5.11.10

Storie di Mazzarino. Il barone Beppuzzo (di Giorgio Frasca Polara)

Al paese di Mazzarino è legata qualche memoria familiare. Mio nonno Vittorio, maresciallo dei carabinieri, vi comandò la stazione negli anni Trenta e nacquero lì due dei miei zii materni, Gigi e Umberto. Nella memoria di mia madre, che quel paese lasciò bambina, la partenza del nonno alla stazione fu salutata con grande rimpianto e qualche ragione di gratitudine da una folla di popolani del luogo. Racconta la mamma che era scomparsa una donna, criata di un nobiluomo della potentissima famiglia Bartoli, forse sua amante. Con poliziesco intùito il nonno aveva capito che l'assassino era quel barone e aveva continuato le indagini, benché fortemente dissuaso da superiori dell'Arma, nonché da capi e capetti fascisti: "Vi giocate la carriera, maresciallo. Finirete in Sardegna!". Non andò così: il cadavere fu recuperato in fondo a un pozzo e l'aristocratico confessò. Non ho fatto verifiche, ma la storia dev'essere vera: il nonno Vittorio era uomo tutto d'un pezzo, cocciuto nei suoi convincimenti e intendimenti.
Rileggo ora un bel libretto di Giorgio Frasca Polara  su una storia che appassionò l'intera Italia negli anni cinquanta, La terribile istoria dei frati di Mazzarino (Sellerio, 1987): alcuni francescani di un convento avevano cooperato alle estorsioni della mafia ed erano stati scoperti, denunciati, incarcerati. Ne seguì un lungo e controverso processo. Il primo capitolo del piccolo volume è dedicato al latifondo e allo strapotere della famiglia Bartoli. Vi ho trovato una spiegazione convincente all'affetto dei mazzarinesi per mio nonno, di carattere piuttosto chiuso e scorbutico: era di necessità simpatico e amabile ai più un maresciallo che aveva osato sfidare la tirannide aristocratica. (S.L.L.)   
Mazzarino (Cl). Il balcone di un palazzo nobiliare

“In questo territorio della Sicilia, più che altrove, abbiamo constatato che l’accentramento della proprietà – due terzi è latifondo – è quello che mantiene e conserva una deplorevole dissonanza  tra istituzioni politiche e amministrative, fra la legislazione civile che la Sicilia ha in comune con il resto dell’Italia e le condizioni reali di questa società. Ed è facile constatare che tale dissonanza rende spesso inutili gli effetti delle leggi e delle sane istituzioni”, scriveva Giuseppe Gesualdo descrivendo come andavano le cose Ove più impera il latifondismo. Che è appunto il titolo di un libriccino apparso per i tipi fiorentini di Barbèra nell’anno XVII dell’era fascista, a firma di un erudito, il sedicente “buon fascista” Gesualdo appunto, tanto appassionato quanto candido nel denunciare che il potere, ufficiale e ufficioso, a Mazzarino ce l’avevano appunto e solo “elementi latifondisti spesso impreparati a seguire le direttive di redenzione umana e terrena voluta dal Duce”…
Tra quegli “elementi latifondisti” si faceva le ossa il barone Beppuzzo. Ancora bambino, Beppuzzo, sprofondato in una grande poltrona di velluto rosso, amava osservare, dal balcone centrale del palazzo avito, la folla dei paesani che nei meriggi domenicali e sino a sera passeggiava lungo il corso, tra la chiesa madre e il municipio. Quando Beppuzzo scopriva tra i passanti un tipo di suo gusto, vecchio o giovane, lo indicava alla zia Pia puntando il dito: “Eccolo! Quello voglio!”.
Zia Pia, che sedeva un po’ più indietro nella penombra, con la corona del rosario in mano, faceva allora un segno al maggiordomo il quale, seguito da due robusti camerieri, si precipitava in strada. Qualche minuto dopo, e il passante era trascinato nel salone, obbligato a inginocchiarsi, e Beppuzzo si divertiva a tirargli calci nel sedere. Solo quando Beppuzzo si era stancato di quell’innocente e signorile giuoco, il malcapitato veniva rimesso in libertà: zia Pia faceva dare qualche lira di mancia per il disturbo.
Se qualcuno della famiglia di Beppuzzo moriva, tutte le chiese di Mazzarino erano addobbate con la stoffa nera, all’esterno e all’interno. Chilometri di ruvida stoffa che, dopo i funerali, venivano divisi in pezze da quattro metri e distribuite dalla folla che si recava nel cortile del palazzo per presentare le condoglianze. Era Beppuzzo a indicare a chi, tra quella gente coperta di stracci dovesse essere regalata la stoffa. A questo sì. A questo no. Con quella stoffa nera centinaia e centinaia di mazzarinesi potevano finalmente farsi un abito nuovo, mentre dal balcone Beppuzzo e zia Pia osservavano compiaciuti tutta la gente obbligata dalla miseria a vestire a lutto.
E sul finire della seconda guerra mondiale, l’odio esplose daccapo a Mazzarino, con gli alleati che avevano già liberato la Sicilia e quell’Umberto di Savoia che spediva cartoline per richiamare all’armi i più giovani, assetati di libertà e affamati di terra.
La nuova, tremenda ribellione non risparmiò nulla e nessuno dei simboli del vecchio potere feudale e statale. Era il settembre del ’44 e, come, un secolo prima, comune e pretura vennero dati alle fiamme, e assaltati l’esattoria e le case baronali. Fuggì il capo della famiglia Bartoli, Luisa, che ne aveva ben donde: baronessa, e feudataria, e gestore dell’esattoria. Invasero il suo palazzo, riempirono le federe di tutte le am-lire ammassate negli armadi e, senza rubare un soldo, ne fecero roghi, bruciando, con il denaro, tutto quello che li aveva oppressi ed emarginati. Fu una rivolta furiosa, senza guida, e senza sbocco, disperata e disperante, da cui potevano venire solo repressione e restaurazione. La strada per cambiare le cose davvero era lunga e faticosa.
Cominciò qualche anno dopo con l’occupazione del feudo Ratumeni. L’orda era diventata un esercito, organizzato e disciplinato. E lentamente quella stagione di durissime lotte dette i suoi frutti.

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