4.8.11

Sicilia 1938. I turbamenti del giovane Fortini

Palermo, Oratorio di Santa Zita, Uno stucco del Serpotta.
Il particolare è ripreso da una foto di Luciano Romeo.
Propongo qui la seconda parte dell’articolo di Franco Fortini (“Corriere della sera”, 15 maggio 1988) sul suo viaggio a Palermo e in Sicilia in occasione del Littoriali del 1938, di cui ho già postato in questo blog la prima parte ( http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2011/07/1938-i-miei-venti-anni-ai-littoriali-di.html ). Tema centrale di questa sezione è il racconto (sfumato dal ricordo e corroborato da cinquant’anni di studi ed esperienze) della Sicilia, scoperta e osservata da un giovane intellettuale di grande sensibilità. A me sembrano un capolavoro di grazia narrativa i passaggi a Monreale e ad Agrigento, come sembra una geniale intuizione storico-critica la riflessione su classicismo e barocco in Sicilia. Gustosa e nutriente mi pare poi l’attenzione che Fortini riserva al cibo in alcuni passaggi del racconto: nella prima parte il cibo placa la giovanile fame ed esprime la giovanile irrequietezza (“qualche frutto, una scatoletta di carne, un po’ di pane asciutto”), qui si trova il cibo della sensualità e della solidarietà. Una pagina da leggere e da rileggere, compreso il finale lapidario sulla Roma spettrale di quella oscura primavera. (S.L.L.)
Siracusa, Museo Archeologico, Venere Anodiomene detta Landolina
4.
Chi oggi visita la cattedrale di Monreale vi arriva in mezzo al traffico, i quartieri della speculazione e la folla atroce e stravolta; né può immaginarsi che cosa quella fosse allora e i mosaici, il chiostro, la valle, il silenzio. Era così anche in altre città d’Italia? Ma là pareva davvero di sentirsi, come dice un verso di Sereni “molto al di qua della prima automobile”.
Uno dei mosaici che raffigura, credo, la distruzione di Sodoma, mostra crani umani tra lingue di fuoco e crolli. Quando si uscì dalla cattedrale dei re normanni per osservare meglio l’abside, ci vennero incontro sei o sette ragazzotti, dal riso perverso e goffo, e ci guidarono poco oltre verso quello che, ci dicevano, era un carcere. In un piccolo cortile c’era un ossario all’aria aperta, con qualche muffa verde cresciuta sulle tibie. E negli stretti locali dei sottosuoli, dove chiunque avrebbe potuto entrare, accatastate una sull’altra c’erano casse da morto, col loro contenuto. Una ne aprii, che aveva coperchio a cerniera. Il volto conservava la pelle, divenuta come un cuoio ma tutto traforato. Da una scritta che accompagnava uno stemma nobiliare mi parve di capire quelli i resti di un signore ucciso dal colera del 1867. Dalle pareti, infagottati in sacchi grigi, pendevano forse una dozzina di corpi ridotti a mummie o scheletriti come alla Catacomba dei Cappuccini di Palermo, non però come quelli tenuti con qualche rispetto, anzi con mascelle e femori legati alle bene e meglio da spaghi; e ce n’erano che si trascinavano come fantocci sull’impiantito o, per aumento di orrore, spezzati a metà, ritti in piedi fino alle ossa del bacino, gli penzolavano giù torace e cranio. I ragazzi erano rimasti all’aperto e mobilissimi in controluce, aggrappati alle grate di quegli scantinati, ci osservavano e schernivano.

5.
Mi pare oggi di intendere che il significato del viaggio si contenesse o nascondesse in due eventi paralleli e contigui che nella mia mente di allora si configurarono come una relazione fra tardo-barocco e neoclassicismo. Sul finire di quel medesimo anno ne scrissi un racconto, pubblicato due anni dopo. Che non fosse solo una mia immaginazione lo prova oggi il fortunato libro di Vincenzo Consolo, Retablo, dov’è discorso di quella medesima età e trapasso di forme.
Il primo fu la rivelazione degli stucchi del Serpotta, in quei suoi oratori – San Lorenzo, Santa Zita, Sant’Agostino – con le Virtù di gesso e polvere, opulente e leziose, di cappellini bizzarri e omeri candìti, squisite come certi marzapani e dolcetti tiepidi che attraverso il muro di un convento di clausura non lontano dai Quattro Canti di Città dita invisibili di monache posavano su di una carta a stampiglia dorata per una bussola dove il passeggere aveva lasciate le sue monete. Quei dolci li venivo mangiando per via, rapito e stupito.
Il secondo fu a Siracusa in uno di quei musei dove allora non andava nessuno e bisognava suonare a lungo perché un custode assonnato si facesse sull’uscio e si trascinasse per le scale. Ero entrato in una sala oscura e stretta come una stanza, quasi buia, le impronte dell’unica finestra sbarrate sull’abbaglio. Il custode le aveva, ma di pochissimo, socchiuse. La Venere Landolina posava sul suo piedistallo girevole e quel suo carceriere la faceva lentamente ruotare. Si rivelava contro l’ombra delle pareti, irraggiungibile e vicinissima svolgeva le membra bionde. Con la sua luce di marmo, prima che il custode aprisse larghe le imposte per mutarla in una statua, l’idolo era penetrato vivo in una cella delle meningi, dove ancora sta.

6.
Ad Agrigento arrivai ai templi per una lunga strada polverosa su di una vecchia bicicletta presa in affitto vicino alla stazione. Quelle erano le prime costruzioni greche che avessi mai vedute. Non c’era nessuno. Vento teso sull’erba. Più tardi col gregge ed il cane passò un pastore. La città era lontanissima, una striscia bianca sul colle. Dal tempio della Concordia vedevo il mare.
La bicicletta – troppo tardi me ne accorsi – non aveva freni. quando mi decisi a tornare, il sole era alto e caldo. Giù per la discesa, fra paura e fatica, ero finito in un fosso, con un breve svenimento. Arrancai a piedi fino alle prime case. Una donna mi portò sulla via una catinella con un po’ d’acqua, perché mi lavassi la mano e la faccia; anzi mi cucinò un pesce d’uovo, come chiamano la frittata.
Poco dopo sono voluto tornare ai templi. Il tempo era cambiato. Dall’interno venivano nuvole e qualche tuono di temporale, un muro nero percosso da lampi rossi. Le pietre delle colonne scottavano al sole. I corvi si precipitavano. Era venerdì santo, non c’era voce di campana.
Cefalù, Il promontorio di Torre Kalura
A Cefalù m’ero seduto sulla spiaggia mattutina e mangiavo pane e olive. Potevo vedere il capo di capra del promontorio e sotto, ancora in ombra, le torri della cattedrale. Fino al taglio netto dell’orizzonte, un solido mare blu fondo senza luccichìo. Quando mi sono levato, nel canneto ho visto qualcosa che era la carcassa d’un asino. Pareva l’avesse portato fin là una mossa di mare. C’era tanto silenzio che ancora potevo udire il minuto crepitio delle bave d’acqua marina filtrate dall’arenile.
7.
Col treno del ritorno mi fermai a Roma. Sulla via dell’Impero camminavo e discorrevo con Trombadori, che avevo salutato a Palermo. C’era una doppia fila di tripodi enormi che la sera dopo avrebbero illuminato l’arrivo de Fuhrer, da Porta San paolo e via dei Trionfi, verso Piazza Venezia. A Firenze le vie del centro erano tutte fiorite per la primavera hitleriana.

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