4.11.10

I Fasci Siciliani. Bosco e De Felice a Campobello di Licata (di Adolfo Rossi)

Su Facebook Giuseppina Ficarra mi ha taggato in una sua nota che rinvia a un sito di sua pertinenza (http://www.spazioamico.it/Adolfo%20Rossi.htm ), ove si trova, integrale, un testo prezioso sui “Fasci siciliani” di un bravo giornalista de “La Tribuna”, Adolfo Rossi, che, del tutto alieno da simpatie socialiste, era stato in Sicilia per un inchiesta sul movimento e aveva visitato, tra l’altro, diverse zone delle province di Girgenti e Caltanissetta, seguendo due popolari capi dei Fasci, Garibaldi Bosco e Giuseppe De Felice Giuffrida. Dal volumetto, che raccoglie gli onestissimi articoli che scrisse, si ricava un’idea molto vivida delle condizioni della Sicilia, dei Fasci, del socialismo isolano, delle idee e dei valori che nutrivano contadini, minatori e popolani in rivolta. 
Qui propongo le pagine dedicate alla visita del mio paese e delle miniere di zolfo nei suoi dintorni. E’ il 1893. A Campobello di Licata Bosco e De Felice erano diretti e dovevano arrivare in treno al mattino per inaugurare una cooperativa, ma erano stati fatti scendere a furor di popolo dal Fascio di Canicattì. A Campobello giunsero solo nella tarda serata, dopo essere passati da Delia e Sommatino. (S.L.L.)
Zolfara
Alle 6 e mezzo, i giovani agitatori venivano salutati lungo la strada dal Fascio di Sommatino, che contava più di 1800 soci, con una sezione di 200 donne. Ne era presidente Luigi Calogero Grasso, già segretario comunale.
Per festeggiare l’arrivo di Bosco e di De Felice si erano accesi dei grandi fuochi di paglia e l’ingresso nel paese, fra due o tremila persone avvolte dalla solita polvere, fu uno spettacolo chiassosamente fantastico. La facciata della sede del Fascio era tutta adorna di festoni di mortella e illuminata a lampioncini.
Da un tavolo De Felice e Bosco dovettero naturalmente parlare. Poi a cavallo di muli si partì alle 9 pom. alla volta di Campobello, dove Bosco e De Felice erano aspettati fino dal pomeriggio dove si sarebbero recati direttamente con la ferrovia, senza la involontaria fermata, a Canicattì per inaugurare una Cooperativa di consumo.
Campobello di Licata, in provincia di Girgenti è un paese di 7000 abitanti, sopra una collina situato in una fertile regione. Il Fascio, uno dei meglio organizzati, era presieduto dal giovane avvocato Antonino Scutieri. Tutti i soci portavano una coccarda rossa; i capisezione avevano una fascia pure rossa al braccio, col numero progressivo della sezione stessa.
Si credeva che, per il lungo ritardo, i soci si fossero stancati di aspettare. Invece essi, con la bandiera rossa e la fanfara, aspettavano De Felice e Bosco a qualche chilometro dal paese. Dieci ore di attesa non avevano fatto perder loro la pazienza! Appena l'approssimarsi dei muli che portavano De Felice, Bosco e lo scrivente, coperti di polvere, fu avvertito nell'oscurità della notte, prese a suonare la fanfara, e uomini, donne e ragazzi, da due a tremila persone, recando torcie a vento e accendo fuochi di paglia, corsero verso i sopravvenienti. All'incontro fu uno scoppio d'entusiasmo indescrivibile.
L'ingresso nel paese ebbe luogo dopo le 11 e malgrado l’ora tarda, De Felice e Bosco dovettero parlare ancora! La mattina seguente il Fascio attraversava in processione il paese con le sue bandiere rosse e portando delle tabelle con motti socialisti. Uno diceva: “Divisi siamo chiamati canaglie; uniti saremo rispettati e faremo riconoscere i nostri diritti. Il Fascio di Ravanusa, un’altra grossa processione di contadini, era accorso a salutare i compagni di Campobello e a prender parte alla inaugurazione della Cooperativa di consumo”.
Lo spettacolo di quella processione di duemila e cinquecento o tremila contadini dalle carmagnole nere e dalle bandiere e dai distintivi rossi, era imponente. Pareva la dimostrazione di una Salvation Army, ma più seria.

Una discesa nella zolfara di Virdilio. — I carusi
Mentre mi trovavo a Campobello di Licata, avendo saputo che a sette chilometri dal paese esistono alcune importanti zolfare nelle quali lavoravano parecchi soci dei Fasci di Ravanusa, Campobello e altri comuni vicini, decisi di andare a visitarle.
De Felice, che sebbene siciliano non era mai sceso in una zolfara, volle accompagnarmi e ciò fece si che, appena ne furono informati, tre o quattrocento soci del Fascio con una dozzina di bandiere rosse deliberarono subito di seguirci.
Mentre aspettavamo i muli all'uscita del paese, davanti ad alcune misere casupole, un centinaio i donne, dopo averci portate due sedie, circondarono De Felice e gli dissero che a Campobello si soffre molta fame. Siccome non ha territorio proprio, il Comune ha imposto le tasse del fuocatico e del bestiame. I disgraziati i quali non possiedono che un somarello o un mulo coperto di guidaleschi devono pagare l’imposta. Ogni diroccata casupola poi, superfluo dirlo, è soggetta alla tassa sui fabbricati; e chi non paga se la vede messa all’asta.
Tre giovani spose, magre, patite, dissero poi piangendo che da nove mesi avevano i mariti in prigione senza sapere perché.
“E noi moriamo di fame!” - urlavano agitando davanti a noi sulle braccia i loro bambini macilenti -  E non sappiamo come fare con queste creature che domandano sempre del pane. I nostri mariti sono colpevoli di qualche cosa? Ebbene, li condannino, ma non ci tengano cosi tanti mesi in questa pena. Assassini! Assassini!”.
Quelle disgraziate facevano tanta compassione, che tutti i presenti avevano le lacrime agli occhi. Alle 3 finalmente partimmo colla numerosa scorta dei soci capitanati da alcuni capisezione con le fascie scarlatte a tracolla. Nelle ondulazioni del terreno sassoso, quella processione di contadini dalle carmagnole nere, con le bandiere rosse, era uno spettacolo nuovo: faceva venire alla mente le bande rivoluzionarie che un secolo fa andavano da un paese all’altro a piantare l’albero della libertà. Alcuni dei capisezione col viso completamente sbarbato avevano delle fisionomie serie di asceti; altri con le lunghe barbe sembravano dei David Lazzaretti.
Ci accompagnavano senza grida incomposte, ragionando seriamente della loro posizione. Al mio fianco camminava un intelligente ragazzo che portava una tabella infissa sopra un’asta, con la scritta: “L'avvenire è per noi”. Un'altra tabella recava i versi del canto dei lavoratori:
“Se divisi siam canaglia, Stretti in Fascio siam potenti”. A un certo punto, mentre attraversavamo la montuosa regione che separa Campobello dalle zolfare, vedemmo in lontananza un ragazzo di nove o dieci anni, basso e rachitico, che fuggiva per la campagna brulla, inseguito a duecento metri circa di distanza da un uomo senza berretto e dalle vesti bianche di zolfo, che per correre meglio s’era levate le scarpe e con esse minacciava il fuggitivo con atti di ira feroce.
“È un picconiere — ci dissero i contadini — che cerca di ripigliarsi un caruso scappato. Se lo prende, lo concia per le feste! Sono cose che succedono qui tutti i giorni”. Succedono tutti i giorni, ma sono cose barbare, che non dovrebbero essere tollerate in paesi civili. Davanti a quella fuga e a quell'inseguimento, a me pareva di assistere ad una scena della Capanna dello zio Tom della Beecher-Stowe.
I carusi, com’è noto, sono generalmente ragazzi dagli otto ai quindici o diciott’anni, che trasportano a spalla il minerale dello zolfo dalle profonde gallerie alla superficie, arrampicandosi su per gli strettissimi pozzi. I picconieri, cioè gli uomini che coi picconi staccano il minerale nelle gallerie, si procurano uno più carusi mediante un’anticipazione ai genitori dei ragazzi di una somma che varia dalle 100 alle 150 lire in farina o frumento. Preso così come una bestia da soma, il caruso appartiene al picconiere come un vero schiavo: non può essere libero finché non ha restituito la somma predetta e siccome non guadagna che pochi centesimi al giorno, la sua schiavitù dura per molti anni. Egli è maltrattato dal padre che non può liberarlo e dal picconiere che ha interesse di sfruttarlo il più lungamente possibile. E quando tenta di fuggire sono persecuzioni feroci.
“Ma fermate quel picconiere!” — gridammo a quelli del Fascio. Alcuni soci lo raggiunsero infatti e lo fermarono. Ma dopo una breve discussione vedemmo che lo lasciavano andare. “È nel suo diritto — ci dissero quando tornarono a noi — Il caruso gli appartiene”. “Quando si tratta di qualche scapaccione — ci disse un caruso che faceva parte della nostra comitiva — sono cose da nulla. Il male è quando il picconiere adopera il bastone. La settimana scorsa il caruso Angeleddu, d’anni tredici, fu ucciso dal suo picconiere con otto bastonate”. “E il picconiere non fu arrestato?”. “Non li arrestano mai. Chi s'incarica dei carusi? I carusi, quando muoiono ammazzati, per le autorità sono morti sempre di morte naturale. Poco tempo fa nella miniera Ficuzza un altro caruso morì in seguito ad un calcio nello stomaco”.
- Come ti chiami tu? — chiesi al caruso che ci narrava questi orrori. “Filippo Taglialana da Campobello. Ho tredici anni. Lavoro come caruso da cinque anni e sono in debito verso il picconiere di venticinque lire che non potrò mai pagare”. Tirammo innanzi molto tristi. Alle tre e mezzo giungevamo alla miniera detta la Mintina, dove il 10 giugno 1886 un improvviso franamento del terreno uccise nelle gallerie 142 (dico centoquarantadue) fra picconieri e carusi. Le gallerie sfruttate non erano mai state riempite e il loro numero eccessivo formando un gran vuoto sotterraneo aveva prodotto l'avvallamento.
In una depressione del terreno trovammo da un lato alcuni forni dove si purifica il minerale, circondati da cataste del minerale stesso. Qua e là si vedevano delle specie di nicchie in muratura: le aperture dei pozzi. Davanti ad esse stavano dei ragazzi dai nove ai quattordici anni completamente nudi e dei picconieri egualmente in costume adamitico, con una sola pezzuola sostenuta da uno spago, sulle parti genitali. Quei gruppi di ragazzi e di adulti dalla pelle bruna, che spiccavano sul terreno riarso e brullo — solo su qualche pendice si vedevano dei cactus e dei fichi d’India — non parevano di italiani, ma di africani o di indù.
Ma se lo spettacolo impressiona da lontano per la sua novità, da vicino stringe il cuore. I carusi portano impresse in tutta la persona le stigmate delle sofferenze a cui vengono sottoposti. Presi a lavorare a otto o nove anni, essi hanno generalmente lo spalle curve per l’eccessiva fatica, le gambe storte, le occhiaie incavate per l’insufficiente nutrimento, la fronte solcata da rughe precoci.
La legge che dovrebbe proteggere il lavoro dei fanciulli e secondo la quale nessun ragazzo potrebbe fare il caruso se non ha compiuto i dodici anni, non viene fatta osservare. Tutti i carusi che ho interrogato hanno cominciato a lavorare a otto o nove anni. La maggior parte mi dissero che non guadagnavano cinquanta centesimi al giorno e che questa mercede non veniva loro pagata io denaro ma in pessima farina a un prezzo superiore a quello che corre nei vicini paesi.
“E quando facciamo gli storti — aggiunse uno — (cioè quando non camminiamo svelti col nostro peso su per le scale) sono bastonate”.
“E quante ore lavorate?” — domandai.
“Generalmente dodici ore di seguito, dalle quattro alle quattro, per sei giorni consecutivi durante i quali dormiamo qui; al settimo giorno andiamo a riposarci in paese”.
“ E qui dove dormite?” “Per terra, in quelle grotte. E mi mostrarono alcune caverne, vere abitazioni da trogloditi”.
“I più fortunati — aggiunsero — dormono là. E mi condussero sotto una tettoia, annessa a un forno, tutto il mobilio della quale consisteva in un tavolato senza pagliericci. Appiedi di quel tavolato alcuni carusi stavano desinando col picconiere. Mangiavano pane e cipolla. — Bevete qualche dito di vino? — chiesi. — Vino? — fecero guardandomi sorpresi. — E chi ce lo dà? Avessimo almeno dell'acqua! Non c'è neppur quella. Nelle ore in cui dovremmo dormire, ci tocca far molta strada per andare a prenderne fon po’”.
“Quanti viaggi al giorno fai in media col tuo carico di minerale? — chiesi ad uno dei carusi. — Venticinque viaggi per ventisette soldi, su e giù per un pozzo lungo cinquanta canne (centotre metri). Altri carusi ci vennero intorno, tutti dagli organismi rovinati per l’eccessiva fatica, dallo sviluppo impedito: vere immagini di schiavi affamati. Appena sentirono che ci informavamo della loro sorte, cercarono qualche straccio da mettersi ai fianchi per avvicinarsi e dirci come sono trattati. Era uno spettacolo straziante. Qualcheduno di quegli infelicissimi aveva l'occhio intelligente e rispondeva con prontezza alle nostre domande; ma la maggior parte apparivano istupiditi dai patimenti e avevano lo sguardo come velato e spento, con le occhiaie livide.
Provammo a scendere in un pozzo della miniera la Mintina, ma era talmente stretto, ripido e malagevole, che fatti pochi metri dovemmo rinunziare a continuare. Ci pareva impossibile che dalle profondità di quel buco i poveri carusi potessero portar fuori sulle spalle i loro carichi di minerale.
Cercammo un ingresso un po' più largo e fummo condotti all’entrata numero tre della miniera Virdilio, nella quale lavoravano milletrecento fra picconieri e carusi. Due di questi ultimi, che avevano finito il loro turno di lavoro, si proffersero di accompagnare De Felice e me, mentre tre capisquadra si mettevano davanti all'apertura del pozzo per impedire che altri entrasse.
Alla luce tremolante delle due lucernine a olio che portavano i carusi, cominciammo a discendere in quel pozzo, curvandoci, sostenendoci con le mani alla volta. I gradini scavati nel masso sono irregolarissimi, ora alti e ora bassi, ora cogli angoli smussati, ora asciutti e ricoperti di polvere e ora bagnati e scivolosi.
Eravamo calati di pochi metri, quando vedemmo alcune deboli luci in fondo. Erano le lucernine di alcuni carusi che salivano curvi sotto il loro carico di minerale. Poi udimmo dei lamenti angosciosi Erano i gemiti dì quegli infelicissimi che si Sentivano più distintamente man mano che si avvicinavano a noi: gemiti e lamenti cadenzati di tènere creature ansanti e oppresse, che non potrebbero più salire e tirare innanzi ma che devono procedere a ogni costo per paura che capiti il picconiere ad incitarli col bastone o scottando loro i garretti con una lucerna.
Tanto io che De Felice al sentire i lamenti di quella processione di piccoli paria, ci sentivamo spezzare il cuore. E quando dovemmo scostarci per lasciar passare i carusi piegati sotto il carico, tremanti sulle gambe malferme, ne avemmo una così profonda impressione di pietà, che ci mettemmo a piangere come due bambini. — Possibile! — esclamavamo. — Possibile che da tanto tempo duri e si tolleri una tale infamia! Sapevamo ambedue per aver letto la relazione Jacini e altre inchieste rimaste infruttuose, che cosa sono i carusi, ma nessuno scrittore potrà darne mai un’idea sufficiente a chi non li ha veduti in quelle vere bolgie infernali.
Ne fermammo alcuni e alleggerendoli per un momento del loro carico composto di un sacco di piccoli pezzi di minerale e di un grosso pezzo di minerale fuori del sacco — complessivamente un prso di quaranta o cinquanta chilogrammi — constatammo che avevano la pelle delle spalle e di tutta la schiena escoriata, rossa o coperta di calli, di cicatrici e di lividure.
Procedemmo oltre e svoltando a sinistra in una seconda parte del pozzo dai gradini più alti e malagevoli della prima, incontrammo ben presto altre processioni di carusi curvi sotto la terribile soma e che mandavano continuamente quel lamento che spezza il cuore.
Notisi che quei poveretti non sapevano nulla che qualcheduno stesse per visitare la miniera: noi scendevamo nelle profondità della Virdilio all’insaputa dei picconieri e dei carusi. Piegati sotto i loro sacchi, i carusi non ci guardavano neppure. Ne sentii uno che diceva piangendo a un compagno: “Sugnu tantu stancu cca nun cci la fazzu cchiù a purtari lu saccu e staiu pi jttarlu ‘nterra (Sono tanto stanco che non posso più portare il sacco e sto per gettarlo a terra)”. Ad una terza svoltata trovai un caruso biondo disfatto dalla fatica, che non riuscendo più a salire aveva deposto il fardello e accoccolato sullo scalino piangeva silenziosamente. Aveva gli occhi azzurri colle palpebre tutte rosse e grosse lacrime gli rigavano le guancie incavate e illividite.
Nella mia vita giornalistica io ho assistito in Italia, in Francia, in Germania, in Inghilterra, in Africa, in America a scene orribili d’ogni maniera: fucilazioni, impiccagioni, linciaggi, massacri, morti d’ogni specie e nei lazzaretti e altrove. Nessuno spettacolo però mi aveva così profondamente colpito come quello della zolfara Virdilio: questo barbaro lavoro imposto a ragazzi cosi teneri (che nello stato in cui vivono sono poi anche vittime e della pederastia e d’altri orrori) è una cosa che grida vendetta, è la negazione di ogni più elementare principio di umanità. C'è da vergognarsi di essere nati in un paese dove una tale barbarie esiste ancora.
A che serve descrivere il resto della nostra discesa? Abbiamo trovato in fondo, a settantacinque metri di profondità, un paio di chilometri di gallerie, in alcune delle quali il caldo è soffocante. Alcuni picconieri, che lavoravano nudi essi pure, ci dissero che con tutto lo sfruttamento dei carusi non riescono a guadagnare più di lire due e mezza al giorno. Abbiamo veduto delle gallerie invase dal gas, nelle quali i lumini non ardono che tenuti a un metro e mezzo di altezza. Abbiamo saputo che quando il minerale non è di buona qualità, picconieri e carusi ci rimettono la loro fatica. Ma tutto sparisce, tutto è secondario di fronte alle atroci sofferenze dei carusi. Quando uscimmo con le vesti inzuppate di sudore come se fossimo stati immersi in una vasca d'acqua calda, eravamo incapaci di parlare e di riferire l’impressione provata.
Quando uscimmo con le vesti inzuppate di sudore come se fossimo stati immersi in una vasca d'acqua calda, eravamo incapaci di parlare e di riferire l’impressione provata.
Alcuni degli operai addetti alla zolfara Virdilio facevano parte dei Fasci, ma segretamente, perché se i direttori delle miniere lo avessero saputo li avrebbero cacciati. Così i zolfatari dei Fasci ricordavano i primi cristiani e dovevano riunirsi di nascosto nelle loro catacombe. Intendiamoci bene, alludo agli onesti che in buona fede si associavano credendo all’utilità dell’unione per i futuri miglioramenti delta loro condizione: fra i zolfatari anche molta canaglia della specie peggiore.
Parecchi neofiti dei Fasci avevano abbracciato con tanto entusiasmo la nuova fede socialista, che, quando nasceva un bambino, qualche padre invece di mandarlo in chiesa per il battesimo lo portava al Fascio. Durante quel giro De Felice e Garibaldi Bosco sono stati pregati più volte di essere i padrini socialisti di alcuni neonati.
Dopo la visita alla solfara, tornati a Campobello di Licata, dove tutta la popolazione aspettava De Felice per salutarlo con grandi fuochi di paglia e assordanti acclamazioni, partimmo subito in vettura alla volta di Sommatino, dove ci aveva preceduti Bosco. Lungo la strada, alle 9 pom., De Felice dovette fare un piccolo alt a Ravanusa per contentare i soci del Fascio che lo attendevano con musica e bandiere.

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