1.3.11

E' il Terziario la classe generale del XXI° secolo? (di Franco Bianco)

Nel sito “Paneacqua”, che si presenta come un plurisettimanale di appunti per le culture progressiste ( http://www.paneacqua.eu/ ) sono apparsi dal 22 al 25 febbraio tre articoli firmati da Franco Bianco che pongono, in modo insolitamente perentorio e chiaro, il tema del “soggetto sociale” della trasformazione e propongono una nuova ipotesi di “classe generale” che rompe con la tradizione marxista. Non si tratta di tesi nuove e le critiche a Marx partono da presupposti inesatti. Ma il problema che Bianco pone non è tanto filologico, quanto teorico e politico; e non riguarda il “che cosa ha detto Marx” (e aggiungeremmo noi “quale Marx l’ha detto”, perché ce n’è più d’uno) ma il che fare dell’oggi per chi voglia cambiare il mondo. Per comodità mia (e spero di qualcun altro), con qualche riduzione che non riguarda l’essenziale, ho messo insieme i tre articoli, facendone uno che qui propongo, con l’intenzione di ritornare sopra il tema con altre riflessioni altrui e mie. (S.L.L.)
La classe operaia è ancora universale?
Una frase famosa ha guidato la sinistra da oltre centocinquant'anni: "I filosofi hanno finora interpretato il mondo. Si tratta adesso di trasformarlo". E' la nota "undicesima tesi su Feuerbach", di Carlo Marx, che fu scritta nel 1845 e guidò tutta l'attività di studio del grande pensatore. Come riteneva Marx che si potesse dar luogo alla "trasformazione" del mondo, per arrivare al "cambiamento dello stato di cose presenti"? Individuando un "soggetto storico" che potesse divenire il motore del cambiamento. Nella sua visione della società divisa in classi, quel soggetto destinato ad essere il protagonista della trasformazione era la "classe operaia", quel "grande proletariato di fabbrica, che nel secondo Ottocento aveva già cambiato con le sue masse il panorama sociale inglese, e si apprestava a farlo con quello del resto d'Europa", come scriveva in un saggio abbastanza breve, ma intenso, Aldo Schiavone ("I conti del comunismo", Einaudi 1999). Nella visione marxiana, "tutti i parametri tradizionali sarebbero saltati. Si sarebbe sprigionata una forza invincibile. Nulla più avrebbe potuto fermarla. Un mondo nuovo non aspettava che di nascere" (Schiavone, ivi). La "classe operaia" acquisiva un valore universale, assurgeva al rango di "classe generale": la sua liberazione avrebbe segnato la liberazione dell'intera umanità e la nascita di una nuova società, costituita da una comunità di "liberi ed eguali".
Non è sulla fondatezza della previsione marxiana che si intende qui riflettere, quello che interessa in questa sede richiamare è che il ruolo che Marx considerava proprio della "classe operaia" discendeva da una visione fortemente "industrialista" della società, non solo di quella dei tempi in cui lo scienziato di Treviri scriveva ma anche di quella futura. Per Marx «il lavoro della fabbrica capitalista era l'unico modello possibile di ogni lavoro moderno»; egli, dice Schiavone, «non è mai arrivato a pensare che la centralità della fabbrica fosse solo un fenomeno, per quanto grandioso, votato prima o poi a sparire socialmente nei paesi più avanzati, e che tutto il sistema della grande industria individuasse soltanto una fase transitoria dello sviluppo capitalistico». Da qui la centralità della "classe operaia" ed il ruolo storico di cambiamento che le competeva: se la produzione di ricchezza avveniva essenzialmente in fabbrica, i produttori materiali - gli operai - erano destinati ad essere gli artefici del cambiamento (semplificando al massimo, non se la prendano i cultori di Marx).
E' questa la visione che ha informato, storicamente, tutta l'attività della sinistra sia politica che sindacale, e che ancora oggi costituisce, anche se non esplicitamente ammesso, la ragione della focalizzazione dell'attenzione sul mondo operaio, sulle condizioni di lavoro, sui diritti riconosciuti o negati, sugli aspetti normativi e retributivi più di quanto si faccia per qualunque altra categoria. E' una visione ancora valida? Quella "focalizzazione" operaia, che comporta un interesse più ridotto e meno coinvolgente per gli altri lavoratori, ha ancora una "funzione propulsiva", oppure fa perdere di vista obiettivi ancor più importanti, se è lecito fare una graduatoria di importanza quando si discute di questioni che riguardano la vita di milioni di persone? In modo ancora più diretto e stringente: la classe operaia - ammesso che si possa ancora parlare di classi nel senso marxiano, ciò che molti pensatori e politici anche di sinistra, ed anche della sinistra cosiddetta "radicale", negano ormai da tempo - è ancora quella che può portare il vessillo del lavoro? Oppure sono altre le mani che possono più efficacemente farlo, a vantaggio dell'intero mondo del lavoro?

Il baricentro del lavoro
Per provare a rispondere a tale domanda conviene partire dai numeri.
Dai Censimenti generali della popolazione, effettuati dall'Istat, risulta che le percentuali dei lavoratori (arrotondate) per settore di attività - per le categorie Agricoltura, Industrie (che comprende, oltre ai settori manufatturieri, anche Artigianato ed Edilizia) e quello che oggi chiamiamo Terziario (definito dall'Istat come "Altro", cioè Non-Agricoltura e Non-Artigianato), che esaurivano l'universo complessivo del lavoro - erano, negli anni indicati, rispettivamente le seguenti: 1951: 42/32/26; 1971: 17/45/38; 1991: 8/35/57 (dati in %).
Si vede già da questi dati come il Terziario sia andato velocemente aumentando, sì da rappresentare già nel 1991 la maggioranza assoluta dei lavoratori. In numeri assoluti, nel 1991 l'industria occupava 7.600.000 lavoratori, il Terziario oltre 12 milioni (si tratta di numeri complessivi, senza distinzione fra lavoratori dipendenti ed autonomi). La tendenza si è ancor più confermata e rafforzata negli anni successivi. In un suo testo del 2008 Aldo Carra, che è stato il direttore dell'Osservatorio congiunturale dell'Ires-Cgil, riporta che gli occupati dell'Industria erano diminuiti a circa 7 milioni (28% del totale, arrivato a 25 milioni), mentre quelli del Terziario erano aumentati a circa 17 milioni (68% del totale).
Guardiamo le cose dal lato della ricchezza prodotta. Nel suo ultimo testo, appena uscito (Oltre il Pil, Ed. Ediesse 2010), Aldo Carra riporta, proprio in apertura, la composizione del Pil fra i settori Agricoltura, Industria e Terziario. Essa risulta essere, rispettivamente, del 2/25/73 %. La ricchezza, quindi (per quanto è definito dal Pil), viene ormai prodotta in grandissima parte dal settore Terziario, che sta in un rapporto addirittura di circa 3:1 (73 a 25) con l'Industria.
E' una situazione riscontrabile in tutti i Paesi più avanzati, e che è destinata a crescere ancora. In un suo bel testo (La malattia dell'Occidente. Perché il lavoro non vale più, Laterza 2010) Marco Panara cita una osservazione di Robert Reich (docente a Berkeley/California, ex segretario del Lavoro con Clinton), secondo il quale «I servizi interpersonali - dai camerieri ai commessi dei negozi, dalle badanti ai guardiani, agli inservienti degli ospedali, ai parrucchieri, alle segretarie - sono l'area nella quale si è creata negli ultimi decenni la grande maggioranza dei nuovi posti di lavoro, e che ne creerà ancora, soprattutto nel settore dell'assistenza con il progressivo invecchiamento della popolazione». Ma questa è, in qualche misura, la parte buona della notizia. Quella cattiva è che «nella grande maggioranza dei casi si tratta di lavori che non richiedono una elevata scolarizzazione, sono occupazioni spesso part-time o precarie, con poche garanzie, che offrono redditi bassi e sono esposte ad una concorrenza sfrenata»: Reich parla degli Usa, ma sappiamo bene che quelle considerazioni valgono tal quali anche da noi. Si tratta di tendenze generali, di fenomeni, anche questi, "globali".
Tutto questo denota un vero e proprio spostamento del baricentro del lavoro da quello manifatturiero a quello che, nel suo insieme, definiamo Terziario. Non è (non letteralmente) la "fine del lavoro", come ha scritto Jeremy Rifkin in un suo famoso testo del 1995, ma è sicuramente il progressivo abbassamento dell'intensità e della domanda di lavoro, in una traiettoria inarrestabile: dalle grandi concentrazione operaie della fabbrica fordista alla produzione snella ("lean production") della fabbrica toyotista, e progressivamente l'ulteriore sempre minore necessità di operai specializzati, grazie anche alla presenza dei robot che suppliscono alla loro presenza, e che sono controllabili, grazie alla moderna tecnologia, anche da un'altra parte del mondo (vedi Marco Revelli in Sinistra/Destra Laterza 2007 ). Appare perciò evidente che il destino assegnato da Marx al lavoro industriale - il luogo pressoché esclusivo della produzione della ricchezza - è stato del tutto diverso da quello immaginato.
Ma allora perché la sinistra politica e sindacale si ostina a considerare il lavoro in fabbrica come quello al quale rivolgere, e far rivolgere, il massimo dell'attenzione? Perché si ostina a ritenere, e ad affermare in ogni occasione, che la fabbrica costituisce una sorta di trincea della modernità, e che in essa si gioca una partita fondamentale, addirittura le sorti della democrazia sociale? Sia chiaro: tutti i lavoratori, in qualunque settore si trovino, hanno esigenze che vanno riconosciute e diritti che vanno affermati, difesi e fatti rispettare (cose tutt'altro che facili, oggi più che mai). Ma non è sbagliato ritenere che la trincea del "lavoro", del lavoro senza specificazioni, sia nella fabbrica? Non si può negare che la categoria operaia goda di un'attenzione assolutamente impari a quella riservata a qualunque altra. E allora: non si rischia di perdere di vista la realtà delle cose? Di ritenere che la democrazia si giochi nei rapporti di fabbrica, mentre forse la partita si svolge altrove, e cambiano le regole senza che ce ne accorgiamo (se non è già avvenuto)?

Un cambio di prospettiva
Giova appena notare, come scrivono Marcello Cini e Sergio Bellucci nel loro Lo spettro del capitale (Ed. Codice, 2009), che «la "produzione immateriale", e in generale tutta quella nell'era della società della conoscenza, è caratterizzata da un ciclo totalmente diverso da quello delle merci materiali nel periodo industriale fordista. Le differenze sono molteplici. La prima è che la produzione immateriale non ha né tempo, né luogo» (al contrario della fabbrica, che ha solide fondamenta materiali - un luogo preciso - e la cui vita si sviluppa attraverso tempi assolutamente definiti). Siamo nel terziario, quello cosiddetto "avanzato", punta di diamante del settore. Ma sempre Terziario.
A parere di chi scrive, questa situazione dovrebbe indurre ad un cambio di prospettiva, che fosse da un lato adeguato ai tempi; dall'altro portasse, quel cambio di prospettiva, ad adottare strategie che riuscissero a difendere efficacemente la qualità ed i diritti del lavoro, partendo dall'individuazione del soggetto sociale che meglio rappresenta quell'universo (o "pluriverso") complessivo.
Fuori dai denti, e per quanto possa suonare "eretico", la realtà delle cose dimostra che la (mitica) "classe operaia" non è più quella le cui sorti determinano o trainano le condizioni degli altri settori lavorativi («Il passaggio storico degli anni Ottanta ha archiviato l'illusione che possa esistere una classe sociale per sua natura rivoluzionaria» ha scritto Gad Lerner, con esplicito riferimento alla "classe operaia", nell'introduzione alla nuova edizione di Operai, un suo libro di circa 25 anni fa, rieditato nel 2010 da Feltrinelli). E continuare ad attardarsi in un'ottica novecentesca - quella, appunto, della grande fabbrica fordista - è sbagliato e finisce con l'essere dannoso perché si oppone all'assunzione di comportamenti che potrebbero consentire risultati positivi per la vita e le condizioni di lavoro di tutti i lavoratori.
Eppure, come si è già detto, l'attenzione sociale che ai primi viene dedicata è molto minore di quanto accada per i lavoratori industriali, ed in particolare per quelli della meccanica. Eppure, le condizioni di lavoro nel settore Terziario - con l'esclusione di quelle degli impieghi pubblici - sono, nella massima parte dei casi, peggiori - e non di rado anche molto peggiori - di quelle dell'Industria (un esempio, simbolico ma significativo: il 1° Maggio che si avvia ormai a diventare lavorativo per i negozi dei centri delle città). Come ha scritto Reich (è stato richiamato nell'articolo precedente), «Nella grande maggioranza dei casi sono occupazioni spesso part-time o precarie, con poche garanzie, che offrono redditi bassi e sono esposte ad una concorrenza sfrenata». Appunto.
Ma c'è dell'altro: ferma restando la giustezza dell'impegno sociale, civile e sindacale verso gli operai dell'industria, il grosso dei lavoratori odierni sta da tutt'altra parte, ed è là, in quell'altra parte, che si giocano i rapporti sociali ed in buona misura la stessa democrazia. Una società nella quale la parte preponderante dei lavoratori gode di diritti reali limitati (non quelli statuti nei CCNL, quando ci sono: quelli reali dei rapporti quotidiani di lavoro) è una società nella quale la qualità della democrazia è bassa; e siccome una società è assimilabile ad un sistema di vasi comunicanti, quello che avviene da una parte tende a farsi sentire anche dalle altre parti. A maggior ragione, quello che avviene nel settore di gran lunga più importante, ed è il Terziario (68% dei lavoratori complessivi), tende a livellare prima o poi sulle sue condizioni quelle degli altri settori. Significa, in parole semplici, che se i lavoratori del 68% (i servizi) stanno in certe condizioni di remunerazione e di rapporti di lavoro, quelli del 32% (tutti gli altri messi assieme) non potranno evitare che prima o poi quelle condizioni si stabiliranno anche per loro, o ad esse tenderanno. Le condizioni che valgono per i lavoratori più numerosi in certo senso "assediano" tutti gli altri e prima o poi finiranno con trascinarli a sé (i "vasi comunicanti"), poiché gli equilibri di un sistema tendono a stabilirsi al livello più basso, quello che richiede la minore spesa di energia. E quello che sta avvenendo nel settore industriale, e metalmeccanico in particolare, è una conferma evidente di questa pur sbrigativa analisi, inevitabilmente un po' approssimativa. Si è sostenuto per decenni - e non senza ragione, negli assetti produttivi precedenti - che le condizioni degli operai avrebbero trainato tutte le altre su livelli migliori: non è più vero, è anzi vero il contrario. Perciò occorre quel "cambio di prospettiva".
Ed inoltre: la "globalizzazione neoliberista" ha stravolto i rapporti di forza fra aziende e lavoratori, a tutto svantaggio di questi ultimi. La libertà di circolazione dei capitali, aiutata dalle conquiste tecnologiche, consente alle imprese di "inseguire" il lavoro dove esso costa meno ed è meno protetto; ne consegue che esiste una minaccia immanente, quella della "delocalizzazione”, il ricatto odioso al quale spesso i lavoratori sono esposti. Il capitalismo ha certamente molti problemi, ma resta ancora fortissimo nei rapporti industriali. Martello contro incudine.
Ebbene, nella massima parte dei casi nel Terziario non è così, poiché sono vincolati ai "luoghi" sia le imprese che i lavoratori, e la minaccia della delocalizzazione non può essere brandita. Questo dovrebbe e potrebbe essere un punto di forza notevole, o perfino decisivo, per i lavoratori del Terziario; e siccome "tutto si tiene", se si riuscisse a stabilire condizioni di lavoro dignitose per quel 68% questo non potrebbe non avere influenza anche per tutti gli altri. E' perciò utile, è opportuno, è necessario, che avvenga quel "cambio di prospettiva".
Forse le "classi" esistono ancora, o forse no: come che sia, l'unica classe, se così la si vuol chiamare, che può essere ritenuta "classe generale", nel XXI secolo, è la (inedita) "classe terziaria".

1 commento:

Anonimo ha detto...

Giusto la classe generale è la classe media formata da operai e terziario non specializzati

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