27.2.11

Fortini. Il comunismo come possibilità (Roberto Monicchia)

Le recensioni di Roberto Monicchia sono spesso più che recensioni, sono ricognizioni problematiche su temi, autori, nodi storici e teorici. Vale anche per questa: un libro su Fortini, che gli consente di fare il punto sulla questione degl’intellettuali dalla guerra fredda al neocapitalismo. (S.L.L.)  
La serrata analisi della figura di Franco Fortini compiuta dal giovane Daniele Balicco (Non parlo a tutti. Franco Fortini intellettuale politico, Manifestolibri, Roma 2006), si concentra sulla critica delle forme e degli strumenti del “mandato sociale” dell’intellettuale. La riflessione su funzione e ruolo del letterato sono una costante in Fortini, a partire dal momento in cui la sua formazione umanistica nell’ambiente dell’ermetismo fiorentino, intrecciata con la severa morale luterana, incontra in Svizzera le esperienze dell’antifascismo socialista. Fortini è parte di quella generazione che dalla guerra e dalla resistenza è avviata, quasi costretta, ad una relazione ininterrotta con la politica: si pensi ai casi simili di Rossanda e Pintor. E’ dunque e fino in fondo un “intellettuale della guerra fredda”.
Sulla direzione, il senso, le modalità dell’impegno politico degli intellettuali egli disegna una posizione critica originale, irriducibile ai conformismi contro cui lotterà per tutta la vita. Per Fortini l’attività critica ed estetica è sempre ad un tempo critica dello stato di cose presente e prefigurazione “simbolica”, formale, della possibilità (che non è mai certezza) del comunismo, che si presenta a sua volta, in linea con il Marx dei Manoscritti economico-filosofici, come liberazione dall’alienazione, da non rimandare ad un avvenire indeterminato, ma da iniziare nella pratica politica di presa di coscienza da parte della classe.
Nel decennio postbellico, quello della militanza socialista, del lavoro nel “Politecnico” di Vittorini, Fortini, a partire da un’adesione critica al frontismo, accentua gli elementi di critica allo stalinismo. I saggi sul “Politecnico” e quelli poi raccolti in Dieci inverni mettono in luce come la “politica culturale”togliattiana, affidando agli intellettuali un ruolo prestigioso ma subalterno, compia un’operazione simile a quella della borghesia in ascesa, separando l’egemonia culturale dal dominio politico. Questa operazione ha pesanti conseguenze, poiché rende equivoco, sostanzialmente moderato, il progetto antifascista, e recide il legame tra cultura, economia e politica, precludendo l’analisi di classe e l’autonomia del soggetto rivoluzionario. I “dieci inverni” vedono così l’accumularsi di acute polemiche verso la vulgata letteraria nazional-popolare, considerata populista e non classista, insieme alla rivendicazione coerente della funzione politica del lavoro intellettuale. Questa proposta assume caratteri più precisi dopo la crisi del 1956, che rende possibile una “uscita da sinistra” alla crisi dello stalinismo.
Il tema del comunismo si ripropone, dunque, negli anni della tumultuosa nuova fase di sviluppo del capitalismo. Il Fortini di “Menabò”, di “Ragionamenti”, dei “Quaderni piacentini”, cerca di tenere insieme i due elementi. L’analisi del neocapitalismo, parallela a quelle di Panzieri e Tronti, mostra come lo sviluppo tecnologico determina un salto di qualità dello sfruttamento e dell’alienazione.
Ne è parte integrante l’esercizio diretto dell’egemonia da parte dell’industria culturale: la delega al ceto intellettuale - con relativa falsa coscienza di autonomia - viene ritirata, il letterato diviene un funzionario salariato del capitale. L’enorme capacità assimilatrice dell’industria culturale - che metabolizza anche le provocazioni e le critiche - porta Fortini a mettere in discussione le velleità delle neoavanguardie e le fughe nell’estetismo, ma anche a non cedere alla rassegnazione.
La risposta alla duplice distorsione - neocapitalista e stalinista - del ruolo intellettuale si configura in primo luogo come il tentativo di un’autogestione del lavoro culturale che perlomeno sveli i meccanismi alienanti dell’industria culturale. Accanto a ciò vi è l’interrogazione continua sulla funzione stessa della cultura, a rischio nell’omologazione del neocapitalismo.
Ripercorrendo a posteriori le diverse opzioni dell’impegno politico emerse ai tempi dei fronti popolari (Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo), Fortini cerca una sintesi dialettica tra le ipotesi di Lukacs e quelle di Brecht, prefigurando una tensione permanente tra opera d’arte e lotta per il comunismo, in cui l’una sia la “anticipazione” formale-simbolica dell’altra. Resta netto, definitivo, il rifiuto della separazione dei ruoli di cultura e politica (la battaglia e le idee, piuttosto che la battaglia delle idee), mentre l’istanza dell’autorganizzazione del soggetto della trasformazione (come nella Lettera agli amici di Piacenza) è uno dei motivi guida della stagione del ’68, di cui Fortini è in qualche modo “maestro suo malgrado”.
Questa impostazione, che accetta il rischio della verifica continua dei propri assunti, è tutt’uno con il carattere obliquo, metaforico della scrittura fortiniana, in cui ogni sollecitazione non vale solo per sé, ma rimanda ad un contesto variabile, fitto di relazioni biunivoche tra parola poetica e azione politica. Fortini non era affatto un “generoso ingenuo”, sapeva bene che una integrazione reale tra estetica e politica sarebbe niente di meno che il frutto maturo del comunismo, la ricomposizione dell’uomo con se stesso, ovvero una scommessa molto azzardata.
Per lo stesso motivo non era neanche un cinico spregiatore dell’utopia e della possibilità.
Il suo richiamo - sull’eco dell’amato Brecht - a “preservare le nostre verità”, in attesa di tempi migliori, è un messaggio nella bottiglia da tenere in considerazione, per resistere all’attuale tempesta ed evitare ulteriori naufragi.

Da "micropolis", dicembre 2006

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