15.9.11

Eichmann. Se il male non e' banale (di Giovanni De Luna)

Una bella e problematica lettura di Giovanni De Luna, che recensendo su “La Stampa” del 17 settembre 2006 una biografia recente di Eichman (di David Cesarani), sottopone a verifica la chiave interpretativa di Hannah Arendt, ne mette in luce il carattere datato e i limiti, ma finisce con il sottolinearne il valore perenne. (S.L.L.)

Sono passati più di quarant'anni da quando Hannah Arendt evocò la «banalità del male» come chiave interpretativa per penetrare nel «mistero» del genocidio degli ebrei. L'icona simbolica di quella tesi era Adolf Eichmann («Uomini come lui ce n'erano tanti e questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano e sono tuttora terribilmente normali»), il gerarca nazista catturato dagli israeliani in un sobborgo di Buenos Aires la sera dell'11 maggio 1960, trasportato in Israele nove giorni dopo e tradotto dinanzi al Tribunale distrettuale di Gerusalemme l'11 aprile 1961 per rispondere dei suoi crimini «di guerra, contro il popolo ebraico, contro l'umanità».
La Arendt seguì il processo come inviata del “New Yorker”, ricavandone alla fine un libro sconvolgente, da cui emerge il profilo di un uomo piccolo piccolo, un grigio burocrate che sprofonda nel Male assoluto senza avere la natura demoniaca dei grandi criminali, materiale umano inerte, plasmato dallo Stato totalitario fino a trasformarlo in un docile strumento di morte. Era facile, troppo facile (e ce lo ha recentemente dimostrato la drammatica confessione di Gunter Grass), per regimi come quello nazista, avere ragione della fragilità degli uomini.
A contestare esplicitamente questa tesi, giudicandola «in larga misura predeterminata e mitologica», esce oggi anche in Italia una compiuta e documentata biografia di Eichmann (David Cesarani, Adolf Eichmann, Anatomia di un criminale, Mondadori, pagg. 530, euro 20). Il contrasto tra le due posizioni è netto. Per Cesarani, la Arendt non si è minimamente preoccupata di sapere chi era effettivamente il «vero» Eichmann; aveva bisogno di «un Eichmann» da trasformare in un emblema dello Stato totalitario, così da dare un volto, un corpo, un'anima al totalitarismo, sottraendolo all'astrattezza e all'aridità delle categorie politologiche e storiografiche; ed è per questo che ne contesta sia l'interpretazione del nazismo che il ritratto dell'aguzzino.
Le considerazioni della Arendt finivano per sottolineare nel nazismo una sorta di implacabile razionalità che si estendeva dall'organizzazione burocratica a quella produttiva, una dimensione totalmente inscritta nella più piena modernità della nostra storia novecentesca, una logica che anche nello sterminio di massa applicava le regole della grande fabbrica fordista, sottraendosi a ogni suggestione di regressione alla barbarie. In sintonia con le più recenti correnti storiografiche tedesche, Cesarani insiste invece sulla «poliarchia» che caratterizzava le strutture del regime nazista («non un monolite totalitario ma un groviglio di organismi statali e di partito in competizione tra loro»), evidenziandone le contraddizioni, le contorsioni, i conflitti interni, le rivalità furibonde, in un caos che trovava una sua ricomposizione e un suo ordine solo nella figura del Fuhrer, nel ruolo di capo carismatico assunto da Hitler. Alla stessa «soluzione finale» per gli Ebrei si arrivò per approssimazioni successive, attraverso decisioni che rimbalzavano in maniera contraddittoria tra il centro e la periferia: «La soluzione finale può anche esser stata avviata negli ultimi mesi del 1941, ma si trattò di un processo discontinuo e incoerente che si consolidò solo a partire dalla metà del 1942». E così anche per la biografia di Eichmann. Anziché dare per scontato che fosse predestinato a diventare un «killer da scrivania», Cesarani lo insegue lungo i tornanti di un vita non lineare né scontata, soffermandosi alla fine sui vari passaggi che lo videro percorrere tutta intera la parabola da organizzatore dell'emigrazione ebraica dalla Germania a «manager di un genocidio paneuropeo». Eichmann cominciò la sua carriera nelle SS occupandosi dell'espulsione degli ebrei. Fu una fase in cui la pulizia etnica si affidò al tentativo di allontanare gli ebrei dal suolo tedesco, incoraggiandoli con le buone e con le cattive a emigrare. Successivamente - tra il dicembre del 1939 e il marzo 1941, nella Polonia occupata - da esperto in «emigrazione di massa» Eichmann si trasformò in esperto in «deportazione di massa», assumendo un ruolo determinante nella brutale evacuazione di 500 mila polacchi ed ebrei. L'ultimo passaggio fu legato alla sua partecipazione alla Conferenza di Wannsee (nel gennaio 1942), quando la decisione di dar corso alla «soluzione finale» divenne operativa. Da quel momento Eichmann fu un genocidiario convinto e responsabile, motivato ed entusiasta. La svolta, secondo Cesarani, si ebbe proprio in Polonia, nel 1939: fu lì che Eichmann varcò la soglia oltre la quale il genocidio diventò la sua normale occupazione, il momento «in cui i normali sentimenti di empatia nei confronti dei propri simili vennero annullati e svanirono le inibizioni che impediscono di commettere atrocità» ed emerse (per la prima volta ma irreversibilmente) «la sua volontà di sottomettere degli esseri umani en masse alla sofferenza fisica, in violazione di ogni legge e statuto naturale».
Che dire? Certo il libro della Arendt appare oggi molto datato: Eichmann fu letteralmente «scoperto» dopo la sua cattura in Argentina, nel senso che anche al processo di Norimberga il suo ruolo era stato appena sfiorato e la sua figura era apparsa piuttosto sbiadita. La Arendt non aveva a disposizione le fonti e le ricerche utilizzate oggi da Cesarani e alla fine il suo ritratto fu modellato proprio sull'immagine difensiva che Eichmann costruì nelle sue deposizioni nell'aula del Tribunale di Gerusalemme, così da assecondarne di fatto il tentativo di minimizzare le proprie colpe.
Non solo. Anche a distanza di anni sono pienamente riconoscibili gli intenti polemici delle sue posizioni, l'insofferenza verso i tentativi di minimizzare il coinvolgimento del popolo tedesco nel genocidio degli ebrei (secondo Adenauer, solo «una percentuale relativamente piccola» era stata nazista, mentre «la grande maggioranza era stata felice di aiutare, non appena poteva, i suoi concittadini ebrei»), la denuncia delle strumentalizzazioni di Ben Gurion e del gruppo dirigente israeliano che usarono esplicitamente il processo contro Eichmann per legittimare storicamente la nascita dello Stato d'Israele, l'indicazione puntuale delle contraddizioni interne al mondo ebraico che quel processo era chiamato a risolvere, eccetera.
Eppure, c'è qualcosa in quel libro che resiste nel tempo, che non è invecchiato. Diciamolo francamente. L'ipotesi di Cesarani è in qualche modo più rassicurante. Il male che interpreta «il suo» Eichmann non ha più niente di banale, si sottrae all'immagine di un'ostentata normalità. Quello che ci inquietava nelle tesi della Arendt era proprio l'impossibilità di confinare il male nella dimensione dell'eccezionale, del mostruoso, dell'inumano. Attribuendo a Eichmann, se non la grandezza epica del «mostro», comunque i tratti di una ferinità lucidamente consapevole, Cesarani lo espelle dall'orizzonte della nostra dimensione quotidiana, lo allontana da noi, lo confina in quella «terra di nessuno» dove gli uomini decidono di entrare quando sono pronti a uccidere, a replicare la pratica di quei sacrifici umani dai quali la nostra storia religiosa e civile ci ha allontanato da millenni. Il carnefice assume i contorni luciferini del «barbaro», diventa per ciò stesso immediatamente riconoscibile, identificabile e quindi facile da combattere. Il male declinato lungo i percorsi dell'orrore, della ripugnanza e della malvagità è più facilmente addomesticabile, è quello a cui siamo allenati ogni giorno dall'estetica proposta dai mezzi di comunicazione di massa. Il male che la Arendt ci ha chiesto di conoscere e di combattere è più subdolo e più pericoloso: non ha le sembianze del nemico e nemmeno quelle del diverso, così da insidiare dall'interno i fondamenti della nostra convivenza civile. In questo senso, per quanto storiograficamente attendibile, il libro di Cesarani non arriva a scalfire l'essenza ultima di quello della Arendt, racchiusa nella sua spietata requisitoria finale contro Eichmann, un'arringa fatta non in nome del popolo ebraico, ma dell'umanità intera: «Tu ci hai narrato la tua storia presentandocela come la storia di un uomo sfortunato, e noi, conoscendo le circostanze, siamo disposti... ad ammettere che in circostanze più favorevoli ben difficilmente saresti comparso dinanzi a noi o dinanzi a qualsiasi tribunale. Ma anche supponendo che soltanto la sfortuna ti abbia trasformato in un volontario strumento dello sterminio, resta sempre il fatto che tu hai eseguito e perciò attivamente appoggiato una politica di sterminio. La politica non è un asilo: in politica obbedire e appoggiare sono la stessa cosa. E come tu hai appoggiato e messo in pratica una politica il cui senso era di non coabitare su questo pianeta con il popolo ebraico e con varie altre razze (quasi che tu e i tuoi superiori aveste il diritto di stabilire chi deve e chi non deve abitare la terra), noi riteniamo che nessuno, cioè nessun essere umano, desideri coabitare con te. Per questo, e solo per questo, tu devi essere impiccato». 

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