26.7.11

Geografia del pollo (di Serena Milano - da "Geograficamente")

“Geograficamente – conservazioni e conservazioni virtuose del territorio” (http://geograficamente.wordpress.com/) è il nome del sito dell’associazione omonima nata per iniziativa di persone che si sono conosciute a Padova, al Dipartimento di Geografia: laureati in Geografia, studenti, appassionati .
Vorrebbero creare competenze specifiche innovative per ridare dignità e valore al lavoro del Geografo, come figura di conoscenza dinamica dei territori e delle genti che li abitano. In particolare aspirano a individuare per la Geografia una identità chiara. L'associazione è presieduta da Sebastiano Malamocco.
Non sono uno specialista, anche se ho per alcuni anni insegnato geografia alle Magistrali. Mi è sembrato allora che la materia fosse ingiustamente e stupidamente trascurata, oltre che malamente insegnata. Pare che oggi abbiano addirittura eliminato la geografia dal quadro delle discipline scolastiche.
La mia impressione dopo la visita del sito è che l’Associazione appena costituita abbia come binomio “geografia e politica”, intendendo per politica non già l’ignobile, incommestibile sbobba che il ceto dei politicanti - e quelli dei costruttori, dei cementieri, dei cavatori eccetera - ci propinano, ma l’impegno da cittadini per la comunità. Una cosa tuttavia mi è dispiaciuta, il Territorio con la lettera maiuscola. M’è sembrata scelta un po’ leghista. Ma a dei geografi si può perdonare. A chi se non a loro?
Nel sito ho trovato post su temi molto interessanti: dall’Aquila all’Africa, dalla Tav alle immigrazioni. Ne riprenderò per stralci alcuni in questo blog. Ovviamente citerò la fonte e, quando indicato, l’autore, cominciando da questo sulla Geografia del pollo, di cui ho ripreso una parte, opera di Serena Milano dello Slow Food.
Aggiungo una nota personale. I promotori dell’associazione e i curatori del sito mi hanno reso, una volta tanto, orgoglioso della nostra università. Grazie grazie grazie. (S.L.L.)


Geografia del pollo
Geoalimentazione e atrocità sugli animali - Cambiare la struttura degli allevamenti e le proprie abitudini alimentari è necessario

Polli bionici
Il 21 maggio 2002 il National Post pubblica un’immagine desolante: un pollo vivo e vegeto, ma completamente nudo. Una razza fatta così, senza penne né piume, selezionata da uno scienziato israeliano per eliminare un passaggio e ridurre i costi di lavorazione. Non è soltanto una curiosità, il risultato mostruoso di un esperimento strambo, ma l’esito normale e inevitabile di una tendenza inaugurata già negli anni Cinquanta e giunta ormai al suo parossismo. Nelle vaschette del supermercato, oggi, ci sono polli creati con un unico obiettivo: accorciare sempre di più il tempo che divide il pulcino dalla crocchetta. Così, se un pollo ruspante ha bisogno di almeno cinque o sei mesi per diventare adulto, gli ibridi dell’industria sono pronti per il macello dopo 40, 50 giorni. E fra pochissimo – questione di mesi – uscirà sul mercato l’ultimo ritrovato, che raggiungerà il peso di due chilogrammi in soli 33 giorni.
Nel mondo sono quattro o cinque, non di più, le multinazionali che selezionano questi polli bionici: compagnie inglesi, canadesi, americane e francesi. Gli animali con le migliori perfomance si chiamano Ross, Cob, Hubbard, Warren Brown e così via. Da quarant’anni a questa parte hanno spazzato via tutte le razze locali.
Gli ibridi da carne sono “programmati” per essere pigri e costantemente affamati (crescono così in fretta che le zampe non riescono quasi a reggere il peso del corpo e la maggior parte ha problemi di deambulazione), mentre le galline ovaiole devono rimanere leggere e magroline, per produrre il maggior numero possibile di uova (ormai si arriva addirittura a 300 l’anno).

Che cosa mangia
Il pollo da carne non cresce, lievita letteralmente: grazie al lavoro di selezione, ma anche ai mangimi, che contengono percentuali di grasso che vanno dal 5 fino al 10-12%. Prima dello scandalo BSE erano sostanze di origine animale (scarti dell’industria della carne reperibili a costo zero), ora un’ondata “salutista” ha dirottato gli acquisti verso oli tropicali a bassissimo costo: di cocco e palma. Grassi saturi: sostanze che rimangono nel pollo per intasare le vene dei consumatori alla costante e ingenua ricerca di carne bianca e magra. Il resto del mangime è fatto di cereali (mais miscelato a orzo, frumento, sorgo…) mentre la fonte proteica viene principalmente dalla soia (che ha sostituito le farine animali). Soia di importazione, naturalmente. Solo una parte irrisoria è prodotta in Italia, mentre l’85% proviene dalle Americhe (Stati Uniti, Brasile, Canada e Argentina). Quasi sicuramente transgenica, quindi, ma d’altronde chi può controllare le migliaia di tonnellate di farina di soia che approdano ai porti di Savona e di Ravenna e ripartono sugli autotreni per i vari mangimifici? Dietro ci sono ancora una volta le multinazionali, giganti come Cargill e Monsanto.
Con i mangimi, poi, i polli ricevono la loro razione di antibiotici, spesso indispensabili per prevenire le numerose nuove patologie legate alla grande concentrazione dei capi. In un allevamento di centinaia di migliaia di animali, infatti, si diffondono con estrema rapidità epidemie di massa costosissime per le aziende. Proprio per questo, tra i vari animali allevati, i polli sono i più trattati. C’è da sperare che i controlli sui tempi di sospensione degli antibiotici (prima della macellazione) siano osservati regolarmente, ma il dubbio rimane, anche perché le analisi, per dare risultati, hanno bisogno di tempo (circa due settimane) e spesso, nel frattempo, i polli sono già in tavola.

Chi lo alleva
Le multinazionali forniscono gli ibridi e le materie prime. L’anello successivo della filiera dovrebbero essere gli allevatori, e invece no. Il mercato del pollo, in Italia ma anche nel resto del mondo, li ha ricacciati in un angolo relegandoli al ruolo di lavoratori a contratto, semplice manodopera. Pochissime grandi aziende (a integrazione verticale) possiedono i polli, i mangimifici, i macelli e le strutture di trasformazione. Tutto insomma, tranne la terra. Quel poco di spazio destinato ai polli è l’unica proprietà degli allevatori: loro mettono a disposizione i capannoni, ricevono i pulcini, i mangimi, le cure veterinarie e consegnano i polli pronti per il macello. 0,11-0,12 euro al chilo è la media dei ricavi. Nessun rischio di impresa, investimenti minimi, guadagni bassissimi e potere contrattuale nullo. Il mercato del pollo può oscillare, salire, scendere: la loro situazione non cambia.
Il 95% del mercato italiano, in pratica, è in mano a una manciata di aziende: Veronesi (proprietario del marchio Aia), Amadori (insieme coprono l’80%), i Fratelli Martini di Longiano (Fc), alcune cooperative sopravvissute in Romagna e pochi altri.
Negli anni Settanta e Ottanta c’erano ancora cinquanta aziende, poi sono andate in crisi una dopo l’altra e, via via, sono state assorbite dalle più grandi, che spesso hanno mantenuto i singoli marchi.
Così oggi poco più di tre gruppi producono e commercializzano oltre 400 milioni di polli da carne l’anno senza possedere un solo metro quadrato di terra.
Nessun altro settore dell’agricoltura ha visto per ora una tale concentrazione, ma pare sia questa la tendenza prossima futura dell’allevamento industriale. Se la formula degli allevatori a contratto riguarda il 95% del settore avicolo, infatti, in quello suinicolo ha già raggiunto un buon 35%.

Il mercato italiano
In Italia il mercato – dopo una ripresa legata alla fobia della mucca pazza – è di nuovo in crisi e il prezzo del pollo continua a scendere (ormai, non vale più di 0,70 euro al chilo). Per questo è vitale ridurre sempre di più i costi, e quindi la qualità dei mangimi, i tempi di crescita…
I guadagni delle grandi aziende, in ogni caso, non sono legati alla semplice vendita dei polli. La fetta più importante dei ricavi arriva dal numero spropositato di prodotti pronti: dai cosiddetti trasformati di seconda generazione (vaschette di petti, di cosce…), di terza generazione (spiedini) e soprattutto di quarta generazione (polpette, cotolette impanate, arrosti, crocchette ripiene, fagottini, salsicce, wurstel…).
L’inversione di tendenza (i polli ruspanti, gli allevamenti biologici…) riguarda una porzione minuscola, una goccia nel mare e i prezzi, ovviamente, non sono competitivi: i polli dei Presìdi, ad esempio, non possono scendere sotto i 9 euro al chilogrammo (peso vivo), per ripagare agli allevatori il tempo, il lavoro, le materie prime. Ma la differenza non è fra due tipi di pollo: è fra un pollo e un prodotto industriale che con i suoi antenati ruspanti non ha più nulla da spartire.

Come vive
La vita di un pollo da carne dura sei settimane circa. Inizia in un grande incubatoio e prosegue in un capannone chiuso, una specie di tunnel: senza un pezzetto di terra, né un pezzetto di cielo, senza giorno né notte. La luce è elettrica, programmata per aumentare la produttività (mediamente rimane accesa 16 ore al giorno) e l’ambiente è climatizzato con ventilatori. Nell’allevamento più piccolo ci sono 20-30.000 polli, ma la media è molto più alta e, spesso, si arriva a un milione di capi: con una densità che va dagli 11 ai 18 animali per metro quadrato. Praticamente un enorme, fitto tappeto di polli.
Le galline sono più longeve (40 settimane o più) ma non per questo più fortunate. In Italia sono 46 milioni e producono oltre 13 miliardi di uova l’anno. Possono nascere a Cocconato d’Asti (in Piemonte) o a Faenza (in Romagna), dove operano le principali aziende che forniscono pulcini di ovaiole. Pulcini femmina ovviamente: i maschi quasi sempre sono eliminati nei primi tre giorni di vita (o con il gas oppure mediante una specie di tritacarne a lama) e, dopo il bando delle farine animali, si sono trasformati in un fastidio, un rifiuto da smaltire, un costo aziendale.
Le femmine, invece, fanno il loro ingresso nelle batterie: centinaia di gabbiette sistemate le une sopra le altre. In ogni gabbietta ci sono 5 o 6 galline e ognuna di esse ha a disposizione una superficie di 450 cmq (pressappoco un foglio da macchina da scrivere). Fino a quando muoiono hanno lo spazio sufficiente per tre movimenti: allungare il collo per mangiare, defecare, deporre uova. La leggera pendenza della gabbia permette all’uovo di rotolare su un nastro trasportatore senza sporcarsi. Dato che la densità e il caldo rendono nervosi e aggressivi gli animali, onde evitare fenomeni di cannibalismo, spesso si taglia loro il becco con una macchinetta entro la prima settimana di permanenza.

Uova e spazi
Dopo circa un anno le galline sono “esaurite”, ma esiste uno stratagemma per allungarne il ciclo produttivo: la cosiddetta muta forzata. Si riducono le ore di luce e si lasciano gli animali a regime alimentare ridotto per 11-14 giorni. Quando hanno perso tutte le penne, si ricomincia con le razioni normali di acqua e cibo: così ricominciano a deporre uova, per di più molto più grandi di prima. In questo modo sono utilizzabili per altri sei mesi. Al termine sono macellate e trasformate in omogeneizzati o altri preparati (non possono essere vendute intere perché sono troppo magre e sciupate).
Questo è il sistema più diffuso, ma esiste anche l’allevamento a terra (nei capannoni). Lo spazio a disposizione più o meno è lo stesso, ma non ci sono le gabbie.
Il 90% delle 221 uova che consuma mediamente ogni italiano in un anno arriva da strutture iperspecializzate come queste. Strutture dislocate principalmente nel Nord: la Lombardia da sola copre il 17%, il Veneto il 16%, l’Emilia Romagna il 15%, il Piemonte l’8%.
Una normativa europea (la direttiva 1999/74/CE del Consiglio del 19 luglio 1999) dovrebbe prevedere l’eliminazione delle batterie entro il 2012. In realtà, se si leggono bene i numeri, la situazione non migliorerà di molto.
Se oggi una gallina ha a disposizione 450 cmq, dal 2003 dovrà averne 550 e infine, dal 2012, 750. In questo spazio ci dovranno essere un nido, un posatoio (un’asticciola di 15 cm su cui salire), almeno 12 cm di mangiatoia, una lettiera e un dispositivo per levigarsi le unghie.
Numeri minimi, basta pensare che una gallina per stendere le ali ha bisogno (mediamente) di 893 cmq, per girarsi deve averne 1272, per arruffare le penne 873 e per toelettarsi 1151. Non parliamo poi di razzolare… un verbo che sta per scomparire dal dizionario.

Un allevamento inglese
Questa non è solo la fotografia dell’avicoltura italiana: pressappoco è quella di tutti gli allevamenti intensivi del mondo.
Nel mese di marzo del 2002 The Observer ha descritto nei dettagli il processo produttivo di un’azienda avicola inglese, una qualsiasi delle strutture che garantiscono il 90% degli 817 milioni di polli allevati ogni anno in Gran Bretagna. Per entrare ci vogliono cuffietta, tuta e stivali disinfettati. Tutto è computerizzato: luce, cibo, acqua, aria, temperatura. L’efficienza produttiva è migliorata a tal punto che oggi i polli costano meno di vent’anni fa (un pollo arrostito vale meno di una birra) e l’applicazione di rigide norme igieniche ha abbattuto i casi di salmonella. Durante le loro sei settimane di vita, i polli hanno due sole alternative, accovacciarsi gli uni sugli altri o rimanere in piedi, e non cambiano posto, né lettiera: così l’ammoniaca che sale dalla montagna di escrementi brucia loro la pelle lasciando tracce marroni che si possono notare ancora al momento dell’acquisto. Quindi passano al macello: entrano vivi, appesi per le zampe, e dopo due ore sono prodotti pronti (polpette, hamburger, wurstel): al ritmo di 15.000 l’ora, che significa un milione a settimana e 50 milioni l’anno.
Peter Bradnock, chief executive del British Poultry Council, descrive tutto questo con orgoglio: «L’industria avicola – spiega – è straordinariamente avanzata negli ultimi 5, 10 anni. Ora è molto più scientifica: abbiamo la migliore conoscenza tecnica mai avuta prima».
E non può non venire in mente la celebre frase di Nietzsche: «Il fine ultimo della scienza è la distruzione dell’uomo».

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