6.2.11

20 anni senza il Pci. L'articolo della domenica.

Salvo proroghe dovrebbe essersi chiusa ieri, a Roma, la mostra sul Pci nella storia d’Italia che aveva trovato la sua sede nel Palazzo dell’Architettura. Non sono riuscito a vederla. Spero, perciò, che sia ripetuta altrove, anche perché  ne hanno detto assai bene le cronache e i cari amici che l’hanno visitata, antichi militanti che vi hanno ritrovato una parte di sé.
Negli ultimi quindici giorni anche due anniversari hanno richiamato qualche attenzione sul partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer: i novant’anni dalla fondazione a Livorno e i vent’anni dallo scioglimento, il 3 febbraio del 1991 a Rimini.
Vent’anni fa tra i sostenitori della svolta di Occhetto e della scelta di dar vita a un nuovo partito non mancava l’entusiasmo. Benché quello scioglimento apparisse necessitato dalla storica sconfitta del progetto comunista del XX secolo, non pochi pensavano che il nuovo partito, il Pds, avrebbe tenuto il campo onorevolmente e avrebbe superato il tabù del governo.
Quelle speranze si sono in parte realizzate. Esponenti del disciolto Pci, riciclati nel nuovo partito (nei nuovi partiti), hanno ottenuto ministeri, sottosegretariati, cariche di sottogoverno. Uno di loro, senza baffi, è diventato addirittura presidente della Repubblica, un altro, coi baffetti, capo del governo, sebbene per pochissimo tempo.
Ma tutto questo ci consegna un’Italia diversa e migliore? E dentro di essa è cresciuto il ruolo e il peso delle classi lavoratrici che il Pci cercava di esprimere politicamente?
Non mi pare proprio. L’Italia d’oggi fa quasi schifo e il lavoro è stato di nuovo messo sotto, privato di poteri e diritti.
In verità il Pci ha rappresentato una grande anomalia nella storia d’Italia. Nel paese dell’individualismo più sfrenato, dei campanili, delle corporazioni e delle camarille, del “tengo famiglia”, quel partito affermava principi di socialità e di responsabilità tanto forti da porlo in opposizione alla storia passata del paese, di cui il tracotante “me ne frego” dei fascisti aveva sintetizzato atavici opportunismi e vizi difficili da estirpare.
Il Pci agiva un po’ da chiesa, ma i suoi quadri nazionali e locali parlavano dappertutto lo stesso linguaggio e provavano a far corrispondere gli atti alle parole. Spesso poi i burocratici comunisti mostravano un senso del dovere, una sobrietà di comportamenti pubblici (e privati) sorprendente in un paese di arruffoni e di arraffoni.
Il Pci, per farla breve, espresse, per la prima volta a livello organizzato e di larghe masse, un principio di riforma intellettuale e morale in un paese che non aveva avuto la riforma religiosa, ma conosceva solo controriforme, e in cui i conati di incivilimento dei costumi politici e sociali avevano prima di allora riguardato solo ristretti gruppi intellettuali.
La presenza nell’Italia repubblicana del Pci (di una sorta di “paese nel paese” – diceva Pasolini) non era esente da settarismi, autoritarismi, inganni ed autoinganni, ma contribuì a far crescere la partecipazione democratica e l’etica pubblica, anche negli altri.
Era possibile e utile tenere in vita il Pci dopo il crollo dell’Unione sovietica e la fine delle sue ragioni originarie? Qualcuno – Lucio Magri per esempio – sostiene di sì; sostiene che erano ancora possibili, se i gruppi dirigenti l’avessero voluto e ne fossero stati capaci, un’efficace resistenza alle pressioni degli avversari di classe, un rinnovamento democratico, una rimotivazione delle istanze radicali di trasformazione socialista.
La storia coi “se” si può anche fare, ma non c’è controprova. E non ha tutti i torti chi pensa che il cedimento del Pci e la sua trasformazione in una macchina di potere, priva di sicuri riferimenti sociali e ideali, siano avvenuti già negli anni Ottanta, dopo la scomparsa di Berlinguer, e che la svolta di Occhetto servisse a sancire processi in gran parte già compiuti.
Dopo lo scioglimento del Pci è fallita, travolta dagli interni opportunismi e dalle dinamiche della cosiddetta seconda repubblica, anche l’ipotesi, prospettata da Garavini, di un partito più piccolo che esprimesse insieme una buona continuità comunista e istanze di “rifondazione”.
Si comprende pertanto che in chi l’ha conosciuto cresca la nostalgia del Pci e che il confronto con l’oggi renda più accettabili perfino i suoi difetti.
Ho letto ieri su Fb che qualche decina di intellettuali e militanti del sindacato e di Rifondazione, in sintonia con Diliberto e altri del suo partitino, vorrebbero, dopo nuove miniscissioni, ricostruire il Pci. In un film Erminio Macario diceva che “la nostalgia è una brutta malattia” e sosteneva di aver conosciuto, a Cuneo, uno che ne era morto. Io non penso che questi compagni possano morire di nostalgia, ma credo che non concluderanno molto.
I partiti comunisti nacquero sulla spinta di una rivoluzione vittoriosa ed è improbabile che se ne possano ricostruire in una fase storica come quella che viviamo. Questo non significa dimenticare la storia del Pci, da cui c’è ancora tanto da imparare, significa piuttosto fare un passo indietro per permettere domani, a noi stessi o ad altri, di farne due avanti.
Un modello storico esiste. Marx, dopo il fallimento (dal suo punto di vista) delle rivoluzioni del 1848, fece un passo indietro, sciolse la Lega dei Comunisti per dare vita ad un’altra formazione, molto più aperta ed inclusiva. Vi aderirono gli anarchici e socialisti d'ogni sfumatura, per qualche tempo i mazziniani. Era l’Associazione Internazionale dei Lavoratori, la prima Internazionale.
Da allora quasi tutto è cambiato, nell’organizzazione produttiva, nelle forme di comunicazione, nelle culture e nei linguaggi, e sono emerse nuove potenti contraddizioni che qui posso solo evocare: la questione femminile, la questione ambientale. Mi pare tuttavia che il mondo (e dentro di esso l’Italia) non vada affatto bene. E urgente mi pare l’esigenza di riprendere percorsi di liberazione del lavoro, di trasformazione sociale. Solo in un terreno nuovo, tuttavia, solo in un campo aperto, la storia migliore del grande Pci può trovare linfa e dare buoni frutti.  

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