5.5.11

Fave, frittate ed interiora. Povere pance (di Loris Campetti)

Su uno dei supplementi de “il manifesto”, lo “Scritto e mangiato” del giugno 2008 dal titolo Povero picnic, realizzato in collaborazione con Slow Food, Loris Campetti, in un articolo dal titolo Pancia da quarta settimana, una sorta di viaggio nella cucina povera d’Italia, con una attenzione particolare alle ricette di recupero, spesso arricchite da una regione all’altra, non escludendo qualche variante da ristorante. Mi pare un limite l’assenza di ogni riferimento alla “conservazione”, che della cucina povera, specie nel mondo contadino, mi pare uno dei pilastri. Qui riprendo stralci la parte finale che contiene alcune gustose ricette e tratta di alcune famiglie di ricette. (S.L.L.)
Coratella
Una puntata nelle Marche, regione che meriterebbe una sosta decisamente più lunga, data la qualità della cucina che la caratterizza e la sopravvivenza di molti piatti della tradizione alimentare «povera». Un piatto che pochi conoscono è la polenta con le fave. Sgranate due chili e mezzo di piccole fave fresche e mettetele in una pentola in cui avrete fatto soffriggere in olio d’oliva tre o quattro cipollette fresche lavate e affettate, insieme a un mazzetto di finocchio selvatico e del peperoncino piccante. Bagnate con acqua calda o un po’ di vino bianco, spegnete il fornello quando le fave saranno ben cotte. A parte fate soffriggere qualche salsiccia fatta a pezzetti oppure della pancetta. Preparate la polenta con mezzo chilo di farina di mais possibilmente non raffinata e quando mancano cinque minuti alla fine della cottura aggiungete le fave con il loro sugo e la salsiccia (o la pancetta) mescolando bene. Il piatto è servito. Una variante che ci convince poco prevede che fave e maiale vengano messi a fine cottura nei piatti in cui è stata versata la polenta e in cui sarà stata creata una cavità capace di accogliere il condimento. Un bel colpo d’occhio, ma è migliore la prima versione.
Un piatto di recupero, tipico di tutto il Mezzogiorno italiano ma che trae le sue origini dalla tradizione napoletana, è la frittata di maccheroni, o in generale di pasta asciutta avanzata dal giorno
precedente. Il principio è molto semplice, il tempo di preparazione è breve, la professionalità necessaria a una buona realizzazione abbastanza alta, così come quella che serve per fare una buona
frittata senza lasciarla attaccare alla pentola o rovesciarla sui fornelli quando la si rigira. Spaghetti o rigatoni o quant’altro in materia di pasta, e con salsa di pomodoro e meglio ancora se trattasi di amatriciana, vengono versati in una grande terrina in cui sono state sbattute delle uova (uno a testa per ogni commensale). Il tutto va mescolato molto bene e arricchito con dei pezzetti di provola, o scamorza o comunque formaggi avanzati (la tradizione siciliana prevede invece un’abbondante grattugiata di pecorino) e un pezzetto di peperoncino fresco tritato. A questo punto si prepara la frittata con gli accorgimenti classici. Da Napoli la frittata di maccheroni è sbarcata in tutti gli italici lidi, fino a risalire il nord Italia insieme alle popolazioni migranti del sud. Originariamente era il pranzo tipico del muratore e comunque degli operai impegnati in lavori all’esterno, ma anche dei ragazzi in gita scolastica, nonché il modo migliore per affrontare una giornata sulla spiaggia. E’ importante pazientare un paio d’ore prima di fare il bagno, essendo lo “spuntino” decisamente impegnativo dal punto di vista della digestione…
Di piatti di questo genere potremmo citarne a bizzeffe. Per chiudere, però, vorremmo segnalare un’altra famiglia di ricette che trova applicazioni diverse dalle Alpi alle Piramidi, nonché dal Manzanarre al Reno. L’ingrediente base è costituito dalle interiora, tendenzialmente dell’agnello ma funzionano perfettamente anche il capretto, il maiale, la mucca, la gallina o il coniglio. Nell’Italia centrale così come in Molise, il piatto preparato in padella con un ricco cocktail di gusti (cipolla, aglio, peperoncino, salvia, foglia di alloro e buccia di limone) prende il nome di coratella che può essere cucinata anche con carciofi nella versione romana… A Roma l’uso delle interiora è molto diffuso dai tempi della “tirannide papalina”, quando i tagli migliori degli ovini e dei bovini finivano al di là del Tevere e al popolo non restava che recarsi al mattatoio per rifornirsi delle parti troppo rudi per i delicati palati papalini. La necessità aguzza l’ingegno, è proprio vero. Basti pensare alla pagliata, ai rognoni, alle animelle. La cucina a base di interiora è molto diffusa in tutta l’area del Mediterraneo, in Francia come in Nordafrica, nell’Europa centrale e nei Balcani (in Grecia vengono arrostite e si chiamano cocorezi). In Scozia, infine, uno dei piatti tipici è a base di interiora fatte a pezzettini, infilate nello stomaco di un agnello e cucinate con una quantità di whisky da ubriacare un intero battaglione di guerrieri.

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