, a ogni buon conto, anche per ristabilire i rapporti di forza reali tra i fortissimi governi postquarantotteschi della Dc e la minoritaria Italia laica di allora, Dolci fu condannato per occupazione di suolo pubblico e resistenza a pubblico ufficiale.

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