10.10.11

I ricordi dal Texas di J. M. Coetzee

 “Tuttolibri” del 17 settembre 2011 ha pubblicato in anteprima un capitolo di Doppiare il capo. Saggi e interviste, un libro dello scrittore sudafricano di John Maxwell Coetzee, premio Nobel per la letteratura nel 2003, appena tradotto e pubblicato per Einaudi. Nel capitolo, Ricordi dal Texas, un saggio del 1992, Coetzee, che è nato a Città del Capo nel 1940 rievoca la giovinezza negli Usa ed in particolare gli anni trascorsi ad Austin. (S.L.L.)

Nel settembre del 1965 (questo saggio non può cominciare in altro modo) approdai a New York a bordo di una nave italiana, in precedenza adibita al trasporto truppe, ora affollata di giovani da varie parti del mondo che andavano a studiare in America. Avevo venticinque anni, ero partito dall’Inghilterra ed ero diretto ad Austin, con un contratto di lavoro all’Università del Texas per 2100 dollari all’anno. Avrei insegnato inglese alle matricole mentre seguivo i corsi post lauream.
Avevo studiato inglese in colonia, il mio luogo di origine, in un corso universitario piuttosto convenzionale dove avevo imparato a pronunciare correttamente le vocali nei versi di Chaucer e a leggere la grafia elisabettiana. Conoscevo il poeta di Pearl e Thomas More e John Evelyn e molti altri grandi. Sapevo «fare» critica letteraria anche se non capivo bene in che cosa differisse dalla recensione di un libro o dalla conversazione letteraria. In definitiva questa pallida imitazione degli studi di Oxford si era dimostrata ben misera cosa ed ero stato contento di lasciarla per abbracciare la matematica: ma dopo quattro anni nell’industria informatica in cui persino durante il sonno ero invaso da insignificanti problemi di logica, ero pronto a provarci di nuovo.
In una Austin più calda e più umida dell’Africa che ricordavo, mi iscrissi a dei corsi di bibliografia e di antico inglese. Da William B. Todd imparai i meccanismi del collettore di Hinman. Per il corso di Rosamund Lehmann progettai ed eseguii una classificazione minuziosamente dettagliata delle figure retoriche dei sermoni del vescovo Wulfstan, per il quale mi fu assegnato il voto di A–, il meno mi spiegò era dovuto al fatto che un lavoro come il mio dava cattiva fama alla filologia. Aveva ragione: non me la presi anche se non capivo come avrei proseguito.
Nel fondo dei manoscritti della biblioteca trovai i quaderni su cui Beckett, mentre si nascondeva dai tedeschi, aveva scritto Watt 54 - Ricordi del Texas in una casa colonica nel Sud della Francia. Passai settimane a esaminare i manoscritti, riflettendo sui disegni, i numeri e gli scarabocchi sui margini, sconcertato di scoprire che la ben documentata agonia della composizione di un capolavoro non avesse lasciato altre tracce che tali stupidaggini. Mi chiedevo se l’angoscia non fosse tutta nell’attesa, nello stare seduti a fissare la pagina vuota.
Uno studente di nome Charles Whitman (un mio collega? Erano tutti e 23.000 miei colleghi?) prese l’ascensore fino alla torre dell’orologio e cominciò a sparare sulle persone nel piazzale sottostante. Ne uccise un bel numero prima che qualcuno uccidesse lui. Per tutto il tempo rimasi nascosto sotto la scrivania. A Cape Town un greco assassinò Hendrik Frensch Verwoerd, l’artefice della filosofia dell’apartheid. «Se non sei d’accordo con la guerra – disse un amico, intendendo la guerra in (al?) Vietnam – perché non te ne vai? Che cosa ti trattiene?». Ma lui non mi aveva capito. Non si trattava di complicità – un concetto troppo sottile per l’epoca. Il problema era sapere quello che accadeva. Il problema era come sfuggire a quella conoscenza.
Gli studenti che seguivano le mie lezioni di composizione sarebbero potuti essere nativi delle isole Trobriandesi, tanto incomprensibili per me erano la loro cultura, i divertimenti, le idee che li eccitavano. Mi muovevo in un unico strato della comunità universitaria, quello degli studenti post-laurea e dei dottorandi che vivevano vite in economia, in appartamenti in affitto, con i giocattoli sparsi sul pavimento e che si arrabattavano per completare i corsi e prepararsi agli esami orali o scrivere le tesi. Quando non parlavano degli insegnanti (loro personalità e deficienze), i discorsi riguardavano come scappare, trovare un lavoro a Huntsville o a Texarkana, come mettere le mani sui soldi veri. In mancanza di obiettivi meno concreti di questi, o forse in assenza totale di obiettivi, mi davo da fare sui miei testi in antico inglese e sulla grammatica tedesca. La domenica giocavo a cricket su un campo di baseball con un gruppo di indiani. Formammo una squadra, andavamo a College Station, e lì giocavamo contro una squadra della Texas A&M formata di nostalgici reietti delle colonie, e perdevamo.
Mi tornò in mente un amico indiano dei tempi dell’Inghilterra con cui facevamo lunghe passeggiate nella campagna del Surrey, una campagna che per noi, concordavamo su questo, non significava nulla. «Almeno in America – diceva (aveva passato del tempo a Columbus, Ohio) – ci sono chioschi di hamburger aperti tutta la notte». Per quanto non avessi alcun interesse per gli hamburger, l’America di cui parlava sembrava un grande passo avanti rispetto all’Inghilterra che conoscevo. Ora che mi trovavo in America, o per lo meno in Texas, le verdi colline erano altrettanto aliene per me come quelle del Surrey. Mi pareva di sentire la mancanza di spazio vuoto, terra vuota e cielo vuoto a cui il Sudafrica mi aveva abituato. L’altra cosa che mi mancava era il suono di una lingua di cui capivo le sfumature. La lingua parlata in Texas sembrava non avere sfumature, o se c’erano non le coglievo.
Scrissi una tesina per il corso di Archibald Hill sulla morfologia delle lingue nama, malay e olandese, lingue di ceppi diversi che nel Capo di Buona Speranza si erano trovate a influenzarsi l’una con l’altra. Trovai in biblioteca libri mai più aperti dagli anni Venti, rapporti sul territorio dell’Africa Sud-occidentale di esploratori e amministratori tedeschi, resoconti di spedizioni punitive contro i nama e gli erero, dissertazioni sull’antropologia fisica dei nativi, monografie di Carl Meinhof sulle lingue khoisan. Lessi le grammatiche rudimentali formulate dai missionari, tornai ancora più indietro nel tempo alle prime registrazioni linguistiche delle vecchie lingue del Capo, liste di vocaboli compilate da marinai del diciassettesimo secolo e poi seguii le fortune degli ottentotti in una storia scritta non da loro ma per loro, dall’alto, da viaggiatori e missionari, tra i quali il mio lontano antenato Jacobus Coetzee, floruit 1760. Qualche anno più tardi, a Buffalo, ancora su questa traccia, mi sarei avventurato a scrivere qualcosa sulla storia degli ottentotti, una sorta di memoir che si ampliò fino a essere assorbito nel mio primo romanzo Terre al crepuscolo.
Un’altra pista mi portò dai nama e i malay ad approfondire la sintassi delle lingue esotiche, in incursioni che si ramificavano sempre oltre (stavo riscoprendo la ruota) fino a scoprire che il termine primitivo non aveva alcun senso, che ciascuna delle 700 lingue del Borneo era un sistema coerente e complesso e impenetrabile all’analisi quanto l’inglese. Lessi Noam Chomsky e Jerrold Katz e i nuovi grammatici universali e arrivai a domandarmi: se dovessero mai costruire un’arca in cui mettere il meglio che l’umanità ha creato e ricominciare da capo su qualche remoto pianeta, se mai dovesse accadere, non dovremmo lasciarci alle spalle i drammi di Shakespeare e i quartetti di Beethoven per fare spazio all’ultimo parlante di dyirbal anche se si fosse trattato di una vecchia grassa, rognosa e puzzolente? Una strana posizione per uno studente di inglese, la più grande lingua imperiale. Doppiamente strana per uno animato da ambizioni letterarie, per quanto vaghe – ambizioni di parlare un giorno con la sua voce – trovarsi a sospettare che le lingue parlavano gli individui o almeno che parlavano attraverso di loro.
Lasciai il Texas nel 1968. Non capii mai perché l’università e i contribuenti americani avessero elargito tanto denaro perché io seguissi i miei capricci. A volte pensavo si trattasse di una svista, una svista insignificante, permessa dal sistema, per cui non importava se tra le migliaia di ingegneri petroliferi e di politologi sfornati ogni anno, ne venivano fuori uno o due di quelli come me. Altre volte pensavo che il programma di scambio Fulbright fosse qualcosa di molto lungimirante e molto generoso di cui tutti avrebbero sentito i benefici in un lontano futuro. La verità stava forse nel mezzo.
Né all’andata né al ritorno ebbi alcun rimpianto. Me ne andavo, pensai, indenne, non scalfito se non dai tempi. Nessuno aveva cercato di insegnarmi qualcosa, cosa di cui ero grato. Quello che avevo imparato nel corso di tre anni non era poco, per quanto appreso quasi per caso. Avevo avuto a disposizione una grande biblioteca, e mi ero imbattuto in libri di cui non avrei altrimenti neppure sospettato l’esistenza. Passando davanti alla porta dello studio di James Sledd alle cinque di un sabato pomeriggio, il ticchettio della sua macchina da scrivere mi aveva rassicurato che la provincia degli studi di anglistica non era roba per dilettanti, come lo stile di vita dei miei insegnanti coloniali sembrava dimostrare. Avrei potuto venirne via con molto meno.

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