7.4.11

I calcoli di Celso e la medicina nell'antica Roma.

Dal settimanale “L’Europeo” del 20 luglio 1985 riprendo un ampio stralcio di una recensione al Della medicina di Celso, che era stato appena rieditato da Sansoni nella storica traduzione di Dal Lungo. Breve e sugoso il pezzo contiene le informazioni essenziali sull’arte medica nell’antica Roma. (S.L.L.) 
 “Quindi il medico, dopo essersi tagliato diligentemente le unghie e unta la mano sinistra, introduce con delicatezza nell’ano del calcolitico indice e medio di tale mano; e mette sul basso ventre le dita della mano destra (sempre delicatamente perché se i diti dall’una parte e dall’altra si combinassero a premere il calcolo con troppa forza, non faccian male alla vescica)... Quando il calcolo è stato così trovato e, sempre con garbo delicato, lo si è spinto fino al collo della vescica, “deve farsi sulla pelle vicino all’ano un’incisione semilunare, appunto fino al collo, quindi un’altra trasversale, in modo che il canale dell’urina sia un po’ più grande del calcolo…”.
Vale la pena di ricordarla questa lezione di chirurgia per l’estrazione del calcolo, perché è la famosa “litotomia celsiana, o del piccolo apparecchio”, che fu preferita dagli urologi per secoli, fin quasi ai nostri giorni, per la semplicità delle pratiche successive, il limitato numero degli strumenti da impiegare (un coltello e un uncino) e il continuo richiamo alla “delicatezza” e al “garbo” con cui deve agire il chirurgo, per evitare “fistole troppo grandi, e possibili seri guasti alla vescica”.
Tutto ciò serve anche a chiarire con i fatti che questa ristampa della migliore delle traduzioni del De medicina di Aulo Cornelio Celso (quella del medico Angiolo Del Lungo, del 1904) non ha solo un valore storico: il manuale di Celso sulla medicina, vecchio di quasi duemila anni, non soltanto fu il testo più completo dell’arte medica romana nel suo breve momento di fulgore, ma si impose come un insegnamento essenziale per medici e chirurghi lungo più di 18 secoli. E Celso è ancora attuale come medico pratico e come docente della materia, per più versi: per il metodo appunto che porta il suo nome ( e per altri la riduzione dell’ascite mediante puntura dell’ombelico, i clisteri “nutrienti”, i primi interventi di chirurgia plastica su orecchie, labbra, naso), ma anche e più per la severa spinta morale che accompagna ogni sua lucida esposizione diagnostica e terapeutica.
Al medico viene continuamente ricordata da Celso l’esigenza di essere “disinteressato e non venale”, gli si ricorda di avere nelle cure “un occhio al male e l’altro alle residue forze del malato” (affinché non si ritrovi con l’operazione riuscita e il paziente morto), lo si invita a essere parco nell’uso dei medicamenti. E accanimento terapeutico, abuso di farmaci, iatrogenia (e avidità di guadagno) non sono forse tuttora i difetti da cui il bravo medico deve guardarsi?
“Ippocrate romano” fu definito Celso. Roma, in realtà. era stata priva di medici per quasi sei secoli dalla sua fondazione: i romani erano un popolo più dotato nell’arte di uccidere che in quella di medicare. e l’esercizio della medicina fu a lungo considerato spregevole, mestiere per schiavi (come tali vennero inizialmente trasferiti a Roma i grandi medici della Grecia). Nata con Asclepiade, subito decaduta, rialzatasi appunto con Celso e tornata – con la sola eccezione di Galeno – dopo di lui nell’ombra, la medicina romana non brillò né per grandi innovazioni né per duratura coerenza.
A tale disciplina Celso diede però una sistemazione analitica chiara, concreta, utile, esposta con uno stile che fu un modello esemplare di trattatistica.
Poiché nulla sappiamo di lui (tranne che visse “sotto Tiberio”: 14-37 dopo Cristo), se Aulo Cornelio Celso o invece solo un colto divulgatore resta ancora oggi un mistero. Il traduttore moderno del De medicina (che fu anche medico e storico) non ha un’ombra di dubbio. “L’opera è ricca a tal punto di pensamenti nuovi e tutti suoi propri” – scrive Del Lungo – nella prefazione – “da confermare con evidenza che il De medicina fu scritto da un eccellente medico pratico, il quale ha osservato e curato le malattie al letto degli infermi”.

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