4.10.11

Land grabbing e win win. C'è un'alternativa alla rapina dell'agricoltura africana?

Ho già “postato” un articolo relativo all’estendersi del land grabbing, gli arraffamenti di terra nei paesi sottosviluppati specie dell’Africa, in forma di acquisto o affitto a lungo termine a prezzi stracciati, di cui negli ultimi tempi si sono rese protagoniste grandi banche (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2011/07/neocolonialand-grabbing-nuovo.html ). L’invasione degli spazi agricoli di questi paesi era tuttavia cominciata da alcuni anni.  Riprendo il tema recuperando un’intervista doppia e premettendovi la scheda che la correda da un supplemento de “il manifesto” dal titolo La terra educa. Fu realizzato insieme a Slow food nell’ottobre 2010. L’intervista ai due specialisti è di Georges Desrues ed è stata tradotta in italiano da Fanny Meroni; la scheda è stata compilata da Paola Gho. (S.L.L.)
Scheda
Land grabbing versus win-win
Sotto la voce land grabbing, tecnicamente, si indicano le operazioni di compravendita e di affitto, di solito a lungo termine, di terreni in paesi a basso livello di sviluppo da parte di stati e imprese private. Si tratta per lo più di vaste zone coltivabili (superiori ai 10 mila ettari) acquisite per produrre beni alimentari o per ricavare biocombustibili destinati ai mercati interni dei paesi acquirenti.
L’espressione, tuttavia, derivando dal verbo inglese to grab che significa “arraffare”, è provvista di una palese connotazione negativa che, nelle intenzioni di chi l’ha coniata e la utilizza, allude a operazioni tutt’altro che neutrali, a iniziative che non favoriscono affatto i paesi che alienano le loro terre, a nuove forme di sfruttamento e, come affermano alcuni, di neocolonialismo e di neofeudalesimo che privano i paesi più poveri della sovranità alimentare, dell’agricoltura territoriale, del patrimonio di biodiversità.
Gli stati che acquistano – e sono sempre più quelli del “secondo mondo”, i neoricchi: sovrappopolati, non autosufficienti dal punto di vista alimentare, dotati di cospicue possibilità di investimento per mettersi al riparo dalle fiammate dei prezzi di beni alimentari e dal rischio di crisi
energetica – “garantiscono” ai paesi ospitanti infrastrutture, ingresso di tecnologie e di professionalità, approvvigionamento di sementi.
Il fenomeno è oggetto di analisi da parte delle organizzazioni internazionali, tra cui la Fao, che caldeggiano l’adozione di un codice di condotta e un quadro di norme concordate per regolare gli acquisti alla luce della trasparenza e del rispetto dei diritti dei più deboli. Se dalla compravendita di terreni nel mondo terzo (Africa soprattutto, ma la lista dei paesi “in vendita” coinvolge Asia, America latina, Europa dell’est) scaturissero davvero vantaggi paritetici per entrambi i contraenti,
in modo che non vi siano “vincitori e vinti”, si produrrebbe una soluzione virtuosa che in gergo è chiamata win-win. Applicata a termini come strategy o situation la locuzione, mutuata dalla teoria dei giochi, invita a non ragionare nell’ottica del ritorno immediato ma a considerare la complessità del sistema economico, ad abbandonare la logica del profitto puramente quantitativo che conduce a un braccio di ferro nel quale qualcuno vince e qualcuno perde (win-lose) ma a far riflettere sul fatto che chi esce vittorioso potrebbe alla lunga risentire della perdita altrui.
Insomma, si tratta di fare in modo che tutti i soggetti coinvolti nella relazione ne escano vincenti e arricchiti, per il bene complessivo. (Paola Gho)


Menzogne spudorate.
Multinazionali e governi delle banane.
Intervista di Georges Desrues a Olivier De Schutter e Jean Ziegler
Sia Olivier De Schutter, relatore speciale dell’Onu per il diritto all’alimentazione, sia Jean Ziegler, che lo ha preceduto nella stessa carica, nutrono grandi preoccupazioni. Nell’intervista concessa a Slowfood entrambi si dichiarano convinti che la competizione per i terreni agricoli in Africa costituisca un fenomeno pericoloso e che la fame nel mondo crescerà ulteriormente. Mentre il belga De Schutter, laureato ad Harvard e professore di scienze giuridiche, mostra una certa cautela nella scelta delle parole, Jean Ziegler fa esattamente il contrario. Sociologo svizzero impegnato ed ex uomo politico, Ziegler è noto tanto per i suoi discorsi appassionati e diretti, quanto per il tono esplicito delle sue denunce. Il libro più recente di Ziegler si occupa proprio di land grabbing ed è uscito di recente in italiano presso Marco Tropea Editore, con il titolo L’odio per l’Occidente.
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Lei vede l’acquisto di aree agricole in Africa da parte di governi e imprese straniere più come una situazione “win-win” o come una nuova forma di colonialismo?
ZIEGLER
Naturalmente si tratta di neocolonialismo. Le imprese multinazionali e la Banca mondiale comunicano cifre che di primo acchito sembrano dare loro ragione. Si servono delle statistiche della Fao le quali riportano che mentre, ad esempio, in Lombardia su un ettaro di terreno si producono 10 tonnellate di grano, nella zona del Sahel, su una superficie di uguali dimensioni, si raccolgono soltanto da 600 a 700 chili di cereali. E ne traggono la conseguenza che si dovrebbe affidare la terra a qualcuno che sia in grado di ottenere raccolti più consistenti. È una logica che va contestata. Quello che manca agli agricoltori in Africa sono i mezzi di produzione. Un contadino della tribù dei Bambara, nel Mali, è altrettanto competente e alacre quanto un contadino della Lombardia.
DE SCHUTTER
Di una situazione “win-win”, che vada a vantaggio di entrambe le parti, non si può proprio parlare. Io sono estremamente preoccupato per questa tendenza. In molti paesi africani la terra appartiene allo stato e i governi danno per scontato di poterne disporre liberamente. Per questo, spesso la terra viene ceduta a investitori a cui non si impongono regole per quanto riguarda il rispetto della popolazione locale. Molti piccoli agricoltori e pastori, ma anche molte popolazioni indigene, che per la loro sopravvivenza dipendono dalle foreste, sono rappresentati molto male a livello politico e corrono il rischio di uscire perdenti da questi affari.

Quindi si tratta di neocolonialismo?
DE SCHUTTER
Di questa espressione – peraltro inutilmente polemica – non mi piace il fatto che attribuisce la pressione economica, a cui è assoggettata la terra, soltanto agli investitori stranieri. Spesso in questi affari sono coinvolti in uguale misura anche investitori locali, con i loro amici e parenti. Allora è questo il motivo per cui continua a crescere il numero degli uomini politici e di governo africani che sono alla ricerca di persone che vogliano acquistare terreni…

Allora è questo il motivo per cui continua a crescere il numero degli uomini politici e di governo africani che sono alla ricerca di persone che vogliano acquistare terreni…
ZIEGLER
Sì, naturalmente ci sono anche quelli! È una questione di corruzione. I politici sono semplicemente prezzolati da fondi speculativi e imprese multinazionali.

Ma non c’è nulla di nuovo. Di governi che hanno lavorato con l’industria agraria o che ne sono stati controllati ce ne sono stati anche prima. Basta pensare alle repubbliche delle banane, che si sentono citare spesso.
DE SCHUTTER
Sembra quasi che si impongano di nuovo vecchi scenari, di cui evidentemente si sono dimenticate  le conseguenze negative.
ZIEGLER
Di radicalmente nuovo c’è il valore che oggi hanno le materie prime agricole. Fin dal crollo dei mercati finanziari, i fondi speculativi sono alla ricerca di altri settori, in cui investire. Bruciare prodotti alimentari sotto forma di biocarburante è diventato un gigantesco business redditizio.

Quindi lei non riesce a immaginarsi situazioni in cui l’acquisto della terra potrebbe portare vantaggi per la popolazione locale, come invece sostengono spesso gli investitori?
DE SCHUTTER
La destinazione degli investimenti di questo ordine di grandezza sono quasi sempre le piantagioni di grandi dimensioni, che richiedono poca mano d’opera. Anche se qualcuno potrebbe trarne vantaggio, molti altri verrebbero a essere tagliati fuori dalle loro risorse idriche, sospinti su terreni non fertili e successivamente obbligati a rinunciare all’agricoltura.
ZIEGLER
Vantaggi di questo genere non ne esistono! Voler sfruttare una condizione di miseria non è altro che un crimine contro l’umanità. Le imprese e i fondi speculativi sostengono di creare posti di lavoro. Ma parliamo per esempio della Sierra Leone: qui la Addax Bioenergie, una ditta con sede a Losanna, ha acquistato 20.000 ettari di terra. Su questi terreni lavorano decine di migliaia di persone, che ora vengono scacciate e finiscono per convergere negli slums di Freetown, la capitale. I pochi che hanno trovato lavoro nelle piantagioni dove si coltiva la canna da zucchero, utilizzata poi per la produzione di biocarburanti, guadagnano meno di due euro al giorno. Anche questo è ancora schiavismo.

E gli investitori chi sono?
ZIEGLER
Esistono due tipi di aggressori. Da un lato ci sono le imprese multinazionali, come la già citata Addax, che ha sede a Losanna. E dall’altro lato ci sono i fondi speculativi privati e i fondi statali. Il fondo dello stato libico, per esempio, ha acquistato 11.000 ettari di terreno in Mali. Vi si coltivano principalmente piante per la produzione di biocarburanti e ortaggi, venduti come primizie nei periodi in cui in Europa sono fuori stagione. Tutto questo fa crescere il numero delle persone che in Africa soffrono la fame, e le spinge a fuggire oltremare. Quindi, si tratta prevalentemente di paesi che avrebbero comunque dei problemi a nutrire in modo adeguato la loro popolazione.
DE SCHUTTER
È un paradosso che viene spesso messo in evidenza. Ma la cosa non finisce qui. Perché spesso non si tiene conto che questi investimenti generano una sorta di dumping interno. Mentre le grandi piantagioni possono avere accesso a crediti e godono di un input agricolo, i piccoli agricoltori ne restano esclusi. Di conseguenza, nelle piantagioni e nella media nazionale la produzione cresce. Di questo potrebbero rallegrarsi i governi, che oltre tutto vedono affluire nel paese anche valuta estera. Ma i prezzi più bassi praticati dai grandi produttori finiscono con l’escludere dalla competizione i piccoli agricoltori e, di conseguenza, nelle zone rurali potrebbero crescere ulteriormente la povertà e le differenze sociali. Come lei forse sa, oggi la fame nel mondo non è causata dal basso livello della produzione di alimenti, ma dalla povertà e dalle ingiustizie nella distribuzione della ricchezza.

Nonostante questo, lei non negherà che oggi l’agricoltura africana abbia urgentemente bisogno di investimenti.
ZIEGLER
Certamente ha bisogno di investimenti, ma non di questo genere. È incontestabile che il rendimento della terra sia molto basso. Bisogna dare agli agricoltori africani i mezzi perché possano diventare più produttivi, invece di derubarli. Gli africani hanno bisogno di fertilizzanti, sistemi di irrigazione, forza motrice e sementi. I loro Paesi enormemente indebitati non possono fare investimenti.
DE SCHUTTER
È vero che in passato si è investito troppo poco. Questo è il motivo per cui l’agricoltura africana è molto meno produttiva, ad esempio, di quella del Sudest asiatico. Ma il fatto che l’Africa abbia bisogno di investimenti è soltanto l’inizio del discorso. Non tutti gli investimenti sono uguali. Ci sono anche quelli che hanno come conseguenza l’esodo dalle campagne e la fame.

Spesso si sostiene che queste terre non siano coltivate e restino semplicemente abbandonate.
ZIEGLER
Questa è una menzogna spudorata. Di terre abbandonate di questo genere in Africa non ce ne sono assolutamente. Dappertutto vivono pastori, cacciatori o raccoglitori.
DE SCHUTTER
A differenza da quella che è la nostra idea, in Occidente, la terra in Africa oltre a essere proprietà privata è anche proprietà della comunità. Le mandrie di animali dei pastori ci pascolano sopra e fertilizzano il terreno. Oppure, ci si raccoglie la legna per il fuoco. La terra africana ha un grande valore comunitario. Sottrarla alla comunità e venderla a investitori esteri o anche autoctoni comporterebbe un enorme sovvertimento per la popolazione rurale.

Che cosa propone, allora, perché i paesi democratici come la Corea o il Giappone, che mostrano un interesse evidente, investano in modo responsabile?
DE SCHUTTER È semplicissimo: devono investire senza arrivare a causare un cambiamento nella
proprietà della terra. Ci sono esempi a sufficienza del sistema che in inglese si chiama contract farming, in cui agli investitori si garantisce l’accesso alla produzione, a condizione che essi si impegnino a garantire agli agricoltori l’accesso ai mezzi di produzione, al credito e alla tecnologia. E, per fare questo, non c’è bisogno che milioni di ettari di terreno cambino proprietario.
ZIEGLER
Prima di tutto, bisogna estinguere subito il debito estero dei paesi più poveri. Poi bisognerebbe ristrutturare il programma del Fondo monetario internazionale, che promuove l’agricoltura per l’esportazione anziché quella per la sussistenza. Inoltre, occorre bandire i biocombustibili che si producono utilizzando piante commestibili. Bruciare prodotti alimentari significa condurre una guerra contro l’umanità. Infine, si dovrebbe incrementare la produttività degli agricoltori africani, invece di derubarli. Ma ciò che sta succedendo qui, oggi, è un assassinio e una evidente violazione del diritto umano all’alimentazione. Viviamo in un mondo in cui ogni cinque secondi muore di fame un bambino di età inferiore ai 10 anni.

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