18.3.11

Ottocento. La complicata educazione di una poetessa (M. G. Guacci)

Della poetessa Maria Giuseppina Guacci (1807-1848), autrice di una celebrata Canzone per le donne italiche, De Sanctis scrisse: “In lei non sentite la donna”. Credeva di fare un complimento. Sposata con il fisico Nobile la Guacci tenne a Napoli uno dei salotti letterari più rinomati, che fu frequentato anche dal Leopardi. Sostenne le idee e le battaglie risorgimentali. Ho trovato straordinario per comunicativa e sincerità questo frammento autobiografico, tratto dalla Lettera a un critico, che ho rintracciato nell'antologia di Giuliana Morandini La voce che è in lei, Bompiani, 1980. (S.L.L.)
Un lavoro a maglia dedicato a Maria Antonietta Guacci
nell'albero di Natale 2010 di Palazzo Madama
dal sito "Sferruzziamo qua e là"
… Mio padre fu architetto, e non degli ultimi del paese, e dove io facessi alcuno conto della chiarezza del sangue, potrei dire essere stati i miei maggiori qualche cosa di più nobile, ma mio padre era un uomo onestissimo, e però non merita siffatto torto. Egli essendo fatto, dirò, di quella buona pasta antica, la quale ora del tutto è perduta, nulla pose mente alla educazione delle sue figliuole, sicuro che potesse essere assai ad esse il saper far la cucina e l’intendere ottimamente all’economia della casa; ed in spezialità di me voleva fare una buona massaia, e veramente mi avrebbe fatta felice, ma la fortuna che si apparecchiava di perseguitarmi volle altrimenti.
Fra gli otto ed i nove, io non leggendo altro che i cosiddetti libretti per musica incominciai ad accozzare sillabe e rime; mio padre ne ridea, mia madre amava che assecondassi la mia inclinazione naturale: in mia casa non veniva persona, né pur io sapeva essere al mondo una razza d’uomini che leggono sempre, e scrivono, e stampano, e l’uno con l’altro si lacerano; né credeva esservi un libro più alto e profondo delle opere del Metastasio.
A questo modo trassi la mia vita sino al tredicesimo anno dell’età mia; in questo tempo conobbi il poeta Piccinini, uomo di caldissimo ingegno, e di scarsissima coltura, il quale di per sé mi si offerse in maestro, e la nostra lezione era questa. Veniva il povero mio Piccinini due o tre volte nel corso di una settimana, e mi leggeva con una voce chioccia o alcuno brano dell’Ariosto, ovvero alcuna delle opere di Appiano Buonafede; spesse volte, nol niego, io sonnecchiava, moltissime volte non ne intendeva sillaba. Intorno al mio quindicesimo anno uno Schmidt mi aiutò a imparare un po’ di francese, e così me la passai fino al diciottesimo anno.
Io scriveva sempre, rubando i momenti alle mie donnesche occupazioni, principalmente scriveva di notte tempo, e mi ricordo che non mi metteva a letto, dove io non avessi fatto alcun verso.

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