2.12.10

Nostalgico slow. Quando non c'era ancora la Padania.

Anni ottanta del 900. Una cascina abbandonata nel bussetano 
In un passaggio recente la provincia di Parma non mi è sembrata più quella di trent’anni fa, il tempo di un altro un po’ più lungo passaggio: non solo per alcuni evidenti fenomeni di esagerata edificazione e cementificazione, ma anche per una perdita progressiva di cultura, di civiltà. Ed anche di identità.
Il progredire della Lega, anche qui ormai evidente, non ha nulla a che vedere con la storia del territorio, la conservazione del paesaggio, delle sensazioni che restituisce, delle passioni che alimenta. Ed ha invece molto a che vedere con la paura del diverso, con l’odio. Il “padano” di Bossi nulla conserva in sé dell’ incivilimento della grande Valle, quella che in modi diversi Soldati, Malerba, Guccini hanno cantato e di cui avverti la duratura potenza soprattutto nei cibi, nella loro forma, colore, sapore e, soprattutto, odore.
Questo ho pensato, risfogliando e rileggendo un vecchissimo inserto di “Panorama” (28 marzo 1983) dal titolo Le mie cucine, curato da Marco Garnaschelli Scotti e dedicato a un famoso ristoratore, Giuseppe Cantarelli. Cantarelli racconta di tempi, luoghi e locali, piatti e letture, spiega come si fa il culatello, come il parmigiano, come si prepara la semplice e sublime zuppa di cipolle o la lingua di manzo.
Un’altra volta “posterò” quelle pagine. Oggi che “il mio cuore è pieno di nostalgia” per un mondo che qualcuno sta distruggendo (penso alla musica lirica, tra l’altro), voglio trascrivere qualche rigo di rievocazione, di Garnaschelli Scotti, che mi pare restituire un tempo perduto. Chi abbia trascorso un po’ di tempo tra Busseto, Soragna, Samboseto, San Secondo, anche da turista, purché con attenzione, quando non c’era ancora la Padania e c’era ancora la Valle del Po, sa a che cosa alludo e che cosa rimpiango. (S.L.L.)
Giuseppe Cantarelli
Alle soglie degli anni Cinquanta la provincia di Parma è un’area a economia prevalentemente agricola; la campagna ha ancora il suo aspetto tradizionale, con i grandi filari di gelsi e di olmi cui si aggrappa la vite, come la descrisse Shelley nel 1818: “… il grano e l’erba da foraggio crescono sotto alberi grandi e massicci, legati l’uno all’altro da festoni regolari di vite”. Se industria esiste è prevalentemente dedicata alla trasformazione dei prodotti agricoli, alla produzione di quelle specialità celebrate dai viaggiatori fin dal Rinascimento, il “Jambon de Parme”, il prosciutto che si trova sulle tavole dei re, o il “Parmesan cheese”, il formaggio famoso da Londra a Costantinopoli. Su questa base di prodotti eccellenti si fonda una gastronomia un po’ immobile, che preferisce l’analisi e il perfezionamento infiniti dei piatti classici alla scoperta di sapori nuovi, che fa più del commento che della ricerca o, se vogliamo un paragone letterario, ha a più a che fare con Boileau che con Baudelaire. I “come deve essere” dell’anolino o del tortello d’erbetta danno luogo a discussioni senza fine come quelle sulle interpretazione dei tenori al Regio, di formano accademie in favore o contro il “brodo di terza” (che comprende carne suina). 

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