21.8.11

Il cappotto di cammello. La sublime sprezzatura di Franca Valeri.

Nella rivista on line del Sindacato nazionale scrittori “Le reti di Dedalus” ho rintracciato una bella recensione di Mario Lunetta all’autobiografia di Franca Valeri. Ne propongo qui un estratto. (S.L.L.)
Giunta al traguardo dei novant’anni con invidiabile spirito caustico e critico, la grande attrice-autrice racconta la sua vita per scorci, schegge e frammenti con sublime sprezzatura.
Scrivere un’autobiografia è un percorso pieno di trappole. Per evitarle, è indispensabile una buona dose di autoironia, magari di sarcasmo. Di tutto ciò un’attrice-autrice della classe di Franca Valeri ha piena consapevolezza: una consapevolezza che tuttavia in quel digressivo viaggio nella propria vita in compagnia del suo autoritratto che appare e sparisce, si perde e si ritrova di colpo al centro della scena o – più spesso – al bordo, ma sempre con gli occhi aperti e la testa viva, come si addice ai grandi testimoni, non esibisce, ma tratta quasi con (finta) negligenza e divertita nonchalance, come ai margini di una conversazione distratta e un po’ malvagia.
A partire dal titolo Bugiarda no, reticente (Einaudi, Torino 2010), che sembra inventato dal cardinale de Retz, e nasce invece da una definizione di sua madre. “Le affermazioni della mamma erano considerate storiche nell’ambito modesto della storia familiare. Per esempio ha detto: ‘La Franca non è bugiarda, è reticente’, toccando con questa intuizione anche un aspetto segreto del carattere di suo marito”.
Il padre della Franca, ingegnere: “Quell’uomo raffinato, esterofilo, antifascista e goloso, era qualcuno a cui volevo assomigliare”. Ammirevole compostezza, quella di una figlia che ha un senso geometrico delle distanze fra i valori, e mostra una volta di più il suo talento dello straniamento linguistico saldando due aggettivi di caratura tanto diversa come “antifascista” e “goloso”.
Ci sono dei tratti, in questo libro, in cui sembra di cominciare a scorrere una scenetta d’epoca con tutta l’indispensabile pacchianeria, poi un tratto tutto si rovescia in orrore: un cortocircuito tra Petrolini e Gobetti. Ecco la famosa “reticenza”, virata a metà fra divertimento e tragedia, dentro un velo d’angoscia adolescenziale appena confortata da qualche visita con la mamma in città amate o da qualche manifestazione artistica di gran livello (per es. Firenze, un Requiem di Verdi diretto da De Sabata in Santa Croce per il cinquantenario delle traslazione delle spoglie di Rossini in Italia): “Studiavo privatamente per accorciare la fine del liceo. L’anno successivo non saremmo più potuti andare a scuola (...) La dichiarazione di guerra di un Mussolini in piena esaltazione mimica sul suo balcone riuscì ancora a farci ridere”. Le leggi antiebraiche 1938 per compiacere i nazisti. La Difesa della Razza. Gli otto milioni di baionette. Appena una crudele svirgolata di sofferenza che contiene una valutazione etico-politica capace di bruciare in radice qualsiasi tentazione di enfasi o di autocommiserazione.
La guerra: “Quel lungo episodio durato cinque anni che ho rimosso il 25 aprile 1945, guardando i carri americani in piazza Cordusio, a Milano, naturalmente. Guerra, che parola. Cinque anni vissuti nell’esaltante, più che speranza, sicurezza di perderla”.
Ovviamente “la Franca” è subito disposta a diffondere mazzetti di volantini antifascisti: questione di ciò che lei chiama “l’incontenibilità del mio odio” nei confronti della dittatura, che in questa testimonianza si fa stile, uno stile magro, efficace come una lama di pugnale ben affilato: “Adesso che le nemesi sono tutte lì, incasellate e realizzate, vediamo: la mia casa crolla, pazienza; i tedeschi entrano a Parigi, piango; lo sbarco in Normandia, speranza; i fucilati di Verona, orrore. Di quanti amici non so più niente”.
Ma poi, prestissimo, il mestiere del teatro, come dire la sua più profonda identità, trattata con la solita signorile compostezza, come a sminuirne l’importanza sacrale: “Al posto della speranza c’era il buio, l’indifferenza invece dell’odio. Ho detto 1945. Di cosa mi lamento. Nel ’50 ero già in scena”.
Il talento per le imitazioni, che significava già svagatissima sottolineatura dei tratti più insistiti della stupidità, è un dato che Franca ha ricevuto da madre natura, ma lei sa, praticamente da subito, che la comicità “è un lavoro di cervello”. E sempre, lo scetticismo nei confronti delle scuole di recitazione, perché, una volta stabilito che non si recita senza tecnica, poi “Tutto sta a capire cos’è” questa tecnica, appunto: e alla fine, “Nessuno ti può insegnare, finché non l’hai misurato con il tuo carattere, cos’è quello spazio che si chiama palcoscenico”. Tramite il quale, ovviamente, oltre al successo ben più che nazionale, la Valeri (per meriti di attrice e di autrice) ha incontrato o frequentato una memorabile galleria di “personaggi”, che in molti casi erano davvero persone eccezionali: da Marcel Marceau a Charles Chaplin, da Laurence Olivier a Arthur Rubinstein, da Fiorenzo Carpi a Edith Piaf, e Luchino Visconti e Arturo Toscanini e Maria Callas e Jean Genet e Edwige Feuillère e Madeleine Robinson e “la grande Lilla Brignone” e Tino Buazzelli e Sandro D’Amico e Pier Paolo Pasolini e Nora Ricci e la grande amica Silvana Mauri Ottieri e Peppino Patroni Griffi e Paolo Grassi e Giancarlo Menotti e Vittorio De Sica e Paolo Stoppa-Rina Morelli e Camilla Cederna, e un’infinità di altri di varia taglia; ma mi pare indispensabile, nel groviglio, ritagliare questo stupendo coriandolo: “Quando non avevo ancora sette anni ho conosciuto Petrolini. Papà mi aveva regalato un grande disco pesante e fragile, Voce del Padrone, con alcuni suoi personaggi: Gastone, Fortunello, I Salamini. Io ormai li sapevo a memoria. Quel meraviglioso amico che mi portava alla Scala me lo ha fatto conoscere, recitava una commedia e alla fine il famoso Nerone. Era domenica pomeriggio, due e mezza, al teatro Puccini. Petrolini stava alla cassa, appoggiato alla sedia della cassiera, con un gran cappotto di cammello. Ho sempre visto questo indumento come il marchio del grande teatro. Molti anni dopo, quando non ero che una giovane aspirante attrice, da Babington, in piazza di Spagna, ho visto entrare Visconti, Paolo Stoppa e la Morelli, tre stupendi cappotti di cammello, e ho avuto un tuffo al cuore. ‘L’avrò anch’io, mi sono detta; cioè, devo arrivare lì’. Petrolini si è chinato a guardarmi, non ero piccolissima come bambina, dato che a dieci anni ero come sono adesso – statura più che modesta. Mi ha abbracciato sentendo che ero quella che attualmente si direbbe una fan. Non poteva prevedere che alla mia prima apparizione teatrale mi avrebbero definito ‘Petrolini in gonnella’. L’immagine che mi è rimasta come un monito era quell’attore popolare, ormai ricco, fermo con gli occhi sulla ‘pianta’ mentre il suo pubblico numeroso entrava, comprava e lo guardava già divertito. Il grande rapporto da conquistare”.
Poi, con un filo di sofferenza che affiora dalla scrittura “imperturbabile”, i suoi due grandi amori: l’attore e il musicista, entrambi infedeli fisiologici. E tuttavia, quando la Brignone, “che quando amava un uomo non voleva altro”, le chiede “Tra Vittorio e il teatro cosa sceglieresti?”, la Franca risponde senza esitare: “Il teatro”. Lei sa, dopo tanta vita e una così straordinaria esperienza di immaginazione e di espressività fermata in una bella serie di titoli (Lina e il cavaliere, Le Catacombe, Meno storie, Sorelle ma solo due, Tosca e altre due, La vedova Socrate, Non tutto è risolto…), dovuti sia alla sua acuminata energia intellettuale che a ciò che lei definisce la “mia logica ebraica”, la mia “prudenza riflessiva”, che la difficoltà di trovare un equilibrio per quanto instabile fra l’autrice e l’attrice dei suoi stessi testi è sempre forte. Questo problema, nel suo bellissimo libro di memorie a sprazzi e flashes, è assolutamente chiaro alla signora Francesca Norsa, in arte Franca Valeri, convinta che “il destino non va mai perso di vista” perché le sue trame “sono all’impronta della viltà. Ci sono degli eletti che individua e prende di mira, approfittando della loro indifferenza”.

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