9.9.11

Pietro Ingrao: "L'indignazione non basta. Ci vuole la politica"

Sul “manifesto” del 2 aprile 2011 Ida Dominijanni dà conto, nell’articolo che qui ripropongo, di un volumetto uscito in occasione dei 96 anni di Pietro Ingrao, una conversazione con due amici e compagni che ha come tema la politica e la sua moralità. (S.L.L.)
Pietro Ingrao
È sempre sorprendente la freschezza essenziale con cui Pietro Ingrao, 96 anni appena compiuti, riesce ad afferrare i nodi del presente. Sempre più essenziale e sempre più scarna, come sempre più essenziale e scarna è la sua lingua politica e poetica insieme, che la breve e intensa conversazione con Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti, Indignarsi non basta, pubblicata per questo compleanno da Aliberti, restituisce fedelmente. Il nodo di turno è l'accidentato rapporto fra politica, morale e legalità, attorno a cui il dibattito italiano gira e rigira senza trovare la tangente giusta per volare alto. L'occasione invece è il fortunato pamphlet di Stéphane Hessel, Indignez-vous, uscito in Francia pochi mesi fa, perentorio invito rivolto ai giovani da un altro ultra-novantenne (militante nella Resistenza francese, redattore della Dichiarazione dei diritti dell'uomo del '48, poi diplomatico), e accolto da più di un milione di lettori.
Indignarsi è giusto e necessario, scrive Hassel di fronte ai sans-papiers, alla distruzione dello stato sociale, alle liberalizzazioni selvagge, alla concentrazione dei media, al disfarsi della democrazia. È giusto e necessario, replica Ingrao, ma non sufficiente: l'indignazione è una molla senza la quale non c'è politica, ma che da sola non fa politica; è il sentimento primario per reagire all'ingiustizia e al sopruso, ma poi «conseguire con efficacia un risultato significa suscitare e orientare forze», «costruire una relazione condivisa e attiva, la puoi chiamare movimento o partito o in altro modo»: perché politica non è altro che questo, «io e altri insieme, per influire, fosse pure per un grammo, sulle vicende umane». L'indignazione, invece, si sposa benissimo con l'individualismo imperante, col gesto solitario della firma di un appello o con la partecipazione a una manifestazione che dura un giorno. Di più: copre, qualche volta, con la sola denuncia l'analisi realistica delle questioni in gioco. Un esempio? «Vedo prevalere una critica morale alla degenerazione dei partiti, alla corruzione e all'affarismo del ceto politico. Ne condivido le ragioni e l'asprezza. Ma l'indignazione non dà conto delle modificazioni sostanziali. Le istituzioni della rappresentanza sono cambiate in rapporto alle trasformazioni che hanno subìto i luoghi del vivere comune: le fabbriche, gli uffici e le scuole, le metropoli, la mobilità, la comunicazione». Primo controcanto all'opinione corrente a sinistra: la questione non è, o non è solo, morale. In questo e in altri casi, perché la posta in gioco della politica non è, o non è solo, il bene e il male, il giusto e l'ingiusto, l'arroganza di chi comanda e il dissenso di chi disobbedisce: è la presa dei poteri sulle vite, con i loro dispositivi che vanno, uno per uno, conosciuti e smontati: con la politica.
Secondo controcanto: la questione non è mai, o non è solo, legale, istituzionale, costituzionale. Lo dice uno come Ingrao, che pure alle istituzioni, il parlamento in primo luogo, si è dato per una fase forse più che al partito; uno che nella Costituzione ha sempre visto la stella polare e la invoca tutt'ora contro «la normalizzazione della guerra», pur da una posizione che non è quella della non-violenza assoluta e che gli fa ponderare il giudizio sull'intervento contro «quel mascalzone di Gheddafi». E tuttavia, a onta di questa adesione convinta alle forme istituzionali, «Non sono mai stato uomo della regola», per via di «un'acuta percezione di quanto sia mutilante, nella sua astrazione, la norma. E ogni ordine, ogni forma, ogni misura riduttivi rispetto alla vita». Sì che «sono stati momenti di forza e di libertà quelli in cui mi sono detto: 'io non sono di questa città'- si chiamasse partito, parlamento, Stato- 'non è questa la mia legge'. E sono ripartito, nel mio fare politica, praticando il dubbio».
Politica, libertà, dubbio: la triade di Ingrao sta qui. La politica, che non si dà senza la molla dell'indignazione, senza azione collettiva, senza regole e istituzioni condivise, eppure è un di più, un'eccedenza rispetto a tutte e tre. La libertà, perché «la nostra sconfitta è maturata anche su questo punto essenziale». Il dubbio, anzi la pratica del dubbio: «quello che salvo di me, ma anche quello su cui sono stato poco compreso» e molto frainteso, come se dubitare fosse un'attitudine all'indecisione e non, nota Maria Luisa Boccia, «un criterio per il fare, un'altra misura del realismo in politica». Dove, come nella vita, non vale sempre, anzi quasi mai, la nettezza e la certezza: «Le cose vanno in altra maniera. La condizione umana convive sempre con un elemento di casualità, e di fantastico». I conti non tornano, e per fortuna. Anche oggi. C'è crisi, apatia democratica, sconfitta di forme che non torneranno in vita, e però fuori da questi scheletri, nelle acque agitate della vita sociale, «c'è tumulto, non quiete». Lì, in quel tumulto, «la politica può rinascere».

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