26.2.11

Il difficile nodo della Libia (di Antonio Moscato)

Questo testo tra analisi e memoria è tra le cose più interessanti e serie che abbia letto sulla Libia, sul suo passato e sul suo presente. Ne è autore uno storico militante trotzkista della Quarta, Antonio Moscato, dal cui sito "Movimento Operaio" l'ho ripreso. Non saltate la postilla: contiene la previsione più allarmante, quella per cui dovrebbe cominciare una mobilitazione. (S.L.L.)
Non volevo intervenire sulla rivoluzione avviata in Tunisia e dilagata in una vasta area del mondo arabo. In realtà se c’è chi si aspetta sempre che io commenti l’attualità sul sito, e me lo fa sapere, c’è anche chi invece mi ha criticato per la frettolosità di alcuni articoli; ad esempio per la breve nota su Gli Emiri del Golfo (e poteva dire lo stesso anche per le note precedenti sugli stessi temi, troppo legate alla polemica con Frattini e Maroni sulle “invasioni bibliche”…).
Inoltre una rivoluzione in atto va prima di tutto descritta, e lo fanno bene molti giornalisti come Michele Giorgio o Robert Fisk, che le seguono da vicino, senza poter fare neppure loro troppe previsioni. Soprattutto per la Libia, in cui la distruzione delle opposizioni ha reso particolarmente difficile immaginare gli assetti futuri, nel caso di un tracollo totale e definitivo del regime. Ci sarà tempo per commentare, comunque vada a finire…
Tuttavia volevo aggiungere qualcosa a quello che ha scritto Luciana Castellina su “il manifesto”, che è peraltro largamente condivisibile nella prima parte, un po’ meno – ovviamente – per la forte nostalgia per il mondo bipolare nella seconda. La messa a punto iniziale ha un senso, per rispondere alla sciocca polemica reazionaria, fatta dalla Lega, dall’IDV, dai radicali e da gran parte del PD, contro gli accordi con la Libia firmati da Berlusconi. Accordi nella sostanza dovuti, perché il danno apportato a quel paese con la conquista, la repressione, e una cruentissima partecipazione alla seconda guerra mondiale, è stato enorme. Ne avevo scritto più volte in Gli errori di Gheddafi e i crimini dell'Italia, Dopo la visita di Gheddafi, Italia e Libia, un rapporto pericoloso. Quello che era inaccettabile non era solo il bacio della mano, le parate istrionesche, le gheddafine che a pagamento andavano a sentire un’incomprensibile lezione sul Libro verde, ma anche i criteri con cui questo “risarcimento” è stato concepito a beneficio prevalente dei nostri predoni (Impregilo, ENI, ecc.) e contraccambiato dal regime di Gheddafi con un ruolo di brutale polizia delle frontiere europee nel Mediterraneo e nel deserto libico.
Anche io sono stato più volte in Libia, come storico interessato alla guerra di Libia, con delegazioni organizzate da Guido Valabrega, in cui c’erano studiosi ma anche alcuni “nostalgici del socialismo reale”, che si fermavano incantati ad ascoltare i propagandisti del regime. In ogni caso avevamo avuto modo di valutare diversi aspetti dell’organizzazione del paese. Ero più di altri infastidito da tutti gli aspetti di retorica e di inutile sceneggiata che ci esibiva alcune presunte vittime degli italiani, che ci venivano riproposte ogni volta, ma non potevo fare a meno di riconoscere anche alcune conquiste culturali importanti. Ad esempio sulla guerra italo libica era stato costituito un centro studi, Markaz al Jihad, che guardavamo con fondata ammirazione: mobilitando migliaia di insegnanti elementari erano state visitate in poco tempo 600.000 famiglie (praticamente tutta la popolazione sotto la dominazione italiana) raccogliendo testimonianze orali, copiando documenti e foto; tutto il materiale veniva poi pubblicato su una rivista del Centro. Magari si potesse fare in Italia qualcosa di simile per la Resistenza, pensavamo con qualche invidia…
Ma poi ci portavano anche ogni volta a visitare la casa di Gheddafi bombardata dagli USA, e soprattutto ci trascinavano al “Centro per il Libro Verde”, dove eravamo infastiditi dalla grottesca apologia di quel testo fatta dai burocrati che ci accoglievano. Ci facevano visitare lo zoo o il meraviglioso planetario con tante sale per conferenze piene di studenti, in cui si poteva studiare il cielo in una qualsiasi località e in qualsiasi data scelta. Bellissimo, altri paesi del Terzo Mondo non lo avevano, ma capivo che era solo un fiore all’occhiello del regime, che non impediva ad alcuni di noi di accorgersi di altre contraddizioni stridenti. Ad esempio del fatto che negli alberghi il personale era praticamente tutto non libico: egiziani, tunisini, ma anche molti provenienti dal Sudan e da altri paesi dell’Africa sub sahariana. La sensazione era che la maggior parte dei libici non facesse nessun lavoro manuale, ma avesse qualche rendita o stipendio. Un dato che può pesare anche nei conflitti attuali.
Sono d’accordo con Luciana Castellina che quella rivoluzione aveva inizialmente suscitato grandi attese, sia perché arrivava quando già quella algerina, che aveva rappresentato per la generazione di Luciana (e la mia) una speranza di una svolta radicale nella rivoluzione anticoloniale, era entrata in una fase involutiva con il golpe di Boumedienne contro il Ben Bella del controllo operaio e dell’autogestione. Ma era anche arrivata alla vigilia del triste tramonto di Nasser, forse non ucciso come ipotizza la Castellina, ma certo schiantato dalla sua incapacità di fermare il massacro dei palestinesi in Giordania, in quel terribile “settembre nero”. Di quelle rivoluzioni, oggi dimenticate e abitualmente denigrate dall’uso politico delle ricostruzioni storiche (televisive), Gheddafi voleva apparire e sembrava erede legittimo, rivendicando i diritti sul proprio sottosuolo e cacciando le basi britanniche e statunitensi.
Non era un crimine seguirlo con interesse ancora negli anni Ottanta, soprattutto se contemporaneamente si tenevano gli occhi aperti di fronte ai primi sintomi di processi involutivi. In definitiva si poteva avere verso la Libia l’atteggiamento che si aveva verso i paesi del socialismo reale (a cui per alcuni aspetti marginali somigliava), che si osservavano criticamente, senza demonizzarli.
D’altra parte non potevamo ignorare che anche il vescovo italiano di Bengasi (che pure aveva avuto problemi con i comitati rivoluzionari, che lo avevano arrestato), segnalava sull’Adige di Verona che in Italia non ci sognavamo neppure le ottime strutture ospedaliere gratuite che c’erano in Libia… Ma poi in quegli ospedali era scattata un’orribile caccia all’untore, che aveva attribuito a cinque infermiere bulgare e un medico palestinese la responsabilità di aver provocato deliberatamente il contagio con il virus HIV tra centinaia di bambini. Si era già nel 1999!
Ora, in questo penoso declino del regime, anche prima dei massacri, e già durante le ultime penose performance italiane del Gheddafi rivale di Putin nel cuore di Berlusconi, mi sono domandato se era stato un errore o una colpa visitare quel paese qualche decennio fa, senza farne alcuna apologia (che per giunta non ci veniva richiesta come avveniva invece a Pechino e Tirana), ma anche senza demonizzarlo. La risposta è che non lo era: penso ancora oggi che fosse giusto che tra l’Italia colonialista e la Libia aggredita si parteggiasse per la vittima, anche se i suoi governanti del passato e recenti non ci piacevano (ma che dire quelli italiani di allora e di oggi, d’altra parte?). In ogni caso noi ci andavamo solo per contribuire alla ricostruzione delle vicende di quella guerra terribile, che preparò l’involuzione autoritaria del nostro paese, servì da prova generale per trascinare l’Italia nella “Grande Guerra, e per certi aspetti il fascismo. Non a caso la sua storia è stata oscurata e rimossa: tutti gli studenti italiani sanno ad esempio che quella guerra cominciò e finì nel 1911, e ignorano quindi gli orrori e i massacri che la contrassegnarono nella fase che si concluse con l’impiccagione di Omar al Mukhtar nel 1932.
Era anche facile e necessario reagire alle demonizzazioni razziste, come quella della Fallaci, e al disprezzo per gli aspetti esteriori dell’istrionismo del “Beduino”. Altra cosa era invece la dissociazione indispensabile dalla politica internazionale della Libia, spesso altalenante e che a volta a volta appoggiava e poi abbandonava i movimenti intransigenti (palestinesi e non solo…), usando lo stesso terrorismo come arma tattica per i suoi ricatti.
Difficile prevedere cosa potrà accadere, a breve scadenza, sia perché le opposizioni sono state cancellate e comunque rese non visibili, sia perché il potere dei clan, prima contestato per decenni nella fase modernizzatrice, è stato poi rimesso in vigore da Gheddafi come valvola di sicurezza, con un processo analogo a quello che caratterizzò l’agonia del regime di Siad Barre in Somalia. Assurdo lo spauracchio del fondamentalismo evocato (accanto a quello dell’esodo biblico), da Berlusconi e dal suo cameriere Frattini in ogni momento e per ogni situazione. Ma in Libia tuttavia potrebbe più facilmente che in Egitto o in Tunisia apparire davvero dietro le bandiere della monarchia senussita che stanno dilagando in Cirenaica, ma compaiono anche a Tripoli. Ricordarlo non vuol dire minimamente giustificare Gheddafi, dato che indubbiamente è stata proprio l’assenza di meccanismi che consentissero l’emergere di proposte diverse e la loro dialettica ad aver provocato l’irrigidimento e poi l’esplosione incontrollabile della società libica (dovuta prevalentemente a cause endogene e non a “perfide manovre” dell’imperialismo, analogamente a quanto era avvenuto con l’esplosione dell’URSS e della Jugoslavia).
Quello su cui varrà la pena di indagare (e che è il motivo della scelta della Castellina e mia di ricostruire le speranze suscitate dalla prima fase della rivoluzione repubblicana libica) sono le ragioni dell’involuzione. Che non vanno ricercate negli aspetti esteriori e pittoreschi del piccolo Bonaparte di Tripoli, o nelle frasi fatte fatalistiche sulle “rivoluzioni che mangiano i propri figli”, ma negli effetti a catena della terribile involuzione di tutto il movimento operaio e di tutti i movimenti di liberazione nazionale, per effetto della poderosa forza di attrazione e di corruzione della burocrazia sovietica. Effetti a catena, dico, perché nel conto dei fattori che hanno facilitato l’involuzione dei movimenti anticoloniali (penso anche e in primo luogo a quello palestinese, ovviamente) c’è la sparizione totale di ogni idea di sinistra nel movimento operaio europeo, e in particolare in quello ex comunista, che certo non ha il diritto di giudicare nessuno, se prima di tutto non comincia a guardarsi allo specchio…
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Postilla
Per evitare equivoci, il senso di questa nota era semplicemente di evitare ogni demonizzazione della rivoluzione libica fin dalle sue origini, con la stessa metodologia usata per cancellare la rivoluzione russa del 1917 attribuendole le caratteristiche della tragica involuzione staliniana o della penosa agonia negli anni del declino, o il PCI della resistenza, criticabile per la sua subordinazione alle esigenze tattiche della burocrazia sovietica, ma pur sempre grande nella generosità dei suoi militanti, attribuendogli la miseria morale e politica degli epigoni D’Alema, Veltroni o Bersani… Un atteggiamento il mio che non “assolve” certo Gheddafi, ma casomai gli nega anche le attenuanti generiche: è infatti una colpa ancora più grave essersi allontanato tanto dal punto di partenza e dai progetti iniziali, su quasi tutto, tranne che sulla concezione della donna, che non è certo quella che possiamo auspicare ma è comunque in contrasto assoluto con quelle dell’Arabia Saudita, degli Emirati del Golfo o dell’Iran (che non a caso si è affrettato a condannare l’empio Gheddafi). In Italia si è scherzato molto sulle amazzoni che formano la sua guardia del corpo, assimilandole di fatto alle ninfette di Berlusconi. In realtà mi ha sempre colpito in Libia vedere molte donne in divisa militare alla guida di carri armati, o in uscita dalle Accademie militari. E in questi giorni se ne sono viste alcune che hanno aderito alla rivolta, che evidentemente non è (almeno per ora...) guidata da al Qaeda, come insinuano invece i ministri di Gheddafi e quelli di Berlusconi...
Un’altra ragione che mi ha spinto a queste messe a punto è la sensazione che la drammatizzazione delle vicende, con notizie non confermate di bombardamenti e di scavi preventivi di “fosse comuni” sulla spiaggia, serva a giustificare un intervento italiano o dei paesi europei del sud, per “controllare le frontiere esterne”, bloccare un esodo del tutto ipotetico, e in realtà per pesare sull’assetto finale, con o senza Gheddafi…

(a.m. 24/2/11)

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