17.3.11

Un profilo di Mario Rigoni Stern, il sergente nella neve (di Eros Barone)

Di Mario Rigoni Stern ho “postato” di recente una bella pagina sull’emigrazione (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2011/03/facce-di-casa-mia-di-mario-rigoni-stern.html) e il brano di un’amara lettera a Walter Binni sulla nostra patria disgraziata (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2011/03/mario-rigoni-stern-scrive-walter.html).
Qui propongo una lettura critica del capolavoro di Rigoni Stern, Il sergente nella neve, di Eros Barone. (S.L.L.)

Il cantore dell’epopea popolare e democratica degli alpini
La figura di Mario Rigoni Stern, scrittore di Asiago morto nel 2008 all’età di 86 anni, è legata indissolubilmente a quel capolavoro della narrativa basata sulle memorie di guerra, che è Il sergente nella neve (sottotitolo: Ricordi della ritirata di Russia).
Il racconto, scritto tra il 1944 e il 1945 e pubblicato nel 1953, si divide in due parti, Il caposaldo e La sacca, e narra  le vicende dell’autore, sottufficiale degli alpini, impegnato sul fronte russo e successivamente nella terribile ritirata dell’inverno 1942-1943. La prima parte descrive la guerra di posizione, scandita dai riti caratteri-stici della vita militare: il rancio, la posta, gli sfoghi nostalgici tra i commilitoni sui paesi di provenienza, il cameratismo, la pulizia delle armi. Spiccano i volti di tanti compagni che via via si andranno sempre più assottigliando, ognuno còlto in un par-ticolare atteggiamento o attraverso un’espressione dialettale, come Giuanin, la cui ricorrente domanda: “Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?”, è il ‘Leitmotiv’ del libro. In questa parte del racconto, accanto alle descrizione del paesaggio, la pianura russa dominata dal “Generale inverno”, più severo e incombente che mai, prendono spesso risalto squarci di altre realtà, come quella lontana e familiare delle vallate alpine e quella della stessa terra russa, quale si indovina sotto il manto uniforme della neve, e tanto simile all’altra nel mondo contadino che la pòpola. Quando giunge l’ordine della ritirata, quel microcosmo militare fatto di cose povere e di sentimenti semplici diviene quasi oggetto di un assurdo rimpianto: “Dalla trincea sentivo i passi degli alpini che si allontanavano. Erano vuote le tane. Sulla paglia che una volta era il tetto di un’isba giacevano calze sporche, pacchetti vuoti di sigarette, cucchiai, lettere sgualcite: sui pali di sostegno erano inchiodate cartoline con fiori, fidanzati, paesi di montagna e bambini”.
La seconda parte è interamente dedicata all’atroce ritirata dei reparti italiani, circondati dai russi, a cui quelli tentano di sfuggire rompendo l’accerchiamento con interminabili marce e assalti disperati. Ora ogni uomo è solo con se stesso in una lotta per sopravvivere che sembra non aver mai termine e in cui la morte gli cammina al fianco: “Ma quando finisce? Alpi, Albania, Russia. Quanti chilometri? Quanta neve? Quanto sonno? Quanta sete? È stato sempre così? Chiudevo gli occhi ma camminavo. Un passo. Ancora un passo”. I villaggi abbandonati si susseguono ai villaggi presi, le fughe si succedono l’una dopo l’altra nell’inferno ghiacciato delle notti, a quaranta gradi sotto zero; i compagni d’arme cadono quasi senza emettere un gemito, fino a Nikolajevka, il 26 gennaio 1943.
   E proprio nel fuoco di quella durissima battaglia il sergente, stremato, braccato e affamato, entra in un’isba e, prima ancora di avere il tempo di capire, scorge dei soldati russi seduti a tavola. Come in sogno, una donna gli offre da mangiare e, in silenzio, senza che nessuno dica o faccia qualcosa, tutti si concentrano nella consumazione del cibo: “Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini”. Qui Mario Rigoni Stern sembra evocare, descrivendo questo straordinario incontro fra soldati russi e soldati italiani in un’isba, l’archètipo, ad un tempo simbo-lico e reale, del ritorno nel ventre materno, che è lo spazio/tempo, situato prima della storia e oltre la storia, dove tacciono le armi e gli odi e dove dunque può avvenire la riscoperta, nel silenzio profondo, sacrale, che accompagna il pasto comune, della fraternità originaria che unisce tutti gli uomini. Sennonché pochi saranno, alla fine, i superstiti scampati a quella terribile avventura, il cui ricordo risuona nei nomi dei battaglioni che ne furono, ad un tempo, protagonisti e vittime: Tirano, Edolo, Vestone, Verona.
   Tra le non molte dedicate alla seconda guerra mondiale (l’altra, assai famosa, è quella di Giulio Bedeschi, intitolata “Centomila gavette di ghiaccio”), queste memorie colpiscono per l’asciuttezza, la sobrietà e la linearità, veramente classiche, della scrittura, che ricorda lo stile di Senofonte nell’“Anabasi”. L’autore non ha bisogno di ricorrere ai lenocìni della retorica per sottolineare il carattere epico dei fatti che racconta; si limita a descriverli, e in tal modo offre al lettore la possibilità di cogliere, senza effusioni sentimentali o intenerimenti pietistici, il valore morale e la grandezza umana degli umili protagonisti di una drammatica vicenda di popolo.

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