6.3.11

Mark Twain e le cattive parole (di Alessandro Portelli)

Il quotidiano “la Repubblica” del 7 gennaio 2010, con un articolo di Paolo Gallori, dà conto ampiamente conto di una polemica linguistico-letteraria degli States.
Alan Gribben della Auburn University di Montgomery, appassionato studioso di Twain, ha curato l’editing per una nuova edizione di Huckleberry Finn, nel quale la parola nigger è stata sostituita da slave, schiavo. La spiegazione del professore è che nigger, il nostro “negro”, contiene oggi elementi di aggressività razzistica che al tempo di Twain non aveva. Oggi negli States si dà del nigger solo per offendere, altrimenti si parla di black o meglio ancora afroamerican, per rivendicare l’origine di questa grande parte della popolazione statunitense. Nel 1884 un nigger era semplicemente un nigger e per questo – sostiene Gribben - Twain nel suo Huckleberry Finn, usò l’epiteto per ben 219 volte.
La scelta del professore ha suscitato un vespaio e le critiche sono spesso assai dure. Per esempio, Sarah Churchwell, della University of East Anglia ha scritto: “I libri di Mark Twain non sono solo letteratura, sono anche documenti storici. E quella parola (nigger) è totemica perché codifica tutta la violenza della schiavitù. Nel libro Huckleberry Finn all’inizio è un razzista in una società razzista, alla fine cambia e abbandona quella società. Alterare il testo vuol dire impedire al libro di mostrare lo sviluppo morale del protagonista”. L’editor risponde: “Possiamo applaudire Twain per la sua capacità di registrare il linguaggio di una specifica regione durante uno particolare periodo storico, ma l’abuso di insulti a sfondo razziale portatori di distinte connotazioni di permanente inferiorità repelle i lettori del giorno d’oggi”.
In realtà Mark Twain non era un razzista e finanziò la nascente Naacp (National Association for the Advancement of Coloured People). Nello stesso Huckleberry Finn del resto si ironizza sul pregiudizio razziale. Ma il suo romanzo, nel tempo del “politicamente corretto”, è stato a lungo (e in vari Stati continua ad essere) nella lista dei libri più banditi o contestati negli Usa, stilata dalla American Library Association, proprio per il suo linguaggio. La casa editrice NewSouth, che ha sede in Alabama, ha motivato l’edizione “aggiornata” (e purgata) di Huckleberry Finn come la risposta alla tanta censura preventiva che ha portato il libro “in fondo alla lista dei classici di tutto il mondo”.
Lapidario è però sull'argomento Geff Barton, direttore della King Edward’s School di Bury St Edmunds. “E’ deprimente – afferma -, siamo diventati così facilmente scandalizzabili da non credere che i giovani sappiano distinguere il contesto di un testo. Arriveremo a insegnare anche una versione bonificata del Mercante di Venezia?”. E tuttavia, per quanto critici si posa essere con l’editor e con la casa editrice - anche noi lo siamo-, resta il fatto che l’approccio fondato sul “politicamente corretto” ha messo ai margini delle letture classiche degli studenti americani un vero capolavoro. Di sicuro qualcosa non funziona.
Da “il manifesto” dell’11 gennaio ho recuperato il punto di vista sulla questione di Sandro Portelli che qui riproduco. Mette in evidenza come sia l'edizione ripulita come la precedente emarginazione significano che, come evidenzia lo stesso linguaggio, il razzismo in America non è superato.
Approfitto di questo post per suggerire la (ri)lettura del magnifico libro di Twain, magari nella tradizione che Gianni Celati fa fatto per la Bur. (S.L.L.)
L’ultima pretestuosa polemica sul “politicamente corretto” che ci arriva dall’America è la riproposizione dell’annosa querelle sul linguaggio di uno dei capolavori di quella letteratura, Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain (1885): si tratta di proprietà di linguaggio perché nel libro compaiono parole indicibili; e di proprietà del linguaggio perché c’è oggi chi si adopera per sostituirle con parole proprie e più educate. E’ una vecchia storia, che comincia nel momento stesso dell’uscita del libro, ma che riproposta oggi parla anche di noi.
The Adventures of Huckleberry Finn è la storia di un ragazzino del Sud schiavista, orfano, marginale e vagabondo, che scappa sul fiume Mississippi insieme con uno schiavo nero di nome Jim, entrambi in cerca di una loro idea di libertà. Non è affatto sicuro che questa ricerca alla fine abbia successo, anzi il libro finisce in modo ambiguo e per molti deludente. Ma in una cultura occidentale che ha fatto poco e male i conti col proprio inestirpato razzismo, è bastato a fare di Huckleberry Finn uno dei pochi testi che lo raccontano con un minimo di coraggio e di articolazione. Questo – oltre al fatto che è stato scambiato fin dall’inizio per un libro per ragazzi - ha contribuito a promuoverne letture semplificate e riduzioniste, in cui il disorientato e fantasioso vagabondo Huck Finn viene appiattito in una specie di modello di ruolo dei buoni sentimenti e un’icona antirazzista.
Ma c’è un ostacolo: dall’inizio alla fine, per più di cento volte, Huck Finn usa una della parole più razziste del lessico americano: “nigger”, il termine insultante che bolla con disprezzo e disgusto gli afroamericani. E’ bastata questa parola per escludere il libro da molte biblioteche e scuole degli Stati Uniti, finché non è arrivato il genio che ha rimosso l’ostacolo: una nuova edizione del classico di Mark Twain curata dal professor Alan Gribben, infatti, cancella la incriminata “parola con la enne” e la sostituisce con quella apparentemente meno offensiva di “schiavo”. E’ un po’ come quelle edizioni vittoriane di Shakespeare ripulito di tutte le parolacce e i doppi sensi: potrebbe il Bardo essere volgare? e potrebbe l’icona Huck Finn usare parolacce razziste?
Ebbene sì: così parlavano quelli come lui in quei tempi e in quei luoghi e Huck non sarebbe credibile se parlasse in un altro modo. Faccio un esempio: dopo una discussione in cui è stato sconfitto dalla logica stringente del suo compagno di avventura, Huck conclude che “non puoi insegnare a un nigger a pensare”. Difficile pensare a una frase più razzista – ma se invece gli facciamo dire “non puoi insegnare a uno schiavo a pensare” o non ha senso o, se ne ha uno, è solo quello di confermare che gli schiavi sono intrinsecamente incapaci di pensare. A parte che un lettore minimamente attento capirebbe benissimo che quello che Huck realmente pensa è che “non puoi insegnare a un n- a pensare come me, come voglio io che pensi”. Quella che Huck scambia per inferiorità il libro ce la fa capire come differenza.
I ripulitori e i censori ben intenzionati sembrano non capire una cosa che dovrebbe essere ormai scontata per ogni insegnante, e per ogni lettore avvertito: una cosa è quello che dice un personaggio, e una cosa è quello che dice il libro (se un personaggio grida “Ti ammazzo!” vuol dire che il libro è favorevole all’omicidio? ). La meraviglia del libro sta proprio in questo spazio: fra la “coscienza” e il linguaggio di un ragazzino cresciuto e socializzato a credere che la schiavitù sia un fatto naturale e immutabile sancito dalla naturale inferiorità dei neri e dalle Sacre Scritture (basta sentire come parla suo padre e che cosa gli insegnano in chiesa) – e la mentalità di lettori che hanno avuto la fortuna di nascere quando la schiavitù era già stata abolita (ma il razzismo ancora no, e questo è il punto). Il libro dunque si regge su una poetica e una politica dello straniamento: Huck vede le cose attraverso lenti diverse dalle nostre, scambia la poetastra Emmeline Grangerford per una grande artista, e fino alla fine resta convinto che aiutando Jim a scappare lui non sta liberando uno schiavo ma lo sta rubando, sottraendo a una innocente vecchietta la sua legittima proprietà consistente in un essere umano. Huck non crede di guadagnarsi il paradiso degli eroi della libertà ma l’inferno dei ladri e dei vagabondi a cui si sente destinato fin dall’inizio: “e va bene, ci andrò, all’inferno”, dice dopo aver preso la sua decisione. Per rendere il libro rispettabile, bisognerebbe aggiustare anche questo e mandarlo in paradiso; o anche, tutte le volte che dice “rubare un negro”, fargli dire “liberare uno schiavo” (e dopo tutto, anche “hell”, inferno, è una parolaccia per gli anglofoni bene educati).
Ma Huck non agisce per convinzione antirazzista e antischiavista, ma per qualcosa di più profondo e più limitato – l’amicizia con Jim. Certo, questa è resa possibile dal superamento di certi stereotipi (ma pensa un po’, si dice a un certo punto, non avrei mai immaginato che anche i negri volessero bene ai loro figli!) ma non diventa mai una visione generale. “Ruba” Jim perché si accorge che è un essere umano, ma non riesce a desumere da questo un rifiuto dell’istituzione che gli nega l’umanità. E’ questa contraddizione, questo limite, che fa di Huck un personaggio diviso e quindi moderno anziché un pupazzo ideologico, e delle sue avventure un libro che ci chiede di pensare invece di rassicurarci. Quanto sarebbe più banale e consolatorio se alla fine Huck “prendesse coscienza” e diventasse un rispettabile eroe abolizionista – cioè, se alla fine pensasse lì e allora come pensiamo (o come ci illudiamo di pensare) noi adesso. E invece Huck non pensa e non parla come noi – ma siamo proprio sicuri che, alle strette, noi agiremmo come lui, che in violazione di ogni regola e legge ci giocheremmo l’anima per un singolo bracciante di Rosarno o per un migrante su un barcone nell’Adriatico?
Huckleberry Finn dunque non si può ricondurre né alla categoria tranquillizzante del politicamente corretto né all’ancor più ipocrita retorica del politicamente scorretto come segno di popolaresca autenticità. Il linguaggio di Huck è un campanello d’allarme: ci avverte che quando il razzismo si fa senso comune arriva a contaminare anche le persone più “innocenti”, comprese le nostre, e che quindi dobbiamo tutti stare in guardia. Ripulirlo significa negare questo rischio incombente, coprire il sintomo e lasciare intatta la malattia, e lasciarci più indifesi davanti al cattivo senso comune che ci assedia.
Qualche giorno fa ho ricevuto un e mail da una studentessa rumena che aveva seguito dei seminari su Huckleberry Finn (e su un testo ancora più complicato, Benito Cereno di Melville). In breve e con cognizione di causa diceva: oggi di schiavi e di negri non si parla più, ma la schiavitù e la discriminazione esistono, basta parlare un’altra lingua o essere di un’altra religione. E allora, è vero che non sono cose separate, ma una cosa è fare attenzione alle parole, un’altra è fare attenzione al modo di pensare e di rapportarsi: la differenza fra ipocrisia e correttezza politica è quella che esiste fra parlare pulito e pensare pulito. Perché finché le abbiamo dentro, anche se cancelliamo le parole, le pulsioni ne troveranno altre per venire alla luce. In fondo, fino a qualche tempo fa, la lingua italiana non possedeva un equivalente di questa parolaccia razzista inglese: anche “negro”, come ha ricordato sulla Stampa un americanista importante come Claudio Gorlier (autore negli anni ’60 di una pionieristica Storia dei negri d’America) è diventato un insulto solo quando abbiamo cominciato a trattare gli immigrati africani come esseri di seconda categoria. E allora abbiamo inventato le parole che ci mancavano (“vu’ cumpra’”) e riciclato quelle che avevamo: “albanese” è stato sinonimo di “scemo”, tutte le parole usate per designare i rom si sono macchiate di odio, e l’Italia è piena di gente che dice “gay” e pensa “frocio”.
In entrambi i grandi romanzi di Mark Twain, Le avventure di Tom Sawyer e Le avventure di Huckleberry Finn, c’è una scena in cui qualcuno imbianca uno steccato. E’ una metafora molto eloquente nelle sue risonanze bibliche: una mano di bianco a coprire il fatto che dentro di noi, steccati imbiancati, non cambia niente, anche se non si vede più.

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