5.1.11

Lo zdanovismo nel Pci (di Italo Calvino)

Italo Calvino
Mercoledì 14 dicembre 1977 "la Repubblica" dedicava il paginone centrale ad Andrej Zdanov e allo zdanovismo. Tra l'altro contiene un'intervista di Bernardo Valli ad Italo Calvino da cui ho ripreso qui un ampio stralcio saltando le domande.(S.L.L.)
Dopo la liberazione passarono un paio di anni in cui la politica culturale del Pci non era ancora ben definita e la pressione per uniformarsi al modello sovietico non si faceva ancora sentire. C’erano polemiche di gruppo e di tendenze e anche forti settarismi, ma in un’atmosfera generale di ricerca e di innovazione. L’Urss era vista ancora con immagini del clima rivoluzionario, diciamo majakovskiane.
Il primo episodio intimidatorio clamoroso, a mio ricordo, fu nel 1947 un articolo della Pravda contro Picasso, di cui veniva condannato il “formalismo”. Era un lungo articolo, con fotografie di suoi quadri pubblicate per dimostrare quanto erano brutti e ridicoli. L’articolo ebbe molta risonanza in Occidente, dove Picasso era l’artista comunista più famoso ed era considerato come l’alfiere della battaglia per una nuova cultura. Quell’attacco non credo fosse firmato Zdanov, ma inaugurò l’era delle scomuniche che resta legata al suo nome.
Il nome di Zdanov ricordo di averlo letto per la prima volta come autore d’uno scritto contro una storia della filosofia pubblicata allora in Urss. La diffusione di questo testo provava che Andrej Zdanov, che aveva diretto l’organizzazione di partito a Leningrado assediata durante la guerra, aveva acquistato un’autorità ideologica seconda solo a quella di Stalin. Nello stesso periodo ci fu la critica di Zdanov al “formalismo” dei musicisti sovietici, tra cui Sciostakovic, e la condanna alle riviste letterarie leningradesi con la poetessa Achmatova.
Quello fu un momento davvero allucinante: tutta l’autorità di questo Partito-Stato onnipotente che scagliava i suoi fulmini contro un’anziana poetessa, autrice di versi delicati e raffinati. Mai il potere politico aveva rappresentato in modo più paradossale l’incapacità di riconoscere che il proprio discorso non esaurisce tutti i discorsi possibili. E mai era capitato alla poesia di mostrare i suoi poteri in maniera altrettanto emblematica: provocando con la sua flebile voce  una condanna così tonante.
Di lì a poco Zdanov, all’apogeo della sua autorità, mentre i suoi scritti venivano tradotti in tutte le lingue, morì di non si sa quale accidente e fu sepolto con tutti gli onori. Lo zdanovismo continuò estendendosi alle scienze (Lysenko) e allo stesso marxismo (le scomuniche ideologiche di Lukàcs a Budapest), tutto questo soprattutto negli anni 1948-1953.
Togliatti  anche nella cultura, come nella politica, cercava di muoversi nelle linee generali dettate da Stalin al movimento comunista internazionale per sviluppare una politica che aveva dietro ragioni italiana, una continuità di storia italiana. In quello era molto abile, oltre a crederci veramente, nel suo storicismo, nella sua sfiducia per ogni improvvisazione. Aveva il senso di quel che era il mondo culturale italiano di allora, più sensibile alla continuità che all’innovazione appena si usciva dagli ambienti di punta. Amava ostentare gusti classicisti e studi filologici. Faceva le sue polemiche culturali su Rinascita sotto lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, che nella novella di Machiavelli è il nome sotto cui si nasconde Belfagor, l’arcidiavolo travestito da cavaliere. In questi suoi corsivi poteva avere la mano pesante (come con i pittori, nel 1948) e nelle polemiche non concedeva nulla all’avversario (Vittorini, Massimo Mila, Norberto Bobbio).
Nello stesso tempo cercava di neutralizzare le pulsioni degli zdanoviani espliciti nel partito, di quelli che importavano le direttive sovietiche pari pari, senza neppure lo sforzo di “tradurle”. Per esempio, nel momento in cui in Urss vennero decretati classici della critica letteraria i democratici russi dell’Ottocento, Belinskij, Dobroljubov, Cerniscevskij e anche in Italia si progettavano opere complete di quei tre autori. Togliatti trovava modo di dire in un suo discorso che era meglio studiare  prima bene De Sanctis. Quelli che gli sono stati più vicini raccontano che detestava i romanzi sovietici.
L’operazione culturale che Togliatti seppe condurre meglio fu la pubblicazione delle carte di Gramsci, che nel giro di pochi anni, tra il 47 e il 50, fece di Gramsci un punto di riferimento centrale, mentre prima era un autore assolutamente inedito e sconosciuto. Questa valorizzazione di Gramsci come personalità intellettuale italiana autonoma, fuori dallo stretto uso di partito, fu un’iniziativa personale di Togliatti che di solito si sottovalutava come  se fosse del tutto ovvia e naturale, mentre non lo era affatto.
L’ufficio del lavoro culturale fu creato, credo, nel 47-48 e affidato a Emilio Sereni: le impostazioni zdanoviane più pesanti ebbero come propagatore in Italia quest’uomo che era invece estroso, paradossale, napoletano, euforico, efficientissimo, di cultura vivace e geniale; tutte doti che non gli impedirono di esercitare allora un’influenza disastrosa. 

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