21.10.10

Walter Cremonte racconta Sandro Penna. 3. Liberare Penna

Posso sbagliare, ma ho l’impressione che ci siano in giro segnali che indicano una certa diffusa stanchezza per i discorsi da cui rispunta sempre fuori, in un modo o nell’altro, la questione dell’omosessualità di Penna (o più precisamente, della sua pederastia). Voglio dire, come questione centrale o dirimente di ogni approccio critico alla poesia di Sandro Penna, dal più semplice al più complesso ed elaborato. Cresce la voglia di leggere Penna “a prescindere”, e tornare a dare ragione a Luciano Anceschi, che già nel 1939 vedeva come nella sua poesia “questo indisciplinato eros si libera e si purifica in una naturalezza senza problemi”. Che non vuol dire sottovalutare idealisticamente la corporeità del desiderio vitale (Leopardi ha scritto: “E il corpo è l’uomo”), che resta la fonte prima di questa poesia; né assolutamente nascondere, censurare la pulsione su cui essa insiste, si può dire, dal primo all’ultimo verso. Vuol dire riconoscere che su questo è già stato detto tutto, e forse anche qualcosa di più. E allora semplicemente arrendersi all’evidenza di un canto limpidissimo: senza la litania di peccato-senso di colpa-pentimento, senza i “sì, però…” e senza, soprattutto, i “nonostante”; tornare a questo (semplice) dono: “La semplice poesia forse discende / distratta come cala al viaggiatore / entro l’arida folla di un convoglio / la mano sulla spalla di un ragazzo”.
Quei segnali che dicevo li ho potuti cogliere qui a Perugia, dove c’è stato, il mese scorso, un primo momento di ricordo di Penna nel centenario della sua nascita: non una commemorazione, niente di così aulico e solenne, ma un incontro conviviale amichevole e disteso, nella Sala Miliocchi di Corso Garibaldi (lì dove fuori, sulla parete, sono scritte le parole “libertà, uguaglianza, fratellanza”). C’è stata molta attenzione e, direi, una cura amorevole attorno alla poesia di Penna. Nessun intervento ha insistito sulla sessualità “proibita” del poeta: Vanni Capoccia, che ha introdotto la serata, ha rievocato un quadro nostalgico e affascinante della Perugia di un tempo, quando era forse possibile incontrare contemporaneamente nel suo corso Sandro Penna, Walter Binni, Aldo Capitini …; l’intervento assai competente di Sandro Allegrini si è incentrato sul linguaggio poetico di Penna e quello appassionato di Marco Rufini ha proposto un parallelo tra Penna e Pasolini, con sullo sfondo il tema dell’impegno dell’intellettuale.
E in una successiva conversazione anche Paolo Ottaviani, autore di un recente bel saggio che sviluppa in modo autonomo e originale un’idea di Garboli su Penna come antico e modernissimo laudator vitae, mi ha confessato una crescente stanchezza riguardo l’insistenza sul tema della condizione omosessuale del poeta. Io stesso, che mi ero intrattenuto più a lungo su contenuti e forme della poesia di Penna, dopo aver concesso il dovuto al dovuto avevo cercato di “staccare” per un attimo la lettura penniana dalla linea critica dominante: quella, pur così feconda, che da
Pasolini a Mengaldo propone un’interpretazione eufemistica, o eufemizzante, della costruzione formale rispetto al contenuto, per cui (Pasolini) la poesia di Penna trasferisce “su un piano linguistico purissimo le più tremende impurità”; e Mengaldo: “si può dire che la natura totalmente trasgressiva della tematica di Penna postula assolutamente un linguaggio non trasgressivo: l’eufemismo funge contemporaneamente da mascheramento e nobilitazione dell’istinto vitale”. Ecco spiegata la ragione della forma limpidissima di Penna, ecco spiegata la “grazia” che tutti i lettori hanno colto nella sua poesia (una grazia irripetibile e unica in tutto il nostro Novecento)!
Non ne sono più tanto convinto. E così ho proposto una lettura in parte diversa, dove lo splendore e l’innocenza della forma del dettato penniano non è solo un accorgimento eufemistico, ma in qualche modo corrisponde alla forma stessa del desiderio, che in sé è innocente perché viene sempre “un po’ prima” della coscienza del bene e del male; del desiderio che resiste ad ogni censura e repressione e salva i poeti dall’afasia o dalla retorica. Ho suggerito anche un’idea molto semplice, ma credo vera, e cioè che la poesia, nel “lungo tempo” a cui è destinata (quando è veramente poesia), è capace di allontanare da sé la (montaliana) occasione-spinta da cui nasce e di creare o ri-creare suggestioni e sentimenti diversi nei lettori, che diventano così, in qualche modo, co-autori e poeti essi stessi: tanto da fare, di quella poesia, “un’altra cosa”. Per esempio, io non riesco a ritrovare assolutamente, nella poesia che inizia con “Ecco il fanciullo acquatico e felice. /Ecco il fanciullo gravido di luce”, lo sguardo peccaminoso del pederasta, ma piuttosto lo sguardo pieno d’amore di un padre che rivede il proprio figliolo mentre esce da un mare “tutto fresco di colore”. E penso che chiunque vi possa riconoscere qualcosa di suo. Così, ancora per esempio, la poesia che
inizia con “Mi nasconda la notte e il dolce vento”: certamente questa poesia introduce il sentimento dell’esclusione (o auto-esclusione) sociale, dovuta allo stigma dell’irregolarità sessuale del poeta. Ma più rilevante è, secondo me, il tema (nascosto) dell’amore alla poesia, evidenziato dall’eco dell’amatissimo verso leopardiano “Dolce e chiara è la notte e senza vento”: amore alla poesia come compendio ed emblema dell’amore alla vita.
Dunque, non si tratta di nascondere nulla: si tratta di liberare Penna da quel “marchio” interpretativo, che se pure spiega moltissimo, rischia ogni volta di limitare (in senso proprio, di definire) la straordinaria voce di canto del nostro poeta, del poeta più assolutamente lirico di tutto il nostro Novecento.
Sarebbe bello che su questo ci fosse un dibattito, magari in quest’anno centenario della sua nascita o nel prossimo, trentesimo della sua morte. Si potrebbe dire: liberare Penna è la parola d’ordine!

da "micropolis", maggio 2006.

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