15.10.10

Umbria da salvare. A Gubbio troppi musei (di Pietro Scarpellini - "micropolis" maggio 2010)

Gubbio, Panorama
Ripropongo qui un articolo dalla rubrica di "micropolis" Umbria da salvare curata da Pietro Scarpellini, lo storico dell'arte e dirigente di "Italia nostra" scomparso il mese scorso. Il testo, di maggio 2010, dedicato ai beni culturali di Gubbio, non vuole essere solo un omaggio al grande studioso, ma un testo esemplare per rigore scientifico e approccio laico.
Una balestra del museo eugubino
A 50 anni di distanza il Comune di Gubbio ha ripensato il Piano regolatore di Giovanni Astengo con l’intenzione di rivederlo e aggiornarlo secondo le nuove esigenze che si sono concretizzate nel frattempo. La pubblicazione del nuovo progetto si ravvisa in un ampio documento redatto dall’ingegnere Luigi Casagrande, assistito da un nugolo di collaboratori, ed ha riscosso l’approvazione tanto del Consiglio comunale quanto dalla Provincia di Perugia.
Bisogna riconoscere che la relazione generale, anche se elaborata su un materiale raccolto diversi anni fa, appare apprezzabile, se non altro perché è corredata dei risultati di una conferenza partecipativa, alla quale hanno presenziato numerosi interlocutori, enti, categorie professionali, libere associazioni, le cui voci sono state fedelmente riportate anche quando risultano aspre e pungenti. Magari fosse stato adottato un atteggiamento consimile dal Comune di Perugia che ha sempre preferito chiudere la porta, lasciando fuori tutti i contestatori, a partire dalla stessa Italia Nostra. Vero è che le differenze tra i due Comuni umbri sono grandi. A Perugia, decenni di mala amministrazione sono riusciti a devastare il territorio e, sotto la spinta della speculazione, hanno invaso le aree verdi circostanti il capoluogo (vedere, ad esempio, cosa è successo a Pian di Massiano). A Gubbio questo non è avvenuto se non in misura molto ridotta, ma è certo che per capire bene la situazione appare innanzitutto necessario rendersi conto delle intrinseche profonde diversità culturali ed ambientali. La città dei Ceri ha un’estensione comunale enorme, 52508 ha, grandi spazi nei quali ci imbattiamo in una grande varietà di realtà paesaggistiche, antropiche, economiche. Dal punto di vista naturalistico si va dai contrafforti alpestri del Monte Ingino, alle forre, così pittoresche, delle Serre di Burano, pochissimo abitate, e ricche di foreste quasi intatte, che si prolungano sino al parco di Monte Cucco. Ci si estende dai boschi di Pietralunga ai boschi e pascoli di Fratticiola Selvatica, si percorre il vario e complesso sistema idrico che comprende i fiumi e i torrenti di tutta la zona del Chiascio. E chi vorrebbe dimenticarsi dei piccoli centri della zona orientale, prospicienti la piana, come Semonte, Mocaiana, Carbonesca, dove sussistono ancora le antiche tradizioni agricole? Per quanto, invece, riguarda la storia artistica, tutta l’area eugubina si sviluppa all’interno di una originalissima forma di autoctonia, dove lo sviluppo di un particolare pensiero si svolge quasi al di fuori di consistenti relazioni con l’esterno. Forse, mai come in questa città, ci è dato di avvertire una particolare temperatura formale e poetica che si ritorce su se stessa, senza perciò perder di intensità. Gubbio è insomma come un’isola nel mare così variegato delle tradizioni pittoriche dell’Italia mediana che resiste a lungo, fin quasi ai tempi moderni. Detto questo, a lode di una dichiarata fedeltà, da parte delle istituzioni, al proprio destino (senza, però, dimenticarci delle vecchia, savia massima, che di buone intenzioni sono lastricate le porte dell’inferno), veniamo ora allo specifico, cioè alle condizioni museali del centro storico che costituiscono, lasciando da parte lo sciame dei turisti occasionali, per gli studiosi e per il pubblico colto, il clou dell’attrazione. E qui, purtroppo, cominciano le dolenti note. In un contesto abitativo ridotto, oramai a poco più di 3mila persone, entro le mura, i musei sono troppi, circa 10, alcuni dei quali affatto inutili. Ma, quello che è peggio, non esiste un piano di collegamento tra di essi; assistiamo invece ad una politica di interessi particolari che non tiene conto delle esigenze di un visitatore acculturato. Il museo principale, il vero museo guida, dovrebbe essere quello insediato nel palazzo dei Consoli ove vengono raccolti in un itinerario storico, i vari momenti di questa civiltà figurativa che, come abbiamo detto, si perpetua nel tempo fin quasi all’età moderna. Cosa succede invece? Che, per esempio, il Museo diocesano rispecchi i particolari interessi dei canonici cui non importa un fico la verità scientifica, fino ad avallare una attribuzione assurda, come può essere il riconoscimento della mano di Raffaello, in un modesto stendardino, più plausibilmente riconducibile come, da studi recenti, al riminese Benedetto Coda. Altrettanto si dica per varie altre costituzioni museali, alcune delle quali addirittura , improbabili, oppure fittizie, come il Laboratorio della gola del Bottaccione, il Museo delle memorie ubaldiane, il Museo della balestra. In tale congiuntura, l’unico vero Museo che abbia potente ragione per venire continuamente visitato è l’interno di Santa Maria Nuova, restata chiusa per lunghissimo tempo, ed ora solo aperta, durante i fine settimana, dal 13 maggio al 2 giugno (vedi V. Santucci, “Il Giornale dell’Umbria”, 11 maggio 2010). Superfluo spiegare che il complesso di Santa Maria Nuova ha un valore cruciale per la storia stessa della città, oltre alla Madonna del Belvedere, celebre dipinto di Ottavio Nelli, e varie altre pitture murali attribuibili al XIV secolo, riunisce anche gli antichi arredi lignei provenienti da Sant’Agostino e dalla Chiesa di Santo Spirito. Ci si rivolge ora agli eugubini di buona razza che amano sul serio la loro città, e l’ingente cultura d’immagine da essa creata, perché richiamino i  responsabili alle loro vere e genuine funzioni che non consistono nel privilegiare le singole ambizioni, ma nel dar prova di un’autentica coscienza dei veri, irrinunciabili valori di cui restano custodi. Non quindi uno spezzatino, ove vien perso il filo di un percorso coerente, ma un discorso unitario, semplice, chiaro, ed accessibile a tutti.

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